di MARTINA TAZZIOLI.
L’annunciato sgombero della “giungla” di Calais, divenuto ormai, insieme agli scontri al confine greco-macedone di Eidomeni, drammatica icona di questa “crisi” dei confini europei ma anche simbolo della risolutezza dei migranti di fronte alla caccia a loro dichiarata dagli stati, non può essere letto al di fuori di un quadro politico in cui i migranti stessi appaiono sempre più come “bombe umane” con cui minacciare altri stati o di cui sbarazzarsi a seconda dell’occasione. La partita che si gioca tra le due sponde della Manica in questo momento, in vista del referendum del prossimo 23 giugno sul Brexit, si è svolta negli ultimi giorni anche a Calais; o meglio, attorno alle conseguenze imminenti dichiarate dal presidente francese Hollande nel caso in cui la Gran Bretagna optasse per la fuoriuscita dall’Unione europea. Lo sgombero di Calais e i disordini immediati che ne sono conseguiti sono serviti da preavviso, ribadito in occasione dell’incontro tra Francia e Gran Bretagna tenutosi il 3 marzo quando il Ministro dell’economia Macron ha dichiarato che il Brexit farebbe saltare l’accordo di Touquet siglato nel 2003 tra i due paesi che vede le autorità francesi impegnate nel controllo delle partenze da Calais e la polizia britannica autorizzata a svolgere azioni di pattugliamento e controllo sul suolo francese. La minaccia di un trasferimento della giungla di Calais sulle coste di Dover riecheggia in molti tabloid inglesi in queste settimane, andando ad alimentare il dibattito nazionale sull’opportunità di un Brexit la quale scatenerebbe peraltro una “migrantexit” generalizzata, che andrebbe a colpire i “calesiens” cosi come i migranti europei presenti nel Regno Unito. Per quanto non sia stata impiegata nelle dichiarazioni istituzionali durante lo sgombero della giungla di Calais, l’immagine dei migranti come “bombe umane” di cui disfarsi destituendoli dal diritto alla protezione umanitaria o al contrario usandoli come strumento di pressione per contese politiche che vanno ben oltre la gestione dei loro corpi e movimenti, emerge come strategia diffusa della cosiddetta “crisi migratoria”.
Non si tratta qui di ripetere l’espressione impiegata per lungo tempo dai movimenti NoBorder di una “guerra ai migranti” per indicare le politiche di confinamento messe in atto dagli stati europei. Il tipo di warfare che caratterizza la fase odierna di gestione della crisi, sotto forma di guerra a bassa intensità agita attraverso l’illegalizzazione preventiva dei richiedenti asilo – ovvero impedendo ai migranti di fare domanda di asilo – o di scontri frontali con le autorità nazionali nei luoghi di frontiera, o infine come strategie di blocco militari al largo delle coste libiche e turche, indica uno scarto anche qualitativo nelle pratiche attuali di controllo e contenimento rispetto agli anni passati. Un regime di asilo che procede attraverso il maggior numero di dinieghi possibili, ovvero generando una popolazione crescente nello spazio europeo di migranti “irregolari” o “rifugiati diniegati” a seconda che lo si guardi o meno attraverso le categorie della protezione internazionale e degli scarti che questa produce; e al tempo stesso una moltiplicazione di strategie militari-umanitarie per bloccare i migranti che cercano di arrivare in Europa o di restarci. Inoltre, cifra caratteristica di questo warfare diffuso è rappresentata dai soggetti su cui questo agisce: anziché proseguire nell’operazione di “disciplinamento” delle migrazioni, sempre più oggetto di studi specialistici in accademia, dovremmo cominciare a guardare all’attuale “crisi migratoria”, specialmente se si osservano le strategie di contenimento militari-umanitarie all’opera, come una crisi europea e mondiale del governo di popolazioni transnazionali in movimento.
Spostandosi dallo spazio-frontiera ad alta visibilità di Calais verso la sponda est e sud del Mediterraneo il warfare a bassa e alta intensità, dalle sembianze militari-umanitarie o esclusivamente poliziesche, prende il nome delle due operazioni militari condotte una al largo delle coste libiche e l’altra in acque greche e turche: Eunavfor med-Sophia e l’operazione NATO nel mare Egeo. La prima, attiva dal giugno scorso in acque internazionali all’altezza della Libia, è ufficialmente preposta a individuare e sequestrare le imbarcazioni degli “smugglers” per sottrarre i migranti dalla loro rete; di fatto, come conferma un recente documento reso pubblico da Wikileaks, è rivolta a contenere e bloccare le partenze dalle coste libiche, contrastando la logistica degli attraversamenti dei migranti, producendo un effetto deterrenza1. La seconda lanciata in pochi giorni da Germania, Grecia e Turchia, di stampo esclusivamente militare, prevede che le imbarcazioni della NATO intercettino i migranti nel tratto di mare tra acque greche e turche per rinviarli e farli sbarcare in Turchia2. Negli stessi giorni in cui prendeva il via l’operazione di respingimento in alto mare siglata NATO (12 febbraio), occasione anche per riaprire la contesa tra Turchia e Grecia rispetto ai limiti delle rispettive acque territoriali, il presidente turco Erdogan mobilitava l’arma dei “migranti bombe umane” ripetendo il gesto di Gheddafi nel 2004 e poi nel 2011, a fronte dei tre miliardi di euro previsti nelle trattative con l’UE e non ancora arrivati allo stato turco. Posta in gioco alzata ulteriormente lunedì 7 marzo, in occasione dell’ennesimo vertice UE-Turchia, in cui Erdogan ha raddoppiato la cifra richiesta per implementare gli accordi di riammissione con il governo Tsipras, riprendendo sul proprio territorio i migranti arrivati nello spazio europeo.
La caccia per mare ai migranti mantiene comunque ancora un carattere militare-umanitario, non solo nelle giustificazioni (salvare i migranti dagli smugglers) ma in parte anche nei fatti, senza per questo ostacolare e respingere di meno chi attraversa il Mediterraneo in fuga da guerre. Di fatti, le “catture” dell’umanitario cominciano dal momento dell’intercettazione e salvataggio dei migranti in mare da parte di navi militari su cui viene effettuata una prima identificazione e partizione da parte degli operatori di Frontex presenti a bordo. Dalle navi della Marina Militare o della Guardia Costiera i migranti tratti in salvo vengono poi direttamente traghettati negli hotspots, i nuovi centri di illegalizzazione di massa attualmente funzionanti a Lampedusa, Pozzallo e Trapani (a Lesbos e Leros e Chios in Grecia). Dopo essere stati tutti identificati con il prelievo delle impronte, e dunque potenzialmente intrappolati in Italia o in Grecia a causa del funzionamento del regolamento di Dublino III, i non-ricollocabili, ovvero i non-siriani, non-eritrei, e non-iracheni, che in principio dovrebbero essere trasferiti in parte altrove in Europa, vengono quasi sistematicamente illegalizzati preventivamente, prima ancora di poter depositare la domanda di asilo. Ma la riduzione di alcuni migranti a vite naufraghe da salvare ha un prezzo. Porto di Marsiglia, 20 febbraio 2016: da qui è partita SOS Mediterranée, la nave dell’ Ong Médecins du Monde che per tre mesi pattuglierà le acque del Mediterraneo centrale per prestare soccorso ai migranti. Operazione umanitaria, questa volta senza militare incorporato – anche se verrà coordinata dalla Guardia Costiera di Roma – lanciata attraverso un volantino pubblicitario che se non portasse il simbolo ufficiale dell’organizzazione apparirebbe quantomeno sarcastico: contribuisci a salvare vite in mare, recita il foglio di carta patinato, “uscita di un canotto di salvataggio per un’ora, 30 euro; 5 gilets di salvataggio, 50 euro; presa in carico a bordo dei migranti salvati, 100 euro”. L’umanitario ridotto a canotto, ci ricorda in fondo la pubblicità di Médecins du Monde, è riservato a quei migranti le navi militari europee non riescono a bloccare prima che facciano ingresso nella scena del salvataggio.
A essere bersaglio di questo warfare terrestre e marittimo sono anche, e forse sta qui uno degli scarti più significativi rispetto al passato, i rifugiati ritenuti “genuini” dalle agenzie dell’umanitario, oltre a coloro che vengono categorizzati da quelle stesse agenzie come “migranti economici”. I rifugiati del welfare, come di fatto vengono visti nei paesi maggiormente colpiti dalla crisi ma anche in Inghilterra su cui si gioca la doppia partita di Brexit e migrantexit, i quali anche se non sottraggono posti di lavoro, sottolineano i quotidiani inglesi, sottraggono servizi e soldi pubblici. E i rifugiati potenzialmente terroristi, diventati tali soprattutto dopo gli attacchi a Parigi dello scorso novembre, dato che il passato coloniale, come il premier ungherese Viktor Orban ha recentemente affermato, rende ragione del fatto che “tutti i terroristi sono o sono stati migranti”. La pedina Calais, avanzata dal governo francese come prima mossa concreta per intimorire l’elettorato britannico di fronte all’opzione Brexit, si gioca in effetti attorno al binomio migrazioni-terrorismo: se la Gran Bretagna esce dall’UE, salta l’accordo sui controlli delle frontiere e Calais rischia di riprodursi sulla sponda nord della Manica; e al tempo stesso far saltare quei controlli significa anche, avvertono da Parigi, lasciar passare o comunque non vigilare sui sospetti terroristi che potrebbero beneficiare del canale migratorio a quel punto aperto.
Lo sgombero violento della “giungla” resta peraltro soltanto uno dei modi in cui avviene la caccia diffusa ai migranti nello spazio-frontiera di Calais: la trappola dei centres de répit – letteralmente centro di respiro e di sosta – aperti lo scorso autunno dove inviare su base “volontaria” i migranti bloccati a Calais, continua a funzionare come meccanismo affatto visibilizzato tramite cui svuotare Calais. Infatti, per i migranti in procedura Dublino l’accoglienza si trasforma in espulsione: dai centres de répit, dislocati su tutto il territorio francese, i richiedenti asilo vengono presto “dublinati” – termine coniato per indicare le conseguenze del regolamento di Dublino III sui movimenti dei migranti – e ricondotti attraverso voli di linea in Italia o nel paese in cui hanno lasciato le impronte. Meccanismo di espulsione, quello di Dublino III, che finora rimane ancora di fatto poco utilizzato dagli stati europei a causa della necessità di un accordo tra i due paesi – in Francia si parla del 7% di dublinati effettivi sul totale delle persone con impronte prese altrove, secondo le statistiche ministeriali. E tuttavia il gioco del rimpallo dei migranti tra gli stati europei sta diventando l’unica strategia di governo della crisi del regime dei confini. Di fronte a lotte per il movimento agite quotidianamente dai migranti in tutti gli spazi-frontiera d’Europa, tra cui vale la pena ricordare, tra quelle visibili, lo sfondamento di massa delle barriere di Idomeni, l’impossibilità di sbarazzarsi della presenza dei nuovi migranti sul territorio europeo si risolve per ora in operazioni di caccia diffuse. Una caccia e un warfare però nel doppio senso del termine, come indica Grégoire Chamayou in Le cacce all’uomo, ovvero del catturare e rincorrere, ma anche e del far fuggire, scacciando dal (proprio) territorio per inviare altrove, al “mittente”, sia questo il primo paese di ingresso in Europa o uno di transito, o una delle pre-frontiere europee. L’ultimo Consiglio europeo del 18-19 gennaio scorso ha segnato in questo senso uno spartiacque nella direzione ufficiale della politica europea: per la prima volta il termine “umanitario” scompare dai testi UE come razionalità e meccanismo costitutivi delle politiche di governo delle migrazioni; e la “crisi migratoria” diventa oggetto di misure esclusivamente di contenimento, blocco e respingimento verso paesi terzi a cui l’Unione europea raccomanda la messa in atto di un regime di asilo ormai valutato quasi fuori fase in Europa di fronte alla crisi dei confini che legittima misure di illegalizzazione diffusa. Mentre a Calais prosegue la caccia mediatizzata, Grecia e Italia stando ai piani europei si preannunciano i paesi-hotspot del continente, ovvero paesi di prima espulsione; luoghi in cui sono previsti “border stress tests” relativi all’impatto dei migranti sulle frontiere in analogia ai “bank tests” effettuati per le banche in fallimento3. Ma a farci prendere distanza dalle fantasie governamentali è proprio la crisi profonda del regime dei confini europeo recentemente ammessa dagli stessi policy-makers fautori del sistema di ricollocamento di rifugiati per quote, di fatto imploso prima ancora di partire: le lotte per la libertà di scelta – sul dove fare domanda di asilo e dove restare – dei migranti in tutta Europa attraverso il rifiuto a dare le impronte o a entrare nel meccanismo di relocation diventa la materia prima di discussione nei palazzi della Commissione europea. “Crisi dei rifugiati o crisi della governance? ” è la domanda interlocutoria, e al tempo stesso la confessione di uno stato di crisi, emersa durante un recente convegno a Bruxelles sulla solidarietà europea nella gestione dei rifugiati. Ma proprio perché di crisi dei confini si tratta, la caccia e il warfare generalizzati ai migranti restano la risposta di contenimento dei movimenti che potrebbe vedere ulteriori escalations con il blocco definitivo della frontiera turca.
https://wikileaks.org/eu-military-refugees/EEAS/EEAS-2016-126.pdf ↩
http://www.wsj.com/articles/nato-seeks-to-stem-greek-turkish-row-over-aegean-migrant-mission-1456255140 ↩
Discussion Paper European Border and Coastguard, 26 January 2016. ↩