di GIROLAMO DE MICHELE.
In un film come Suburra il tema della violenza è posto all’intersezione fra due direttrici: il rapporto fra la violenza “reale” e la sua rappresentazione filmica, e il rapporto fra la rappresentazione di questo film, e quella del genere “poliziottesco” degli anni Settanta cui ammicca.
Nei poliziotteschi, la violenza subiva una torsione iperrealistica rispetto alla violenza percepita, e virava in una diretta o indiretta ironia (all’interno della quale potevano anche essere depositati frammenti di un discorso di critica della violenza). In ogni caso, la scena filmica era la metropoli, con le sue dinamiche e contraddizioni nelle quali erano impigliati, pur in uno schematismo manicheo, poliziotti e banditi. In Suburra, invece, il genere è recuperato solo come tecnica registica, in una narrazione del tutto diversa: un ambiente chiuso – il mondo della malavita romana – nel quale ciò che malavita non è si intravede appena; un’omologazione fra le diverse facce della stessa medaglia malavitosa che ingloba anche i “politici”, rappresentato non come anelli di congiunzione o camere di compensazione, ma come interni tout court a questo mondo. Una rappresentazione monocromatica della violenza, sottolineata dalla monotonia delle luci livide e dalla continua pioggia.
La prima dissonanza di Suburra nasce qui: la scena della violenza non offre appigli narrativi verso un’altra scena, non ha porte che si aprono su altri mondi, finestre dalle quali proviene un’altra luce: eppure, il film ha una quasi didascalica pretesa di alludere al “reale” della cronaca giudiziaria – ingenuamente assunto come “dato reale” e non come rappresentazione da criticare. Se non che, anche questo mondo chiuso non può non presentarsi come una metafora di quel reale “altro” che si vorrebbe escludere dalla narrazione: il che accade, va detto, anche per i limiti oggettivi di una regia che è al di sopra della media nazionale, ma non arriva ai maestri di genere americani o francesi: Sollima non è Olivier Marchal o William Friedkin (cui ammicca con la scena della fuga in auto) – e soprattutto, non lo sono i suoi sceneggiatori che, presi dall’urgenza di una docu-fiction poliziottesca, non sono esenti da vistose zeppe e incongruenze nella stesura del plot. Non arriva, insomma, a far scaturire dalla tecnica narrativa un discorso critico sulla violenza rappresentata: e non vi arriva perché manca di un discorso critico su quel reale che rappresenta.
La violenza – e qui si sente la mano del duo Rulli-Petraglia, col loro psicanalismo ormai diventato un genere attraverso il quale la storia patria viene rimasticata, digerita e restituita senza residui – è rappresentata come un Male che si genera da sé – senza contraddizioni, senza rapporti di causa-effetto, nel quale la sfera dell’economico si limita alla mazzetta, e il sociale è al più l’interno di un market –, per finire coll’auto-distruggersi per implosione o erosione dall’interno delle proprie relazioni. Inevitabile chiedersi dove sia finito il tentativo di fare della narrazione – con il romanzo e la serie Romanzo criminale – un attraversamento di un mondo altrimenti violento, fornendo allo spettatore spunti di sospetto e inquietudine; o di piegare la cronaca sull’irruzione del tragico nella storia – un tragico del quale, peraltro, si intuiva, accanto a una dimensione metastorica, anche una genesi derivata dalla critica dello stato di cose presente.
Qui, invece, la dimensione della serialità allusa contribuisce, assieme a certe scelte del cast verso attori mainstream (manca da tempo nel cinema italiano un discorso consapevole sul ruolo del volto dell’attore: ma non è proprio a Ostia, del resto, che è stato ammazzato Pasolini?), che finisce per creare fra la rappresentazione e lo spettatore un clima di familiarità, un adagiarsi nel già visto, nel conosciuto, nel piacionesco – che è altra cosa dal glauco Henry Fonda che ammazza un bambino. Di questa violenza, risfogliando qualche bignamino di Freud e ritagliando qualche battuta dalle cronache giornalistiche, alla fine si fornisce, accanto all’implicita ammissione che è una sorta di trascendentale metastorico, e come tale ineliminabile, l’ovvia spiegazione che c’entra il rapporto col padre (al limite con la madre, giusto per sottolineare l’italianità mammona del Samurai, che fra Cesaroni e Suburra resta sempre uno di noi): che sia il padre reale al quale si vuole assomigliare senza potergli assomigliare, o quello metaforico da uccidere, poco cambia.
Ma l’assenza di una critica della violenza, assunta come seconda natura – come da classica ideologia italiana – finisce per ricadere nella sua estetizzazione un po’ glam (gli M83 che gorgheggiando sottendono gli ammazzamenti credendosi i Cocteau Twins): estetizzazione che si porta dietro la responsabilità di una banalizzazione morale che accarezza lo stato di cose presente senza neanche provare a fargli il contropelo, e in definitiva lo lascia così come. Viene buono per i prossimi sequel, filmici e narrativi.
questa recensione è stata pubblicata sulla rivista 8½, n. 25, marzo 2016, pp. 92-93