di SANDRO MEZZADRA.
Tra le diverse forme che assunse negli anni Sessanta del Novecento, e in particolare attorno al 1968, il «ritorno a Marx» in Europa, ve ne sono almeno due che hanno continuato a esercitare una grande influenza nei dibattiti critici internazionali: la rilettura del Capitale promossa da Louis Althusser e l’operaismo italiano. Meno nota, quantomeno in Italia, è un’altra linea interpretativa, che si è venuta formando nella Repubblica Federale Tedesca – dall’interno della Scuola di Francoforte ma anche in polemica con i suoi esiti – e che ha finito per consolidare una specifica variante del «marxismo occidentale».
I lavori di Alfred Schmidt, Hans-Georg Backhaus, Helmut Reichelt, che sono all’origine di questa linea interpretativa, sono stati almeno in parte tempestivamente tradotti in Italia, e hanno contribuito ad alimentare la discussione (accademica e non) su Marx negli anni Settanta. Ma nella temperie del decennio successivo, quando la restaurazione imperante nel nostro Paese ha nei fatti bandito Marx e il marxismo dalle Università e dai cataloghi delle grandi case editrici, di questi autori si sono un po’ perse le tracce. E non ha ricevuto particolare attenzione il progressivo emergere, a cui ha dato un contributo fondamentale il lavoro di Michael Heinrich (la sua introduzione ai tre libri del Capitale è stata tradotta nel 2012 in inglese, per la Monthly Review Press), di quella che oggi viene definita Neue Marx-Lektüre, «nuova lettura di Marx». Tanto in Germania quanto nel mondo anglofono (e in particolare negli Stati Uniti) questa particolare interpretazione di Marx è al contrario al centro di vivaci dibattiti, con esiti che possono talvolta apparire sorprendenti.
Una scoperta sconvolgente
Da questo punto di vista, la ripubblicazione del libro di Helmut Reichelt, La struttura logica del concetto di capitale in Marx (manifestolibri, pp. 301, 29 euro), ha un valore tutt’altro che meramente antiquario. Uscito originariamente nel 1970, il lavoro di Reichelt mantiene un indubbio valore sotto il profilo dell’interpretazione dei testi marxiani. Ma è anche uno dei riferimenti fondamentali per la «nuova lettura di Marx», alla cui definizione sistematica lo stesso Reichelt ha dedicato più di recente un altro ponderoso volume (Neue-Marx-Lektüre. Zur Kritik sozialwissenschaftlicher Logik, Vsa-Verlag, 2008).
Al centro del libro di Reichelt c’è il confronto con i Grundrisse, i manoscritti marxiani del 1857-1858 la cui scoperta esercitò una grande influenza sul marxismo della seconda metà del Novecento. Chi ha presente la ricezione che questi manoscritti conobbero nell’operaismo italiano si trova qui di fronte a una lettura di segno praticamente opposto. Se fin dalle prime traduzioni di frammenti dei Grundrisse in riviste come i «Quaderni rossi» l’interesse degli operaisti era interamente rivolto alla scoperta dei movimenti della soggettività operaia «dentro e contro» il capitale, qui a venire in primo piano è il rigore logico (e metodologico) di Marx nella descrizione dell’«oggettività» e dei caratteri quasi automatici del movimento del capitale. Se l’operaismo esaltava concetti come «lavoro vivo», «lavoro come soggettività», lavoro come «non-capitale», Reichelt avviava una ricerca sul «contenuto particolare delle determinatezze economiche formali, quindi della forma-merce, della forma-denaro, della forma-capitale, della forma del profitto, dell’interesse etc». E ancora: se Toni Negri, nel suo classico lavoro del 1979, Marx oltre Marx (manifestolibri, 2003), avrebbe cercato proprio nei Grundrisse le tracce di un congedo di Marx dalla dialettica, Reichelt scriveva che proprio qui è più evidente che nel Capitale che la dialettica hegeliana «è componente integrale della critica marxiana».
Sono così indicati alcuni tratti di fondo dell’interpretazione di Marx proposta da Reichelt nel 1970, e poi rimasti centrali nella Neue-Marx-Lektüre (pur all’interno di sviluppi teorici molto diversificati). Se si assume la presenza in Marx, sulla scorta di un’indicazione di Karl Korsch (recentemente sviluppata da Christian Laval e Pierre Dardot nel loro Marx, prénom: Karl, Gallimard, 2012), di una scissione tra la descrizione della logica del capitale e il momento dello scontro di classe, evidentemente il lavoro di Reichelt enfatizza il primo aspetto a discapito del secondo.
Un’influenza radicale
La lotta di classe davvero sembra scomparire dal quadro, come fagocitata dalla «struttura logica del concetto di capitale». La «logicità immanente del movimento del valore» finisce per distendersi in modo totalizzante sul mondo dominato dal capitale, «sussumendo» ogni spazio e ribadendo la sovranità del «punto di vista del soggetto borghese, il quale si rappresenta il proprio mondo sotto un’unica forma, che è la forma dell’oggetto». Il «feticismo della merce», punto di contatto tra il Marx giovane e quello maturo, celebra i suoi fasti neutralizzando e come congelando la possibilità stessa dell’antagonismo.
La «nuova lettura» di Marx in qualche modo inaugurata dal libro di Reichelt del 1970 è oggi, come si diceva, particolarmente influente nel mondo anglofono, dove anche al di fuori dell’accademia ha ricevuto una grande attenzione da parte di riviste «radicali» e militanti come ad esempio Endnotes e Viewpoint. Non di rado viene combinata con eterogenei riferimenti teorici (dal bordighismo al situazionismo, dai lavori del Comité invisible alla filosofia di Giorgio Agamben) per confermare l’immagine di una totalità capitalistica pienamente integrata, rispetto a cui la rottura può provenire soltanto dall’esterno, in forme più o meno apocalittiche e «insurrezionali».
Il pensiero di Marx viene così violentemente amputato non soltanto del riferimento all’antagonismo di classe ma anche, lo ha notato recentemente Karl Reitter introducendo una raccolta di testi critici sulla neue Marx-Lektüre (Karl Marx. Philosoph der Befreiung oder Theoretiker des Kapitals? Zur Kritik der «neuen Marx-Lektüre», Vienna, Mandelbaum 2015), del problema politico fondamentale che ne costituisce il «motore»: ovvero del problema della liberazione.
D’altro canto, non si tratta di contrapporre alle letture «oggettivistiche» di Marx una lettura «soggettivista». Anche individuare una «scissione» all’interno della sua opera, secondo le modalità che si sono in precedenza richiamate, indica in realtà un problema assai più che l’esistenza di «due Marx» tra cui sarebbe possibile e necessario effettuare una scelta. La ricerca degli ultimi anni, anche in base dell’avanzamento della pubblicazione della nuova edizione critica delle opere (la cosiddetta MEGA2), ha semmai evidenziato l’esistenza di «molti Marx». E ha complessivamente riqualificato il problema di lavorare sulle giunture e sulle articolazioni tra lotta di classe e logica del capitale. Da questo punto di vista, leggere (o rileggere) il libro di Helmut Reichelt può decisamente rivelarsi un esercizio teoricamente molto produttivo.
L’astrazione reale
Pur all’interno dei limiti che si sono evidenziati, Reichelt ha dato infatti un contributo di grande importanza alla chiarificazione dei rapporti tra le principali categorie marxiane e del metodo della critica dell’economia politica (criticando in particolare l’interpretazione engelsiana del rapporto tra ordine storico e ordine logico dell’esposizione). La stessa insistenza sulle determinazioni formali del dominio del capitale, entro un dialogo con il lavoro di Alfred Sohn Rethel sull’«astrazione reale», si presta a essere riletta oggi all’interno dei dibattiti sulla finanziarizzazione e sulla digitalizzazione. E la critica di Reichelt a ogni teoria «sostanzialistica» e «pre-monetaria» del valore, ovvero «a tutti coloro che, pur reputandosi marxisti, non hanno compreso che la connessione tra dottrina del valore del lavoro e teoria del denaro è il problema centrale» di Marx, pone con forza in rilievo la dimensione sociale e cooperativa del lavoro sfruttato dal capitale. Ripensare a questa altezza teorica la lotta di classe è il problema fondamentale su cui tornare oggi a interrogare i testi di Marx.*
SCHEDA
Dall’Italia all’Australia
Il nodo del «digital labour»
Seminato bene, raccolto non pervenuto. Si potrebbe riassumere così la stagione di ricerca teorica avviata nei primi anni Novanta in Italia e Francia da teorici e militanti definiti «operaisti». La chiave di accesso alle nuove forme del lavoro e dello sfruttamento era il «frammento sulle macchine» di Karl Marx. La Rete era una vicenda ancora per pochi, ma già allora accanto al termine lavoro comparivano aggettivi come immateriale, cognitivo. Nel tempo quegli aggettivi sono stati sostituiti da specificazioni come «della conoscenza». Più raramente c’è stato un ritorno all’espressione marxiana di lavoro vivo. Il nodo che il percorso di ricerca non è ancora riuscito a sciogliere è quali forme di organizzazione per il lavoro (frammentario, precario, etc..). Il metodo indicato è della ricerca militante: invito raramente accolto. Dunque la semina c’è stata, per il raccolto occorre ancora attendere. Chi invece ha continuato a riflettere, analizzare attorno al lavoro in Rete, cioè a quel lavoro che manipola segni, codici, informazioni, va cercato fuori dai confini nazionali, eccetto per Tiziana Terranova e Andrea Fumagalli. E negli Stati Uniti, Inghilterra e Australia è cresciuta, dentro le università, una generazione di ricercatori e docenti che ha affrontato il tema del «digital labour». Nomi come Ned Rossiter, Wark McKenzie, Christian Fuchs, Trebor Scholtz, Ursula Huws, Nick Dyer-Witheford, Dmytri Kleiner, Andrew Ross sono legati a una intensa e eterogenea produzione editoriale. E se Fuchs e Huws tendono a privilegiare la teoria marxiana del valore-lavoro (per questi studiosi, è confermata pienamente proprio dal lavoro digitale), per Scholtz, Kleiner e Wihiteford la centralità va assegnata alla capacità del lavoro digitale di sviluppare autonoma e solidaristica cooperazione produttiva. Insomma, anche qui molta semina. Per il raccolto l’attesa la fa da padrona.
Questo articolo èstato pubblicato su Il Manifesto il 06.4.2016