di ROBERTA POMPILI. Avevamo detto marea ed una marea di 200 mila è stata! Mentre scorrono le immagini sui social che raccontano la straordinaria manifestazione del 26 novembre a Roma Non una in meno, i media mainstream provano ad occultare il grande evento che, ne siamo cert*, costituisce una cesura con la vecchia e tradizionale politica, dentro e fuori i movimenti, e finalmente schiude la porta verso nuovi scenari. Un felice imprevisto alla cui realizzazione abbiamo tutte a lungo lavorato.
E cosa dire della ricchezza del dibattito andato in scena il giorno dopo, quando Centri antiviolenza, associazioni, sportelli antiviolenza, spazi di donne, spazi sociali, collettivi, laboratori d’inchiesta, singole si sono incontrate per tracciare le linee della costruzione di un “Piano femminista dal basso contro la violenza maschile” e allargare la mobilitazione? Davvero non possiamo contenere la gioia e l’entusiasmo per questa marea che prende parola.
Presso Psicologia alla Sapienza oltre 1500 persone hanno animato il lavoro degli otto tavoli tematici; i temi comprendevano: la narrazione della violenza attraverso i media; l’educazione alle differenze, all’affettività e alla sessualità; il diritto alla salute, alla libertà di scelta, l’autodeterminazione in ambito sessuale e riproduttivo; le questioni di carattere legislativo e giuridiche; i percorsi di fuoriuscita dalla violenza e processi di autonomia; il femminismo migrante; il lavoro e accesso al welfare; il sessismo nei movimenti. E se la manifestazione ed la sua realizzazione sono effetto dirompente di una forza transgenerazionale (organizzatrici sulla carta la rete Yo decido di Roma, D.I.R.E -la rete nazionale dei centri antiviolenza- l’Udi), una moltitudine cognitiva di giovani laureate precarie, ricercatrici, avvocate, ostetriche, giornaliste, psicologhe e tanto altro ha avuto un ruolo da protagonista nei tavoli di discussione del 27.
Risonanze.
Reddito e parità di salario, welfare, intersezionalità, formazione/autoformazione, autodeterminazione. Come in una solo eco risuonano le voci della donne nei tavoli. Bisogna essersi immersi in questa composizione del lavoro vivo per respirarne la forza insieme tutta insieme politica e rivendicativa. Bisogna avere occupato le filiere del lavoro femminile e femminilizzato cognitivo, precario, sottopagato, per vederne crescere la potenza: una moltitudine che si dimena in riunioni, gruppi di studio, formazioni, gruppi fb e whatsapp, una moltitudine che avanza nei suoi progetti non senza contraddizioni e limiti, andate e ritorni, che alterna a singhiozzo l’adesione ai modelli competitivi ed individualizzanti con il sincero e radicale desiderio di democrazia, di libertà, di riscatto.
Quando il genere è al lavoro è attraverso il genere che si sperimenta la classe e il divenire-donna della lotta di classe. Orbene è proprio la materialità di questa lotta – contro la violenza sistemica e strutturale insieme patriarcale e capitalista- che spariglia e demistifica l’ordine del discorso populista agitato di questi tempi finanche da settori di movimento; un ordine del discorso in cui i rapporti sociali di produzione contemporanei sono, di fatto, occultati ed evitati dall’analisi politica, e che è tutto proteso alla ricostruzione ideologica, nonché macho-reazionaria, della dimensione unitaria di popolo- nazione.
Qui non c’è l’uno, nessun popolo, nessun presunto universale che evidentemente afferisce all’ordine del comando: il maschio, il patriarcato, la norma eterosessuale, il capitale. Perché qui l’eterogeneità composita della presenze risuona nelle differenze e nel molteplice (“la rivoluzione sarà transfemministaqueer”), ed è un molteplice che afferma il diritto alla vita e alla sua riproduzione.
Se nella contemporaneità il capitale produce comando ed estrae valore dalle vite attraverso la finanziarizzazione e il debito, il fallimento dell’economia della promessa ed il cortocircuito della violenza identitaria (dei perdenti) mostra il suo volto più truce e feroce nella vita delle donne. Ma dove c’è potere, c’è resistenza: e qui, in questa assemblea, non ci sono vittime, al contrario qui c’è forza ed organizzazione.
Verso le nuove istituzioni del comune
Molte, moltissime coloro che hanno costruito e reso ricco e straordinario l’evento frutto di un lavoro comune. Come non pensare all’instancabile lavoro delle reti femministe romane, o anche alle reti fisiche e virtuali del mondo queer (ad esempio quella del sommovimentonazioanale), ad Educare alle differenze e alle tante coalizioni locali che in questo periodo si sono attivate per contrastare alla avanzata del fondamentalismo cattolico. Questa marea parla un instancabile linguaggio plurale.
Eppure merita una particolare attenzione, la rete dei Centri antiviolenza nazionale (DIRE) per la capacità di messa in rete di lavoro, di impresa, cooperazione e mutualismo.
Eterogenei, differenti tra loro i Centri antiviolenza, luoghi di donne e per donne, hanno rappresentato per lungo tempo un terreno di frontiera in cui l’operatività del femminismo ha continuato a produrre pratiche di auto-mutuo aiuto per donne e saperi scontrandosi negli anni con le trasformazioni del sistema sociale economico e politico. I Centri antiviolenza hanno sempre rifiutato di “istituzionalizzarsi”, o meglio omologarsi nella rete dei servizi all’interno del welfare statale, rivendicando la propria parzialità, la propria autonomia, a sostegno della libertà e dell’autodeterminazione delle donne.
Le donne fanno Istituzione? Nella recente scuola politica del Dire questa domanda si è misurata con una idea di istituzione come bene comune, come parzialità, come luoghi in cui rifuggire il potere, le sue gerarchie e le sue cristallizzazioni.
E allora come non si può non pensare al divenire -donna, al divenire- minoritario come fonte di straordinaria trasformazione della scena politica e segno dei nuovi tempi che viviamo. Un divenire che non è flusso o mediazione, ma composizione di tante singolarità, quei “dividuali” la cui concatenazione produce la ricchezza del comune. Un divenire che mostra le vie di fuga dal potere, nella direzione delle produzione di potenza, insieme economica, sociale e politica. Con Ada Colau in Spagna ed altr* affermiamo, dunque, che nell’epoca della femminilizzazione del lavoro è definitivamente giunto il tempo della femminilizzazione della politica e della lotta di classe.
Il nuovo secolo sarà sicuramente pink, e come già annunciato in Argentina, Messico, Polonia, già comincia a battere il tempo del primo sciopero transnazionale biopolitico: della riproduzione, delle donne, del genere/dai generi.