di BENEDETTO VECCHI.

 

Per molte settimane, How to change the world (Come cambiare il mondo, Rizzoli) è stato in testa alle classifiche dei libri più venduti in Inghilterra. Era il 2011, l’Inghilterra era stata segnata dalla rivolta studentesca nella capitale, la crisi falcidiava posti di lavoro e lo stato correva in soccorso delle banche per salvarle dal fallimento. Per il quotidiano The Guardian, il successo di pubblico del libro era il segnale di un rinnovato interesse verso le tesi di Karl Marx, dato che il libro raccoglie saggi e articoli scritti da Eric Hobsbawm sull’opera marxiana e sulla ricezione inglese del pensiero di Antonio Gramsci. Eppure a leggere quel volume più che la testimonianza di una vitalità del marxismo ne esce fuori un invito da parte dello storico inglese a non chiudere gli occhi sull’incapacità politica da parte della sinistra europea di fare i conti con il capitalismo contemporaneo, le sue crisi e la tendenza a, nonostante tutto, «rivoluzionare continuamente i rapporti sociali» per salvarli dalle sue contraddizioni.

D’altronde Hobsbawm aveva già ampiamente sviluppato una rilettura dell’opera marxiana attraverso una chiave di lettura tanto affascinante, quanto impegnativa. Marx, aveva scritto nell’introduzione di un’edizione per i 150 anni del Manifesto del partito comunista, è stato il primo, grande studioso della globalizzazione, perché il capitale deve diffondere il suo modo di produzione per riprodursi. Ma in questa sua tendenza espansiva deve continuare a trasformarsi incessantemente, perché la crisi è immanente alla produzione capitalista. Bene, annotava lo storico inglese, Marx lo aveva scritto nel 1848: pagine profetiche e pienamente attuali di fronte alla crisi che ha sconvolto il capitalismo contemporaneo. Ma questa attualità non aiuta molto la spiegazione del perché non ci sia nessuno spettro del comunismo che s’aggira nel vecchio continente; o nel mondo, vista la «natura» ormai globale del capitale.

Da qui la necessità di uno studio non accademico, innovativo dell’opera marxiana, ma tuttavia all’insegna della continuità con le la tesi che, dopo averlo interpretato, il mondo va cambiato. Una posizione coerente con quanto Hobsbawm aveva definito come «piano di lavoro» della collettiva Storia del marxismo pubblicata da Einaudi sul finire degli anni Settanta e da lui diretta, laddove parlava dei molti marxismi novecenteschi, segnale di una ricchezza interpretativa che mostrava tuttavia segni di precoce «invecchiamento». Erano i tempi in cui veniva decretata la «crisi del marxismo», espressione che Hobsbawm non ha mai amato, perché considerata poco fondata storicamente e troppo frettolosamente liquidatoria.

A ben leggere invece i saggi contenuti in Come cambiare il mondo e quelli scritti per laStoria del marxismo i temi di una crisi del marxismo ci sono tutti, anche se in una prospettiva molto diversa da quella che, ad esempio, Louis Althusser aveva indicato dichiarando aperta «la crisi del marxismo». A chi sottolineava l’assenza di una teoria della politica in Marx, lo storico inglese ricordava infatti l’uso creativo che il filosofo di Treviri aveva fatto di Rousseau nella critica della democrazia «borghese»; oppure descriveva il modo originale con cui Marx aveva attinto al pensiero giacobino o ai testi del variegato e fortemente contrastato socialismo utopistico. Questo non significava che Marx avesse però una compiuta teoria dello stato. Era compito dei marxisti colmare questa lacuna. Lo stesso metodo, era riservato a chi invece guardava con sospetto alla teoria del valore-lavoro. Hobsbawm scrive che quella di Marx era una critica dell’economia politica e non un testo di economia, per poi però assegnare alla teoria del valore-lavoro un fondamento economico.

Insomma, non bisognava buttare a mare Marx bensì colmare le lacune della sua opera. Da questo punto di vista, la sua vita pubblica è contraddistinta dalla convinzione che non occorre nessun ritorno alle origini, quasi che nei testi di Marx fosse contenuta la soluzione alla, questa sì conclamata, crisi della sinistra comunista in Europa. Semmai, da storico di razza come è stato, era convinto che l’opera marxiana andasse storicizzata, per garantirne il necessario rinnovamento, all’insegna però della continuità con la tradizione marxista.

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Ripubblichiamo la recensione di Benedetto Vecchi a Come cambiare il mondo (Alias, 2 luglio 2011).

 

Eric Hobsbawm è lo storico che, subito dopo il crollo del Muro di Berlino, mandò alle stampe un libro il cui titolo, Il secolo breve, è divenuto espressione tipica per indicare il Novecento. In quel saggio venivano individuate tre «età» per scandire gli anni che vanno dal 1914 al 1991. La prima, quella della «catastrofe», indicava la prima guerra mondiale e la lunga stagione del fascismo, del nazismo e della seconda guerra. Alla catastrofe seguiva però un periodo chiamato «dell’oro», durante il quale il capitalismo aveva conosciuto una fase di ininterrotto sviluppo economico, la fine del colonialismo e, in Europa, il welfare state. Da quel momento fino al 1991 il mondo era però entrato nell’età «della frana», che ha avuto come apice il crollo del socialismo reale e la prima guerra del Golfo. In tutto il saggio, lo storico inglese metteva sempre in rapporto di causa ed effetto la forza politica del movimento operaio con la tendenza del capitalismo a innovare se stesso per arrestare la diffusione del comunismo nel mondo. Nel «secolo breve», tuttavia, il marxismo è ritenuto da Hobsbawm una delle grandi narrazioni novecentesche, come del resto aveva più volte affermato nei saggi scritti per la Storia del marxismo, ambiziosa opera da lui coordinata per l’editore italiano Einaudi. Tesi smentita dall’ultimo decennio del Novecento, che ha invece visto il suo declino. Il crollo del Muro di Berlino, oltre a seppellire il socialismo reale, condannava quindi a un triste oblio l’opera e la tradizione del marxismo.

Il mondo era entrato nel lungo inverno neoliberista fino a quando, nel 2008, la crisi economica globale ricordò a tutti che il capitalismo non era poi quel migliore dei mondi possibili a cui non era possibile opporre nessuna alternativa. L’«Economist», cioè il bignami settimanale del neoliberismo, invitava invece a rileggere Marx, cioè quell’autore messo sì all’indice, ma tuttavia capace di indicare nella crisi non un incidente di percorso, bensì un elemento immanente allo sviluppo capitalistico. Come scrive Hobsbawm nell’introduzione del libro prontamente tradotto da Rizzoli Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, il revival attorno a Marx ha una conferma nella Rete, visto che se si digita il nome dell’autore del Capitale sul motore di ricerca Google, il numero delle pagine che fanno riferimento al filosofo di Treviri è di gran lunga superiore a quelle dove sono citati i guru del modello economico neoliberista (Milton Friedman e Friedrich August von Hayek, ad esempio).

Con molta ironia, lo storico inglese annota che l’invito a riscoprire Marx non viene da intellettuali radical o vicini a qualche partito di sinistra, bensì da giornali e opinionisti da sempre apologeti del libero mercato. Eppure il Marx che viene evocato a ridosso della crisi innestata dai subprime non è il critico dell’economia politica, né lo studioso che chino sui libri della British Library prende appunti per mettere a fuoco le dinamiche dell’accumulazione primitiva, della legge del valore-lavoro, del plusvalore assoluto e relativo, della rendita. Il Capitale, i Grundrisse non vengono mai nominati, mentre molta enfasi viene messa su alcune parti, quelle meno politiche, del Manifesto del partito comunista. Marx è semplicemente relegato nel ruolo di profeta della crisi del capitalismo e della sua tendenza a globalizzarsi. Hobsbawm non sottovaluta i rischi di una normalizzazione del pensiero marxiano, ma mette tuttavia in evidenza che gli editoriali dell’«Economist» pongono fine alla demonizzazione del pensiero marxiano e che si può dunque tornare a studiare il «fantasma» tedesco senza incorrere nella condanna preventiva dell’establishment culturale che per vent’anni lo ha dipinto come una delle fonti di quel male assoluto che è stato il totalitarismo. Ma per tornare a Marx, occorre un’iniziale contestualizzazione storica della sua opera e della costellazione culturale che l’ha ispirata. Operazione indispensabile per verificare l’attualità della sua opera, ma anche per sottolinearne i limiti nello spiegare le dinamiche attuali del capitalismo. In fondo, Marx è pur sempre un autore ottocentesco e affermare l’attualità della sua opera significa innovarla. Hobsbawm offre un riuscito esercizio di indagine storiografica che ha il pregio di seguire sentieri magari già conosciuti, ma che comunque consentono di accedere a una visione panoramica inusuale dell’opera marxiana. È noto che Marx esplicitò la costellazione culturale a cui faceva riferimento – la filosofia tedesca, l’economia politica inglese e il pensiero politico francese –, e Hobsbawm non le mette certo in discussione, ma attraverso un attento lavoro filologico sugli scritti di Marx rintraccia riferimenti a filosofi, economisti, teorici politici dell’Ottocento che rendono quella costellazione molto più affascinante di quanto non risultasse dall’esegesi marxiana fino ad oggi. Ad esempio mette in evidenza come Marx sia stato fortemente condizionato da quel socialismo utopista che pure considerava il limite maggiore del nascente movimento operaio. Il suo rapporto è sempre ambivalente: critica fortemente la fragilità teorica degli utopisti inglesi, ma riconosce loro la grande capacità di organizzare la classe operaia, dandole così una prospettiva politica. Allo stesso tempo, trova nella Rivoluzione francese una fonte di ispirazione per tessere la trama del suo pensiero politico, ma oltre a Rousseau, Saint-Just e i giacobini studia con attenzione anche i testi delle correnti socialiste premarxiane, rintracciando in essi una critica alla democrazia rappresentativa che diverrà uno degli elementi fondamentali della sua elaborazione teorica. Nel saggio sul socialismo premarxiano, Hobsbawm mette i testi di Marx in una relazione «dialettica» con quelli dei socialisti utopisti, evidenziando così una costellazione culturale ben più ricca di quella offerta da molti studiosi marxisti. E quando affronta il rapporto tra il Marx dei Manoscritti del ’44 e il Marx della maturità, lo storico inglese non nasconde certo la sua adesione alla tesi, maggioritaria tra gli studiosi, che il punto più alto della teoria marxiana è costituito dal Capitale. Mettendo in evidenza, però, che quello del filosofo tedesco è un laboratorio teorico sempre in divenire. Tutti i testi sono tasselli di un work in progress che non può essere studiato secondo lo schema della continuità o della discontinuità tra un’opera e la successiva. Nel capitolo dedicato alla pubblicazione dei Grundrisse in Inghilterra, Hobsbawm mette in evidenza che proprio quei «Lineamenti della critica dell’economia politica» esprimono al meglio il laboratorio marxiano. Nei Grundrisse, sostiene Hobsbawm, Marx pone le basi del Capitale, definendo teoricamente gran parte dei concetti che svilupperà però successivamente, modificandoli, correggendoli.

In altri termini, l’opera marxiana è un’opera aperta. Ma è proprio questa caratteristica che rende la gestione della sua eredità una scommessa teorica e dunque politica ancora da giocare. Del laboratorio marxiano non c’è infatti nessuno arcano da svelare. Il movimento teorico indispensabile può essere riassunto da quella undicesima tesi su Feuerbach che tanto ha condizionato la tradizione marxista. E se Marx scriveva che i filosofi hanno interpretato il mondo, ora bisogna trasformarlo, adesso occorre affermare: «gli studiosi hanno interpretato Marx, ora si tratta di trasformarlo».

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