di GIROLAMO DE MICHELE.

La pubblicazione degli ultimi corsi di Michel Foucault, che completano la sua opera (ma si annuncia l’edizione di altri manoscritti) e alcuni convegni hanno reso densa la bibliografia critica: dai volumi collettivi Usages de Foucault (PUF 2014, a cura di Hervé Oulc’hen) e Marx & Foucault (atti del colloquio del dicembre 2014, La Découverte 2015) a Le sujet des normes di Pierre Macherey (éd. Amsterdam 2014), in gran parte dedicato a un serrato confronto con Foucault1, dalla monografia di Sandro Chignola Foucault oltre Foucault (Derive e approdi 2014), ai capitoli foucaultiani di Confini e frontiere di Sandro Mezzadra e Brett Neilson (il Mulino 2014) e di La razón neoliberal. Economía barrocas y pragmática polular di Verónica Gago (Tinta Limón 2014).

Prova a staccarsi da questo panorama critico il volume collettivo curato da Daniel Zamora Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale (éd. Aden 2014), che si propone di svelare, attraverso la comprensione degli «anfratti più ambigui della gauche intellettuale», una compromissione con il pensiero neoliberale di Foucault nel suo «ultimo periodo di lavoro», che sarebbe «relativamente poco sottolineata [e] spesso ignorata», e che invece sarebbe, secondo Zamora, un significativo indice della deriva della gauche post Maggio ’68. In verità è curiosa la descrizione di una specie di Foucault nascosto o misconosciuto in un volume del quale sono parte preponderante Michael C. Behrent, Michael Scott Christofferson e Jan Rehmann, dei quali le critiche a Foucault sono note da anni (come pure quelle di Azzarà ed Ewald, non presenti ma evocati): tant’è che buona parte del volume è costituito da testi già pubblicati da anni – o, come nel caso di Rehmann, di una riscrittura di cose già note, peraltro sulla base di una datata e faziosa bibliografia. Vale a dire – è il primo, grosso limite ermeneutico del volume: testi che precedono non solo i corsi sul governo di sé e il coraggio della verità, falsificando il Foucault greco in una sorta di riposo del guerriero conseguente alla sua abdicazione neoliberale; ma anche quelli d’inizio anni Settanta sulle istituzioni penali e la società punitiva, dai quali si evince in modo inoppugnabile la presenza, fra le letture del Foucault preteso pre-politico, di Thompson e Porchnev. Insomma, un “ultimo Foucault” che inizia e finisce dove piace ai suoi “demistificatori”.
Marx&FoucaultCui si aggiunge – secondo limite – il mancato uso critico dei Dits et écrits, la cui pubblicazione consente non solo una lettura sistematica del pensiero di Foucault e dei suoi sviluppi, ma anche una precisa contestualizzazione delle sue prese di parola: qui, per contro, l’uso dei testi, e all’interno dei testi delle citazioni, è praticato secondo il metodo dei “morceaux choisis2.
Meglio non va con la lettura del famigerato corso sulla biopolitica, del quale viene fornita una faziosa genealogia da Behrent, che elenca i tempi dell’ingresso in Francia del neoliberalismo senza fornire alcun nesso causale fra le traduzioni francesi di Hayek e Friedman e il lavoro di Foucault: si allude a una concomitanza che si suggerisce essere non casuale, omettendo di ricordare che quegli stessi anni coincidono con episodi di militanza attiva3, o con intense attività seminariali, delle quali esiste una testimonianza inoppugnabile in un lontano e prezioso fascicolo di “aut aut” n. 167-168 del 1978, dove è possibile leggere di cosa si parlava, fra Fontana, Pasquino, Procacci, Galzigna e Marchetti, nell’ambiete foucaultiano negli anni della pretesa svolta neoliberale.
Così come viene artatamente riscritta la biografia intellettuale di Foucault, con scivoloni marchiani, come quello che accade a Christofferson per aver preso per buona, cioè senza verificarla, un’affermazione di Eric Paras secondo la quale «le parole capitalista e proletariato non appaiono in alcuna opera di Foucault prima del 1970»: affermazione testualmente falsa (e molte sorprese avrebbe lo sciatto lettore se avesse anche cercato bourgeois, o addirittura Marx), ma soprattutto ignara del fatto che già nell’estate del 1967, nel lavorare alla risposta al Circolo epistemologico, Foucault poneva il problema di una “politica progressista”. E che, soprattutto, non comprende l’intrinseca politicità del Foucault studioso degli enunciati e dei rapporti fra cose e parole – che emerge in modo evidente nel Foucault di Deleuze, e soprattutto nel suo corso del 1985-86, da poco reso integralmente disponibile on line.

Quanto alla tentazione neoliberale, essa è resa credibile solo a condizione di scorporare il corso del 1979 da quello del 1976, nel quale Foucault chiariva l’intenzione di procedere, enunciando delle fondamentali “precauzioni di metodo”, ad un’analitica del potere tutt’altro che accondiscendente; di scorporare il corso sulla biopolitica dal conseguente sviluppo in direzione dei processi di soggettivazione non solo come assoggettamento, ma altresì come resistenza al potere; e di spacciare la lettura del neoliberalismo – o, come nel caso di Zamora, l’analisi della dottrina fiscale di Stoléru – per un’adesione ideologica4. Ignorando, come sottolinea Laval nel suo contributo a Usages de Foucault, che Foucault aveva detto con chiarezza nel 1977, in un’intervista inedita recuperata dallo stesso Laval (ma anche in Non au sex du roi, compreso nei Dits et écrits), come la sua “analisi positiva” delle forme di potere, in analogia con le pagine di Marx sulla questione dei furti e della povertà, non comporta alcun giudizio favorevole agli “aspetti negativi” del liberalismo, ma al contrario la loro comprensione come «effetti negativi di una nuova figura di potere».
È di nuovo Rehmann a esemplificare, suo malgrado, il livello di questa pretesa critica, laddove, riferendosi a Bread and roses di Ken Loach, osserva che lo spettatore «avrebbe difficoltà a identificare le sottili tecniche di condotta di sé, ma vi troverà molte caratteristiche di un feroce “dispotismo del capitale”» che gli studi foucaultiani bypasserebbero (con buona pace, aggiungiamo noi, della pagina di Provincializzare l’Europa nella quale Chakrabarty si serve proprio di Foucault per attualizzare quel concetto marxiano).5 Il fatto è che Foucault non ha mai avuto problemi (si veda, uno fra i molti luoghi, il dibattito con Chomsky del 1971) a riconoscere il carattere classista dello sfruttamento: aggiungendo però che la determinazione economica, da sola, non è sufficiente a determinare i luoghi e le forme in cui si esercita questo «potere di classe». È Rehmann, per contro, a non riuscire a vedere i processi di soggettivazione presenti nel bel film di Loach: dalle lotte nel settore dei servizi – le “lotte trasversali” di cui parla Foucault nei primi anni Ottanta – alla messa in questione della centralità e delle pratiche del sindacalismo tradizionale, dalle soggettivazioni di genere alle pratiche di assoggettamento. Non per caso il suo libro sui Nietzscheani di sinistra fu introdotto in Italia da Stefano Azzarà, da anni impegnato a riscrivere il capitolo su Nietzsche del De Ruggero-Canfora.
In definitiva, ciò che sfugge a questi critici è che il corso sulla biopolitica non chiude, ma apre la ricerca foucaultiana in direzione del rapporto fra liberalismo, biopolitica e regimi di veridizione, e del rapporto fra neoliberalismo, ragione calcolante e società del controllo (come chiarito da Foucault sin dalla prima lezione del corso).

Tutta qui, dunque, la capacità interpretativa di questi lettori? Si e no. Perché se gli strumenti sono davvero rugginosi e spuntati (si veda l’incapacità di Rehmann di comprendere il movimento di assoggettamento/soggettivazione, o di districarsi nella propria confusa incomprensione del pastoralato),6 il vero scopo di questo libro appare piuttosto la costruzione di una grunf-filosofia al servizio di quella grunf-politica che vede nelle forme di lotta e conflitto del tempo presente null’altro che il tradimento di un programma in stile-Diamat, alla luce del quale l’esistente appare un immenso tradimento del quale si indicano ora in Foucault, ora nei “nietzscheani di sinistra” i responsabili – quasi che non sia stato Foucault a studiare le lotte trasversali alla loro manifestazione, ma i soggetti di queste lotte ad aver agito sobillati dalla lettura di Foucault.
Non stupisce allora che sia l’autore del saggio più inconsistente sul piano teorico, Jean-Loup Amselle, a costruire a suo uso e consumo (un po’ come fece Cacciari con Foucault, Deluze e Guattari nel 1977) una “sinistra post-moderna” nella quale ribollono assieme Negri e Aubry, Agamben e Halloway, Occupy Wall Street e gli Indignados, la cui strategia – quantomeno nell’ambito degli “ethno-eco-bobo” francesi – consisterebbe nella svendita all’austerità e all’abbattimento dei livelli di vita in cambio di qualche “leccaleca” come il matrimonio per le coppie omosessuali. Che poi lo stesso Amselle senta il bisogno di confessare la propria lontana partecipazione ai corsi di Foucault, denunciandone una pretesa «delettazione verso il potere» da parte del «filosofo SM Foucault», dimostra solo a quali infimi livelli di moralismo piccolo-borghese può giungere questo piccolo Beria, vivente esempio di confessione, assoggettamento e delazione.

usages_de_foucaultNondimeno, andando in giro per il mondo a cercare conferma dei propri libri, questi don Chisciotte hanno il merito di sfiorare una questione aperta: quella del mancato incrocio tra Foucault e il marxismo. Che di fatto, nonostante tutto, non avvenne: perché, come più volte ha spiegato lo stesso Foucault, il marxismo “ufficiale” in Francia reagì chiudendosi a testuggine verso quegli intellettuali che ne mettevano in discussione i presupposti ortodossi, a partire dalla centralità della nozione di soggetto. La stessa polemica contro lo strutturalismo (o supposto tale) fu caratterizzata dalla creazione di un oggetto polemico, nel quale erano unificati Lacan, Althusser, Lévi-Strauss e Foucault, in reazione al tentativo di rinnovamento e riattualizzazione del pensiero di Marx. In altri termini, il marxismo ufficiale, costretto a “mollare la presa” verso una critica che non poteva più tenere al guinzaglio, difendeva dai barbari la Fortezza Bastiani con ottusa protervia da quel «fertile sconvolgimento dell’orizzonte scientifico dei rivoluzionari» in atto (così Negri nel 1978) al quale anche Foucault contribuiva.
Diversa era la situazione in Italia, dove un “altro” marxismo aveva cominciato a dialogare con Foucault – attraverso la rivista “aut aut”, ad esempio; ma anche, in quelle pagine del suo Marx oltre Marx nelle quali Negri, già autore dell’importante Sul metodo della critica della politica7 descriveva la circolazione e distribuzione delle merci come distribuzione analitica delle funzioni di potere, concatenando di fatto un certo Marx col Foucault dell’analitica del potere.
Come sia stata interrotta quella ricerca teorico-pratica, è noto. Ma quei fili erano destinati a riallacciarsi, e di fatto cominciano ad esserlo, anche in reazione alla vulgata della destra foucaultiana cui ha dato l’avvio, negli anni Novanta, Ewald. Ne sono testimonianza i testi già citati, e in particolare (in attesa che vengano pubblicati gli atti del colloquio “Foucault(s)” del 2014) quelli del colloquio su “letture, usi e confronti” fra Marx e Foucault, curati da Christian Laval, Luca Paltrinieri e Ferhat Taylan. Dove, seguendo lo svolgersi delle sezioni, al Foucault lettore di Marx – con saggi, in particolare quelli di Chignola e Laval, che praticano già un uso marxiano di Foucault, ma anche sulla “eresia” di Foucault (Revel) – succedono tentativi, spesso riusciti, di avviare una rilettura di Marx a partire da Foucault (ad es. Negri, Sibertin-Blanc, Dardot, Giardini). Non si tratta, diversamente dagli autori di Critiquer Foucault, di elevare la diagnostica del presente foucauldiana a un «insieme di consegne che il filosofo-maestro di verità donerebbe ai suoi discepoli», come sottolineano nella conclusione del proprio intervento (che è anche la conclusione del volume) Nicoli e Paltrinieri, ma di usare, nella concreta prassi delle lotte, la critica per mostrare «il potenziale dirompente e le trappole che minacciano la pratica delle lotte», senza reintrodurre la figura dell’intellettuale che pretende di sottomettere le lotte alle ingiunzioni di verità: per quello, bastano e avanzano i grunf-grunf.

una versione più breve di questo testo è stata pubblicata sul manifesto dell’11 febbraio 2016 col titolo “Lo scompiglio del potere”

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  1. All’interno del quale è compreso Le sujet productif. De Foucault à Marx, già pubblicato in italiano da Ombre Corte nel 2013, e ora tradotto anche in inglese sul “Newpoint Magazine” n. 5

  2. Un esempio per tutti, il modo in cui «il prisma riflessivo nel quale è apparso il problema dello Stato» non come Stato-cosa autonomo, ma come una pratica indissociabile dall’insieme delle pratiche governamentali (così Foucault in Sécurité, territoire, population, p. 282) è travisato, nelle pagine di Rehmann, in «considerazioni riflesse da certe opere di riferimento» sull’azione egemonica dello Stato, cioè una “rappresentazione testuale” da tenere distinta dagli “apparati e pratiche ideologiche”, – meglio ancora, da sostituire con il concetto engelsiano di ideologia (così Rehmann, p. 147). 

  3. Come l’affaire-Croissant, per effetto del quale Foucault riporta la frattura delle costole per mano dei gendarmi di quel neoliberalismo dal quale sarebbe stato attratto. 

  4. È una sorta di chiodo fisso di Zamora, ribadito anche in questa intervista nella quale l’autore afferma che «l’entusiasmo appena celato con cui Foucault parla della posizione di Stoléru fa parte di un movimento più ampio che procede di pari passo con il declino della filosofia egalitarista della sicurezza sociale a vantaggio di una lotta liberale»: senza però fornire né qui né altrove, un solo passo nel quale Foucault si dichiara favorevole alle tesi di Stoléru che sta esponendo – ma che te lo dico a fare? 

  5. Il fatto è che Rehmann, oltre a costruirsi un Foucault di comodo, si costruisce anche dei foucaultiani a misura della propria capacità critica. Così, la pretesa di una “réinterpretation des études sur la gouvernamentalité” è fondata sulla critica di due testi ad hoc di Bröcking e Opitz, oltretutto datati, attraverso i quali cerca di spacciare la destra foucaultiana per il foucaultismo tout court con un trucco logico-retorico emblematico non dello stato degli studi sulla governamentalità, ma della sua onestà intellettuale. 

  6. Fra i quali rispunta quella vecchia frase di Sartre – peraltro indirizzata contro lo strutturalismo, e non contro il solo Foucault – sulla «ultima barriera della borghesia contro Marx»: frase di cui in precedenza lo stesso Sartre era stato oggetto da parte del PCF negli anni Cinquanta. 

  7. Sul già citato numero 167-168 di “aut aut” 1978, e poi in Macchina tempo