Detroit è fallita, senza tanto rumore ma con 80.000 immobili abbandonati, centinaia di migliaia di persone espluse; eppure Chrysler si aspetta di chiudere il 2013 con un utile netto tra 1,7 e 2,2 miliardi di dollari (e sono stime, al ribasso, di qualche minuto fa), nel secondo trimestre dell’anno Ford ha registrato utili pari a 1,23 miliardi di dollari. La fine dell’industria fa fallire le città ma non le società che tali città avevano creato. La città dell’auto, quindi, non paga i pompieri ma continua a pagare dividendi; e il fatto più inquietante è che l’operazione riesce senza neppure dare conto dell’oggetto sociale.
Evidentemente il “pubblico” ha perso. Il privato (vedremo poi come) riesce a generare rendita, ma quello che più rileva, informa di sé ogni forma di vita. Con la sparizione della produzione (del capitalismo industriale), però le cose sono più complicate: mentre il pubblico, pur ridotto a simulacro (un po’ come le armate austriache agli occhi di Diaz) continua a palesarsi (e i no tav lo hanno visto anche ieri), il privato soffre di una mutazione continua che nega i caratteri che lo hanno caratterizzato per tre secoli.
Verrebbe da chiedersi, dov’è lo stato? (a parte i capelli unti alla placanica e le narrazioni terroristiche di caselli -un po’ come mio nonno che rimpiangendo i vent’anni ricordava caporetto- c’è poco stato nelle nostre vite); dov’è la proprietà privata? (non nelle cartolarizzazioni, non nei cds; e si badi le cartolarizzazioni e le scommesse -unici elementi generatori di rendita- non risparmiano l’acqua, il clima “il comune”).
Perché non chiedersi allora dov’è il diritto? (pubblico o privato che sia, poco importa, guardiamolo dal lato soggettivo ovvero obbiettivo, ma già Orestano ci avvertiva che la differenza rinviene da un equivoco su Ulpiano) quali sono le fonti del diritto (non quelle del c.c., ma quelle effettive) dove si producono le norme che regolamentano lo sfruttamento e la captazione della vita?
Dice Irti, l’età moderna ha esteso al diritto la parola più audace e crudele “produrre”. Le norme giuridiche, al pari di qualsiasi bene di consumo sono “prodotte”; vengono dal nulla e possono essere ricacciate nel nulla. La forza che le produce ossia le chiama innanzi o le rifiuta, le crea e le distrugge è soltanto il volere degli uomini. Le officine giuridiche lavorano in tutte le ore del giorno e in tutti i luoghi della vecchia europa, nessuna norma ha privilegio di immutabilità e di inviolabilità.
Belle le norme giuridiche come bene di consumo (bene comune, peraltro, dal lato passivo, anzi rivendico, sin d’ora il consumo esorbitante il reddito quale invocazione rivoluzionaria del diritto al benessere). L’equivoco è porre il sorgere del flusso ininterrotto di norme nel “volere degli uomini” come se questi (individuo, massa, popolo, nazione etc) potessero qualcosa. Diverso è se indaghiamo l’elemento che unifica l’attività delle officine giuridiche (parlamenti, enti sovranazionali, signorine grandi firme, authority…).
Il capitale finanziario informa la vita di ogni singolarità, non è solo gestione delle transazioni e autoregolamentazione (che già sarebbe attività normativa) del mercato. La finanziarizzazione agisce sui corpi ma anche sulle vite, è immediatamente produttiva; implica un rapporto monetario produttivo in quanto dà profitto, che non è astratto crea anche salario forme di vita, strutture nelle quali queste si organizzano.
La finanza è il centro assoluto della produzione.
Il capitale finanziario ha assunto lo statuto dell’impresa a modello organizzativo, non solo ogni attività è resa a favore del modello, ogni vita è strutturata come un’impresa. Le officine giuridiche di cui sopra non generano più padroni del vapore o granitici rivoluzionari, tentando unicamente di creare un rapporto (monetario, di moneta perlopiù fittizia creata dalle banche private) tra uomini-impresa (indebitati).
Probabilmente l’evoluzione della disciplina fallimentare è quella che meglio da conto del fenomeno. Ci dicevano che pacta sunt servanda, che la proprietà è sacra ed inviolabile…. che il fallimento è legittima (e doverosa) esplusione di germe malato dal corpo sano del mercato. Ma cosa succede se il capitale è l’infezione che solo come tale assume il plusvalore nell’autorganizzazione delle singolarità? Quindi, se solo l’infezione (il capitale è crisi) crea nuovi uomini impresa da assoggettare? (Ricordando i notevolissimi incontri ante seminario di roma, dopo la costituzione della proprietà, dopo la costituzione del lavoro è arrivata la costituzione dell’impresa, che della proprietà e del lavoro se ne frega).
Ritorniamo al punto di partenza, alla legge fallimentare. Cosa dire, ad. es., del cd concordato in bianco (o meglio, in prenotazione)?
Come si pone nel mondo della proprietà o in quello del lavoro la possibilità per un imprenditore di rivolgersi ad un tribunale per chiedere la sospensione di ogni iniziativa contro di sé soltanto adducendo che, forse, magari, formulerà una qualche proposta per porre rimedio alla propria attuale, incontestata, riconosciuta insolvenza? Dov’è la tutela della proprietà? della certezza del diritto? dell’autonomia contrattuale?
Il giudice, sulla sola promessa (che tale non è in quanto nulla in tale sede è promesso) di un’imprenditore, accorda il beneficio (che può essere prorogato) e poi … si vedrà (l’impresa come Rossella O’Hara?, meglio Ornella Vanoni). I paladini “del lavoro” sono spiazzati, dov’è la forza della produzione? quale rilievo le braccia consegnate per anni al volere dell’imprenditore? Nessuno.
Ma anche i paladini “del contratto” non stanno meglio. L’imprenditore, sulla scorta del suddescritto nulla, può chiedere al giudice che siano risolti (quindi, autoritativamente) i contratti stipulati dall’impresa ante proposta; e il giudice (a parte la benemerita Corte d’Appello di Brescia, magari pilatescamente come a Genova, ovvero previa discovery come a Monza) accorda la risoluzione. Ma il contratto non ha forza di legge tra le parti? [E, poi, ricordate le legnate che ci prendemmo per qualche mese di proroga legale ai contratti di locazione, le fucilate ai nostri genitori per la modifica dei “patti agrari”?]
Apparentemente si tratta di un riconoscimento del potere giudiziario (comunque volto ad attualizzare la gestione capitalistica della vita, orientandola verso l’annientamento del lavoro alla sua sussunzione nell’esistenza dell’impresa -senza distinzione tra produttiva, decotta, truffaldina- e non più fonte di emancipazione e progresso, un mondo di fratelli di pace e di lavor). Più semplicemente è la costituzionalizzazione dello statuto dell’impresa (decotta, si ripete, perché “capitalismo finanziario” significa soltanto “insolvente”, se un’economia è basata sul debito) il cui principio fondativo è porre la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, comunque e in ogni caso, distruggendo ricchezza e vita perché solo così può generare rendita, distruggere (appropriandosene) il lavoro sociale già cooperante, valorizzare il comune (addirittura l’imprenditore può essere espropriato dell’impresa per la prosecuzione della stessa come fantasma creatore di morte di dissipazione di comune).
Si verifica l’intrusione immediata nella vita da parte dell’impresa, un concetto straniante di “utilità sociale” (con rivitalizzazione all’inverso della vecchia costituzione del ’48).
In realtà, la costituzione non c’entra.
Da un lato, l’uomo è di fatto impresa (e deve esserlo, fosse solo per tirare la carretta) è corretto applicarne la disciplina (quindi il diritto non sarà più scambio tra possessori di merci, ma espressione di un regime di concorrenza). Dall’altro l’impresa assume caratteri umani (per quanto “umano” possa essere il precario-impresa-indebitata). Il tumore finanziario non può che evolversi dentro a un corpo umano, deve infatti evitare che la produzione di comune si esasperi e si costituisca, in tal modo ponendone la valorizzazione.
Si riesce così a comprendere come mai Marx parlasse di contratto di lavoro salariato, basato sull’incontro tra soggetti uguali; contratto mediante il quale una specifica merce, la forza lavoro è venduta e acquistata.
Può sembrare paradossale ipotizzare la vendita di un bene solo “per un limitato periodo di tempo”, ma la forza del concetto stava nella definizione di diritto (perché tutto è assorbito dall’autonomia contrattuale e dalla regolamentazione della stessa secondo la normativa per tempo vigente) quale scambio tra possessori di merci; è la merce -prodotta in un limitato periodo di tempo- che è venduta, si potrebbe dire che si rappresentava uno scambio tra denaro e sudore rilasciato in un determinato periodo di tempo. Grazie al sudore (magari al papilloma o alla silicosi) l’operaio era riconosciuto soggetto di diritto (il diritto soggettivo al lavoro, o al tumore, nella declinazione dell’ILVA).
Probabilmente, nello statuto della proprietà la vendita era l’unica visione possibile del fenomeno lavorativo, tra possessori di merci la unica causale era la vendita; questi si riconoscevano ed erano riconosciuti (acquisendo quindi cittadinanza in quel mondo fatto di cappellacci di feltro e cappottoni alla Turati) nel possesso di un qualcosa che si scambiava. Peraltro, piuttosto che di vendita e acquisto della forza lavoro, sembra più appropriato parlare di affitto, assunzione e noleggio di essa; e questo spiana la strada alla comprensione delle modalità eterogenee di sussunzione del lavoro vivo…. ci avverte Sandro M.
L’affitto, infatti presuppone il godimento di una cosa produttiva dietro un corrispettivo. Si consente al capitale di godere dell’uomo poiché (se e in quanto) produttivo. Ma nell’impresa globale (sia nel senso di mondiale sia nel senso che ognuno è tale) il possesso è irrilevante, come irrilevante è lo scambio. Se la vita, messa al lavoro, è immediatamente produttiva, significa che non vi è alternativa; non c’è scambio perché non si può non esistere. Non si può cedere (in qualsiasi forma) il proprio lavoro, perché è già disponibile. Non v’è neppure necessità di una conquista come accadeva per gli schiavi. Il problema non è più strappare le condizioni migliori per la vendita (sempre ritenendo la figura del contratto), ma sottrarsi alla cattura.
A cosa serve quindi il diritto? Invocare una tutela?
Tempo fa La Stampa pubblicava un’interessante inchiesta sui “prestanome”, di solito dipendenti “in nero” che si dichiaravano disposti per 5-600 € ad apparire titolari di ditte e società presso le quali prestavano invece la propria opera subordinata. Non è più il fenomeno della “testa di legno” (dello scemo del paese, si diceva a Genova), intestazione fittizia di un bene o di un’attività in capo (in effetti) ad altri (magari impossibilitati da precedenti pregiudizievoli). Qui si tratta di ventenni che, senza la percezione dell’assunzione di responsabilità, cedono la vita al capitale (che abbia la faccia del mafioso, del protestato, dell’interdetto, poco importa). Novelli Garibaldi “obbediscono”. In fondo, per loro cosa cambia?
Anzi, la loro figura di impresa-singolare-indebitata trova spazio nella concorrenza (quella tra imprese-singolari-indebitate, quella tra le imprese di cui una, la loro, fittiziamente non importa). Attraverso la finzione il prestanome si affranca dal nulla dell’irrapresentabilità. e si pone all’interno del fenomeno di captazione (il bello è che il prestanome così esiste, il brutto è che consente al capitale di captare se stesso). Come l’operaio possessore di se stesso merce poteva farsi riconoscere nel diritto tra possessori di merci (e quindi esisteva; prima il lavoro poi la cittadinanza, come bossi e fini ci hanno insegnato), così il precario impresa mettendosi in concorrenza tra imprese è riconosciuto. Se diritto soggettivo era per Garbagnati la posizione di vantaggio di un soggetto relativamente ad un dato bene, creata dal diritto obbiettivo mediante un concreto comando giuridico, diretto a favore del soggetto medesimo, qui, il capitale finanziario accorda una “posizione di vantaggio” (il riconoscimento dell’esistenza) non più in relazione ad un dato bene (cosicché la questione dei beni comuni pare definitivamente dissolta) ma a sé stesso come essere vivente. Il “concreto comando giuridico” anch’esso destinato alle “moltitudini” disperse è creato non dal diritto obbiettivo (la legge) ma dal capitale stesso.
Nessun diritto, pertanto, perlomeno nel senso tradizionale, come non più proprietà, stato, tantomeno “diritti”. Il corpo “socio” è completamente immerso nell’impresa è non può che trovare approdo nella dissoluzione dello statuto di questa, dissoluzione attraverso il superamento di questa forma; non consentendo, cioè, che la creazione di comune che la vita “sociale” genera sia messa a valore. L’istituzione del comune (concetto che continua a piacermi) è proprio il superamento del modello impresa, ma procedendo da esso.