di ROBERTA POMPILI

Unseen voice: “Shit/Fucking Turks!”

Balcony Man: “Shit/Fucking Kanacken” (termine spregiativo utilizzato per indicare i migranti)

(dalla conversazione a Monaco tra il ragazzo omicida ed un uomo affacciato ad una finestra)

Crack.

L’immagine del ragazzo di Monaco che spara nel centro commerciale, prendendo di mira altri adolescenti perlopiù quasi tutti immigrati, è eloquente. Nello scambio di parole registrato da un vicino e visibile on line, egli dice: “sono tedesco”, e aggiunge di essere stato vittima di bullismo da parte dei suoi coetanei per anni. La scia di sangue inquadrata dalla televisione sul pavimento del centro commerciale ci lascia sgomenti mentre siamo ancora pieni delle emozioni scatenate dalla strage compiuta dal camionista che ha travolto i passanti sulla Promenade di Nizza, e ci arrivano le notizie del ragazzo afgano che ha aggredito a colpi di machete una famiglia in un treno tedesco. E poi tante altre, ormai giorno dopo giorno…

Qualcuno si ostina a leggere questi avvenimenti come risultato esclusivo dell’efficacia culturale della propaganda ideologica del Califfato – tanto che vengono introdotte nel vocabolario giornalistico delle nuove e strane formule come “radicalizzazione in breve”. Marco Bascetta, in un interessante articolo apparso sul Manifesto (che riprendiamo qui accanto), ha ricordato come ogni tempo e ogni società dispongano di una rappresentazione “privilegiata” del Male, che esercita sui “perdenti” una potente forza di attrazione. La rigida fede islamica del Califfato è, in questo quadro, una identità fittizia, e, come tale, può essere indossata, prêt à porter, da chiunque sia animato dall’intenzione di riscattare la propria miseria con la più grande quantità di male fatta ad altrui.

Occorre probabilmente svolgere lo sguardo all’interno della dimensione che fa di tanti uomini e donne dei “perdenti”, ovvero alla costruzione contemporanea del binomio successo-fallimento cui è sottoposto il soggetto-impresa nella sua figura individuale ed individualizzata.

Scarso, nullo, perdente sono termini che ricorrono nel vocabolario dei ragazzi*: un vocabolario modellato dalla cultura popolare proveniente dai video games, e da un certo modo di vivere la competizioni sportiva – alimentata dalla stessa cultura che ritroviamo nei modelli pedagogici neoliberali (a cui fra l’altro si sono ispirate le recenti riforme scolastiche).

Sembra quasi che una mutazione antropologica abbia stravolto i più miti e solidali essere umani, imponendo una visione della vita ispirata al corollario utilitarista dell’efficienza produttiva: il soggetto-impresa finanziarizzato, modellato fin dall’infanzia da test, competenze e bilanci scolastici, progetta la propria vita attraverso pacchetti di “progetti” individualizzati, costruiti in nome di quei totem che sono competitività e concorrenza. Con questo si mette in scena una radicale dicotomia tra winners e perdenti, tra vincitori e vinti.

La visione utilitarista implica una etica della responsabilità totalmente individualizzata e, cosi, declina lo stress legato ai rapporti di mercato e di potere facendone semplicemente un problema di personalità e di stili comportamentali.

Il dualismo vincitori/perdenti elude la dimensione dei rapporti sociali, le condizioni materiali di vita da cui sono prodotti i soggetti: la violenza strutturale e sistemica dei rapporti di classe è invisibilizzata, mentre il conflitto sociale, buttato fuori dalla porta, rientra dalla finestra traducendosi in sofferenza sociale e generando disagio, violenza contro se stessi e barbarie identitaria.

La violenza identitaria investe il soggetto e imbraca la sua potenza dentro i rigidi ed artificiali confini del genere o del sesso, della razza o della nazione, e infine del fanatismo religioso: l’esercito dei perdenti, bloccato nel suo odio e sponsorizzato – di volta in volta – con pseudo-modalità neutre o compassionevoli dalle varie narrazione mainstream, è completamente assoldato nelle file nemiche.

Rita Segato, nel suo studio sul femminicidio, introduce la significativa espressione “pedagogia della crudeltà”, per sottolineare come nella nuova fase di accumulazione del capitale si produca una violenza reiterata e spettacolarizzata che incide sui corpi delle donne (e sui corpi in generale) plasmando soggettività e rapporti sociali di potere.

Alcune studiose femministe (penso in particolare a Wendy Holloway) utilizzano il concetto di “investment”, di investimento, per indicare in qual modo il nesso tra la soggettività e l’identità sia subordinato a posizioni di potere, e ai vantaggi materiali che possono provenire dall’esercizio di questo potere. La nozione di investimento (e le fantasie ad essa collegate) mettono a fuoco le tonalità emozionali e sub-coscienti che impregnano le varie posizioni soggettive. L’incapacità a mantenere la fantasia del proprio potere provoca una crisi; la violenza diventa il nuovo confine attraverso il quale riconfermare la natura di una identità altrimenti negata.

Un filo nero collega tra di loro le forme della violenza identitaria e accomuna molti episodi recenti di strage con tante violenze realizzate da individui in sofferenza (mariti, compagni, ex-, oppure giovani losers) e in cerca di “vendetta”: la percezione del proprio “fallimento soggettivo”, del crack degli investimenti riguardo al proprio “progetto di vita”.

Accumulazione, finanza e violenza.

Viviamo in una nuova fase di accumulazione del capitale (con caratteristiche biopolitiche, cognitive, e finanziarie), e abbiamo chiaro quanta violenza si sia espressa nel modo in cui essa ha riplasmato i rapporti di forza nella società.

Meno chiaro appare il rapporto tra la violenza esercitata dai singoli soggetti su terzi e quella esercitata dal capitalismo. Quest’ultima è costruzione di una violenza genderizzata, sessualizzata e razzializzata che è, a sua volta, effetto degli attuali rapporti contemporanei di produzione, e insieme forma pratica di addomesticamento degli attuali rapporti di forza.

Eppure bisogna ricordare, come lo hanno mostrato studiose femministe – penso qui in particolare a Silvia Federici e al suo Caliban and the Witch-, il ruolo strategico della violenza nella produzione della forza lavoro in quanto merce; essa, già nella prima fase delle enclosures nellaccumulazione primitiva, e quindi nella costruzione dei successivi rapporti di produzione e di riproduzione della forza lavoro, approfondiva la divisione sessuale del lavoro.

Nell’epoca del neoliberalismo e della vita finanziarizzata, sembra che all’idea – darwiniana sociale – della sopravvivenza dei più adatti, si affianchi ormai la metafora (e la realtà) della guerra. Non a caso, in questi ultimi tempi, abbiamo assistito al proliferare di film distopici che narrano di una violenza purificatrice messa in scena dal potere, per produrre ordine sociale (penso in particolare a La notte del giudizio- The purge)

Ora, quello che la narrazione mainstream mette in scena (nei commenti di cronaca, negli interventi dei politici e nelle immagini quotidiane, negli stessi progammi di governance europea) è in realtà un vero e proprio piano discorsivo della violenza: la costruzione di un ordine del discorso che rende intelligibile la violenza, ne costruisce l’impalcatura e ne dispiega l’azione possibile. Essa produce cosi innumerevoli tipologie di violenza e tipi di “losers” affini (il femminicida, il folle, ma anche il bullo, ecc).

In questo modo, mentre la cultura dell’odio affonda le sue radici in strutture di potere e asimmetrie sociali che bloccano la potenza della vita dei soggetti – e dei losers in particolare -, la violenza viene prima prodotta e poi ricatturata in maniera funzionale al capitale nella sua dimensione securitaria.

Riappropriarsi della narrazione della violenza, demistificarla e politicizzarla, diventa dunque un compito imprescindibile per modificare gli attuali rapporti di classe. Questo può accadere se rompiamo con il piano discorsivo neoliberale, con i suoi costrutti ideologici e i suoi binomi – a partire da “successo”/ “fallimento” -quali parametri di governo e di sfruttamento del divenire e della ricchezza della vita. E allora potremo rompere con i progetti di individualizzazione e di isolamento (di identità) nei quali ci troviamo costantemente imprigionati, e sfidare ancora una volta il cielo riconoscendo la forza e la potenza del comune.

*Uso esplicitamente il maschile perchè mi riferisco ad osservazioni etnografiche svolte dentro un piccolo gruppo di adolescenti maschi.

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