(Recensione a Willer Montefusco, Mimmo Sersante, Dall’operaio sociale alla moltitudine. La prospettiva ontologica di Antonio Negri (1980-2015), DeriveApprodi, 2016.)
di GISO AMENDOLA*. Alla fine degli anni Settanta, uno dei cicli di lotta più intenso e furioso del Novecento trova davanti a sé, particolarmente in Italia, la chiusura di ogni spazio e di risposta istituzionale, se non quella della repressione più feroce. È su questo passaggio d’epoca che si apre il libro di Willer Montefusco e Mimmo Sersante dedicato al pensiero di Antonio Negri, e, in particolare, al periodo che si apre con il 1980: Dall’operaio sociale alla moltitudine. La prospettiva ontologica di Antonio Negri (1980-2015) (DeriveApprodi, 2016). Periodizzazione molto problematica, che gli autori accolgono infatti molto relativamente. Certo il 1979-80 è per Negri un passaggio fondamentale: l’arresto e l’esilio, la stretta giudiziaria su un intero movimento e, al tempo stesso, la crisi durissima di quel ciclo di lotte, poi Parigi e, con la Francia, quella «formidabile tensione a ricominciare». Ma con Negri, i giochi di periodizzazione funzionano male: i periodi, qui, non sono lunghe scansioni a segnare presunte svolte di pensiero, semmai segnano di volta in volta, modi differenti di far agire teoria e pratiche, ricerca filosofica e rompicapi offerti dalle lotte e dalla prassi politica. Dunque, non c’è qui la descrizione del percorso di un presunto «secondo» Negri: semmai, la trasformazione di un pensiero davanti a una sfida drammatica che la situazione imponeva.
Sul passaggio della fine dei Settanta si apre appunto il libro: su quel ««tempo di Amleto» che vede la profonda ristrutturazione del sistema produttivo, la liquidazione del tempo fordista, la fine della centralità della fabbrica. Dentro questa stretta cruciale, Negri, pur in una difficilissima congiuntura e dal carcere, ignora con evidente disprezzo le vie comode che sceglie la gran parte dell’intellighentia italiana: non è il tempo per «indebolimenti» ontologici, per pensieri deboli, etiche deboli. Scambiare una crisi per liberazione, e festeggiare la sconfitta per l’alleggerimento di pesi che essa comporta, è un insulto alla ragione, prima ancora che un cedimento morale. Niente postmodernismi leggeri: non c’è da accompagnare con distaccata e un po’ divertita sapienza ermeneutica il gioco dello svelarsi/nascondersi dell’essere heideggeriano. Il passaggio è feroce, e non c’è niente di immediatamente liberatorio da cantare in questo durissimo transito d’epoca. Ma, in modo ancora più significativo e deciso, Negri rifiuta quell’esito tragico che diventerà la più sofisticata copertura del cedimento del pensiero in Italia. Il pensiero negativo eleggerà appunto la crisi come paradigma generale di interpretazione del rapporto tra prassi e pensiero: interrotto definitivamente ogni possibile nesso tra loro, la prassi è schiacciata sulla contingenza assoluta, e si fa decisionismo occasionalistico, gestione funzionalistica della crisi stessa, infine cinismo e opportunismo; il pensiero, dal canto suo, si consegna alla meditazione sull’Alterità assoluta, teologia dell’assenza di fondamento. Per Negri, al contrario, la sconfitta è certo lì, presente, non può e non deve essere ignorata, ma va indagata, attraversata con la ragione e con l’inchiesta: una cosa è subire una sconfitta, altra cosa è interiorizzarla facendola diventare orizzonte intrascendibile del proprio pensiero e della propria stessa forma di vita.
Per Negri, non c’è addomesticamento né tragedia. Il negativo non è mai limite assoluto, costitutivo, insuperabile: è ostacolo da superare, tensione a cominciare da capo, sapendo che la lotta ha trasformato in ogni caso in modo radicale il campo, ha lasciato il suo segno, è stata produttiva. Significativamente, Montefusco e Sersante aprono il libro sul «seminario di Rebibbia» del 1982, dedicato al rovesciamento dell’aforisma di Gramsci. Non c’è alcuna crisi «costitutiva» nel rapporto tra volontà e ragione. Se l’antica filosofia della prassi storicistica, fedelmente custodita dal Pci, ha prodotto una evidente catastrofe, non se ne esce però tranciando decisionisticamente il nesso tra ragione e volontà: va invece riconquistata pienamente una razionalità ben impiantata nella ricerca delle nuove pratiche, nelle nuove forme di vita, quelle appunto che hanno prodotto la trasformazione radicale degli anni Settanta. L’«ottimismo» della ragione di Negri, quell’ottimismo che gli sarà spesso, e con significativa concordanza, rimproverato sia dai luoghi più consumati dell’accademia che da quelli militanti più affezionati alla propria autoreferenzialità, è in fondo tutto in questo rifiuto: Negri è «ottimista» perché non rinuncia ad indagare quel salto d’epoca, costruendo un nesso forte tra capacità razionale di inchiesta e prassi politica di trasformazione. Il suo tanto «deprecabile» ottimismo – in fondo – è tutto qui: non elevare la crisi ad attributo dell’essere, né a caratteristica «costitutiva» delle soggettività, affrontarla invece riaffermando una concezione forte della produttività politica della ragione, non cedere di un passo alla tentazione teologica o irrazionalistica, nelle sue varie versioni. Una volta ribadita questa idea forte di razionalità contro debolismi e pensieri negativi, il secondo passaggio è conquistare saldamente il terreno ontologico.
Montefusco e Sersante chiariscono bene i termini della questione. Non si tratta di trovare il fondamento ultimo e stabile della politica: l’ontologia come legge naturale, come riduzione dell’essere nei confini dell’ente non abita qui. Tantomeno si tratta di seguire le tracce della principale resurrezione della questione ontologica del Novecento, quella heideggeriana. Non si tratta di affermare la differenza irriducibile tra Essere ed ente: quella è appunto l’ontologia della sconfitta, l’inabissarsi del fondamento verso l’Origine, che ci lascia alla felice o tragica accettazione di una nostra radicale mancanza, di un tempo sconnesso e senza fondamento. Eppure, Heidegger aveva colto il passaggio fondamentale: la temporalizzazione radicale dell’essere, il suo non essere per niente più orizzonte dato, blocco, chiusura, ma divenire, trasformazione. L’essere è tempo, divenire: ma, invece di proiettarlo verso la perduta origine, rimanendo muti a celebrarne il congedo, occorre che di questa radicale temporalizzazione dell’essere si afferri il lato produttivo, costitutivo. L’essere è produzione del mondo e, insieme, dei soggetti. L’incontro con Spinoza apre a Negri il rapporto produttivo tra essere e ente: la sostanza produce i suoi modi, e in questa produzione non c’è nessun allontanamento, nessuna «differenza ontologica». L’essere è costituzione, produzione e trasformazione.
Questa ontologia è aperta a Negri dall’inseparabilità di riflessione teorica e inchiesta sulla trasformazione delle modalità produttive. La trasformazione del lavoro operaio in lavoro a sempre più alto tasso di conoscenza, di capacità linguistiche, di contenuti relazionali ed affettivi, è il terreno sul quale si rivela pienamente la natura produttiva dell’essere sociale. La produzione si trasforma, come Negri coglierà anche attraverso l’incontro con Foucault e Deleuze, in «produzione dell’uomo attraverso l’uomo»: il soggetto produce trasformando se stesso e, insieme, trasformando il mondo in cui agisce. La realtà non sta più a fare da presupposto stabile ed esterno: ma questo non nel senso che il mondo vero sia diventato favola e narrazione, come vorranno le più flebili vulgate postmoderne, ma nel senso che mondo e soggetto sono, insieme, strumenti di produzione e prodotto della cooperazione sociale. Si è spesso detto, e anche Montefusco e Sersante lo sottolineano, che il passaggio degli anni Ottanta produce una particolare inflessione etica nella riflessione di Negri. In modo non molto diverso, del resto, si è parlato di fase etica anche per le riflessioni di Foucault in quegli stessi anni. Anzi, relativamente a Foucault, qualcuno arriverà a parlare esplicitamente di un ripiegamento sul soggetto, sulle forme di vita, sula «cura di sé» come ripiegamento prepolitico, in risposta al fallimento della trasformazione intravista: una forma, più o meno colta e filosofica, di riflusso.
Con Negri, questo gioco è un po’ più difficile, ma non mancheranno e non mancano quelli che leggono il percorso tra Leopardi, Spinoza e il libro di Giobbe come una sorta di dichiarazione di fallimento dell’assalto al cielo. Sono modi un po’ beceri di non capire un granché. E non tanto di non capire gli autori, ma proprio di non capire il senso di quella fondamentale trasformazione. Proprio le forze che avevano fatto irruzione negli anni Settanta, le nuove soggettività eccentriche rispetto a quel «cittadino lavoratore salariato» che aveva dominato il panorama del lungo compromesso statal-welfaristico, pur essendo state politicamente sconfitte, avevano comunque trasformato radicalmente l’intero paesaggio. Il femminismo aveva stravolto ogni distinzione classica tra lavoro produttivo e riproduttivo; i comportamenti metropolitani avevano eroso ogni ordinato rapporto tra spazio del consumo e spazio della produzione, tra fabbrica e società. In questo quadro, che la tonalità etica diventi centrale nella riflessione non segna alcun indietreggiamento rispetto alla lotta politica: indica invece la precisa consapevolezza che lo spazio politico classico è stato travolto dalla trasformazione e che lottare significa anche continuare ad eroderlo, senza nessuna nostalgia per una sua improbabile ricostruzione. Nella fase della marxiana «sussunzione reale», interpretata da Negri come il momento in cui l’intera cooperazione sociale viene investita da un processo produttivo sempre più reticolare e modulare, i dispositivi di sfruttamento non si limitano più alla cattura del plusvalore, ma incidono direttamente sulle soggettività.
Assoggettamento e soggettivazione attraversano entrambi, contraddittoriamente, la forza lavoro; i processi di interiorizzazione dei fini, degli obblighi e dei costumi che permettono lo sfruttamento e l’autosfruttamento della forza lavoro continuamente provano a catturare il maggiore potenziale di autorganizzazione e di autonomia che le nuove forze produttive altrettanto continuamente sviluppano. La fase «etica» interpreta appunto questo passaggio: la lotta non sono non viene abbandonata, ma anzi viene approfondita e intensificata qualitativamente. Le lotte attraversano per intero i processi di soggettivazione, i desideri, i dispositivi che li potenziano e li catturano: il piano è ontologico e, insieme, etico perché qui le lotte coinvolgono tutta intera la vita, tutto intero l’essere sociale e lo producono continuamente, lo costituiscono e lo trasformano.
Un’ontologia e un’etica come fondamento della politica? Ma questo non reintroduce – è stata l’obiezione più ricorrente – un blocco della politica, una pretesa fondazionistica che ne toglie la libertà e l’autonomia? Non si restaura, con questo insistito richiamo ontologico, un finalismo storico, una direzione di marcia assicurata dalla sempre vittoriosa tendenza espansiva dell’essere, dalla sua connaturata eccedenza? Il testo di Montefusco e Sersante, evidenziando sempre in modo molto stretto il nesso tra ricerca filosofica e sviluppo delle lotte, rende molto chiaro come il carattere dell’ontologia negriana sia assolutamente incomprensibile se sganciata dalla trasformazione del lavoro vivo, e insieme, dall’irruzione delle nuove soggettività che hanno posto in crisi le mediazioni istituzionali del compromesso welfaristico dei trent’anni gloriosi.
Produttività, costitutività e insieme, soggettivazione dell’essere costruiscono un’ontologia sociale completamente storica e immanente. Da un lato, certo, questa concezione dell’essere anima tutta la storia di un altermodernità sovversiva, che, dall’umanesimo in poi, ha rifiutato qualsiasi gerarchizzazione teologica tra essere/fondamento ed enti, opponendo un essere continuamente produttivo dei suoi modi, e, allo stesso tempo, l’immanenza di tali modi all’essere. Ma questa ontologia, coraggiosamente e felicemente umanistica, si dispiega pienamente come prassi politica in un momento storico preciso: quando cioè l’architettura della produzione fordista salta per far balzare in primo piano il lavoro non eterodiretto e che incorpora le attività cooperative.
Un’ontologia storica, insomma, che serve a pensare l’irreversibilità e la radicalità della trasformazione dell’intera vita, e, insieme, un’ontologia che mostra l’essere non come dato, né come fondamento, ma come produzione dei soggetti, e, insieme, i soggetti come prodotti delle lotte, come risultato, mai definitivo, dei processi di soggettivazione. Nessun blocco, quindi, nessun ritorno al fondamento: ricreare un nesso forte tra ontologia e politica qui non significa rifondare la politica sull’essere per onorarla e renderla stabile. Al contrario, significa affermare la consunzione irrimediabile delle forme «trascendentali» dello spazio pubblico e della rappresentanza di fronte all’irruzione delle nuove soggettività e al superamento di tutte le distinzioni canoniche tra ambito della produzione e ambito della circolazione/consumo, e, ancor prima e più rilevante, tra l’ambito della produzione e quello della riproduzione.
La politica di Negri, quale si svilupperà nella «trilogia» con Hardt, prova a costruire questa politica non separata, non trascendente, sviluppata e organizzata a partire dagli spazi reticolari, modulari e diffusi della nuova produzione e dai suoi tempi, incalcolabili secondo le antiche misure della società incentrata sulla produzione di fabbrica e sul lavoro salariato. Un tentativo di cui Montefusco e Sersante riescono a cogliere anche i problemi aperti, le tensioni più evidenti, le agende per il lavoro collettivo che Negri, intellettuale mai solitario per la necessità teorica di ragionare sempre all’interno delle lotte, sta continuando. Nodi teorici e politici fondamentali, davanti ai quali si trova oggi il cosìddetto. postoperaismo: in primo luogo, il rapporto tra la valorizzazione della singolarità e la costituzione del comune. Nessun soggetto tradizionalmente «collettivo» può evidentemente dar forma organizzativa all’eterogeneità costitutiva del lavoro vivo delle metropoli: non si tratta più semplicemente di trovare una sintesi tra movimento orizzontale e momento dell’organizzazione politica e della costruzione di potere. Si tratta piuttosto, in primo luogo, di comprendere il rapporto tra singolarità e comune.
Qui la composizione sociale e di classe non «contiene» in sé automaticamente la risposta politica alla propria forma organizzativa: nessuna teleologia è assicurata una volta per tutte. Ma, allo stesso tempo, l’organizzazione delle nuove istituzioni non può astrattamente separarsi da quella composizione, pena il ritornare alla tragedia di una politica che si crede autonoma dalla cooperazione sociale e dalla produzione «allargata» contemporanea. I soggetti non emergono dal vuoto della mancanza di fondamento, chiamati dall’alto da una qualche forma di decisione politica, fondata solo su se stessa. Le singolarità sono fortemente e potentemente radicate in quella cooperazione sociale che esse stesse producono: la costruzione delle istituzioni del comune è sviluppo ed organizzazione della forza che è presente già nella cooperazione sociale. Ma è anche capacità di affermare il comune nella ricchezza dell’eterogeneità e delle singolarità: e per questo, dice Negri a Montefusco e Sersante, diventa indispensabile lo sviluppo del piano programmatico.
E qui si apre la sfida più complessa per una politica del comune e per la costruzione di una nuova istituzionalità a partire dalle nuove forme della cooperazione sociale. Cosa significa programmare, mantenendo l’eterogeneità, la molteplicità dei tempi e dei ritmi, la ricchezza della singolarità? Come sviluppare oggi un’idea di programma e di programmazione che sappia non riprodurre la trascendenza, la riduzione forzosa all’unità, la coazione all’omogeneità che sono state così spesso caratteristiche «teologiche» del Progetto come inteso nelle architetture della modernità e dei suoi stati sovrani?
Programmare, al di fuori della vecchia boria impositiva della programmazione centralizzata, mantenendosi al livello della ricchezza cognitiva della cooperazione sociale, tenendo insieme singolarità e comune, è probabilmente il passaggio fondamentale per una politica di invenzione di istituzioni autonome e di una democrazia del comune. Sempre più necessaria quando le vecchie categorie della sovranità, dello stato nazione, del «popolo», insomma della maledizione dell’autonomia del politico, pur svuotate, sembrano non voler comunque cessare di andare in giro a fare danni. Il percorso filosofico di Antonio Negri, ci dice questo testo, offre i materiali per liberare le nostre vite da quella vecchia sciagura che è il Politico «fondato sul nulla», mostrandoci il fondamento dinamico, produttivo, sociale della nostra forza di invenzione democratica.
*pubblicata anche sulla rivista on line OperaViva
Qui trovate la recensione di FRANCESCO FESTA a questo volume.