intervista ad OLGA LAFAZANI di BRUNO MONTESANO*. Olga Lafazani è una geografa sociale, ha svolto un dottorato all’Università di Barcelona e ora conduce un dottorato di ricerca sulla geografia delle migrazioni alla Università Harakopio di Atene. Fa parte della Rete di Supporto Sociale ai Migranti e ai Rifugiati ed è una delle coordinatrice del City Plaza Hotel di Atene. L’hotel è stato occupato nell’aprile 2016 da diversi gruppi tra cui diktio, parte dell’ex giovanile di Syriza e da Antarsya, gruppo di sinistra radicale. L’hotel ospita circa 400 persone, per lo più afghani e siriani, e si trova nel quartiere di Victoria, zona contesa con i fascisti di Alba Dorata. Lafazani ha militato in diktio, che vuol dire Network per i diritti politici e sociali. Un piccolo movimento che non ha mai partecipato alle elezioni politiche e che faceva campagne “su temi impopolari a sinistra come l’immigrazione, contro il nazionalismo e la libertà per i prigionieri politici. Siamo stati molto aperti a quanto succedeva in Syriza per un certo periodo, fino al secondo memorandum.”.
Il 13 marzo ad Atene è stato sgomberato lo squat di via Alkiviadou che, da circa un mese, era diventata la casa di circa 120 rifugiati e il centro sociale Villa Zografou. Gli attivisti del City Plaza, dopo la firma del secondo memorandum nell’estate 2015, ora accusano il governo di Syriza di aver voltato le spalle anche ai movimenti solidali con i rifugiati.
Intanto il City Plaza ha lanciato la data di mobilitazione del 18 marzo contro l’accordo tra Turchia e Unione Europea e contro il regime delle frontiere, altra faccia della gestione neoliberale della crisi. Secondo gli attivisti, la fortezza Europa filtra e gerarchizza forza lavoro precaria e distrae le popolazioni da quell’enorme sottrazione di reddito che si chiama austerità. A Venezia domenica 19 marzo hanno sfilato 5000 persone, in vista del corteo romano del 25 marzo ‘Europe For All – Libertà di movimento’ che partirà da Piazza Vittorio. A Parigi sono scese in piazza 10.000 persone, a Londra 30.000, nell’intera Grecia 10.000 mentre in Germania c’è stata una mobilitazione diffusa.
L’anno scorso è stato siglato l’accordo tra Turchia e Unione Europea e, con la chiusura della rotta balcanica, più di 60.000 persone sono intrappolate qui. C’è una ragione politica nel cattivo utilizzo da parte del governo greco del denaro che riceve dalla UE?
Sì, c’è una ragione politica nel non incentivare un’accoglienza diversa nella società. Non è una questione di risorse o fondi. È una strategia. Tsipras vuole dire alla UE che non può gestire la questione rifugiati per far pesare la questione nei negoziati politici ed economici sul debito.
Dopo la firma del trattato con la Turchia, le politiche sull’immigrazione sono diventate molto dure. Syriza ha dimenticato il rispetto per i diritti umani. Ha aperto hot spots e lasciato i campi d’accoglienza statali per controllare e gestire la popolazione. Invece di includere le persone nella società le ha escluse spazialmente e socialmente. Hanno trasformato le isole in delle zone cuscinetto con la Turchia. Ma l’esito è del tutto negativo: sia per la gente intrappolata lì, che per la popolazione locale. Il governo avrebbe dovuto creare una coalizione con gli altri governi e avrebbe dovuto fare pressione per aprire le frontiere e per organizzare l’accoglienza in maniera diversa. E non è vero che c’è carenza di fondi per affrontare la crisi. Ci sono molte risorse che sono state stanziate dalla UE e ci sono circa 200 grandi Ong che operano qui. Il governo si potrebbe organizzare e coordinare meglio con queste Ong per creare strutture vivibili nelle città.
Però il movimento legato a Syriza, Solidarity4All, ha lavorato nell’accoglienza dei migranti, e il governo Tsipras, appena eletto, ha cancellato l’operazione Xenios Zeus, ha promesso una radicale svolta rispetto ai campi di detenzione governativi e ha fatto passare la legge sulla cittadinanza per i figli dei migranti.
La promessa preelettorale era molto radicale in merito alle questioni della migrazione. Fino all’estate 2015 le politiche di Syriza, non solo sui rifugiati, sono state piuttosto di sinistra. Syriza provava a tenere un equilibrio tra le frontiere aperte e accoglienza. Hanno portato le navi nelle isole per favorire il movimento delle persone. Hanno istituito l’Eleonas Camp vicino al centro della città che era un campo aperto. E, inizialmente, hanno rilasciato molte persone ma, nonostante le promesse, il terribile campo di detenzione di Amygdaleza non è mai stato chiuso.
La c.d. crisi dei rifugiati è strumentalizzata dalle destre in tutto il continente europeo, ma la gestione dei governi liberali è stata altrettanto violenta. Pensi che dentro gli stati nazione sia possibile un altro tipo di accoglienza o il conflitto è insolubile? E che alternativa si può proporre a questa dialettica?
È una questione molto rilevante. Ovviamente gli stati nazione hanno un fuori. Il fuori di questo periodo è l’immigrazione. E la cittadinanza ha sempre avuto un’identità duale con gli stranieri e i sans papier. Pertanto sembra che ci sia una contraddizione tra l’accoglienza degli stranieri e gli stati nazione perché questi hanno sempre avuto un’immaginaria idea di identità omogenee. E questa comunità immaginata si spezza quando incontra gli stranieri, gli immigrati o chiunque non appartenga all’identità che si è costruita in quello spazio geografico e politico. Dobbiamo mettere in discussione queste nozioni, sia quella dell’omogeneità dello stato e dell’identità, sia quella della costruzione dello straniero. Prima degli anni ’90, infatti, il nemico era il comunista, mentre ora è lo straniero.
C’è un modello sbagliato di vittimizzazione per cui i migranti sono persone bisognose di aiuto, stipati nelle tende in condizioni vergognose. Ma strutture diverse potrebbero non avere bisogno di forza lavoro o comunque ridurre i salari alle sole attività di coordinamento. Un governo di sinistra avrebbe dovuto favorire l’autorganizzazione invece di separare e escludere le persone. Se si coinvolgessero maggiormente i migranti nell’organizzazione della vita d’ogni giorno, si libererebbe un grande potenziale. Si favorirebbero le relazioni sociali e il clima quotidiano. Ad esempio, nei campi d’accoglienza statali, la razione di cibo giornaliera per una persona costa tra i 6 e gli 8 euro. E sono piccole porzioni dl cibo terribile e spesso immangiabile. Qui al City Plaza invece il costo al giorno per persona è inferiore a 1 euro e include tre pasti al giorno. E riusciamo a fornire ai nostri ospiti beni come il sapone, il detergente o le creme per bambini. Qui la gente cucina per sé, pulisce i piatti, custodisce il palazzo, fa piccole riparazioni, bada alla pulizia degli spazi comuni e delle stanze. Bisogna coinvolgere la gente. Questo discorso riguarda l’economia del campo ma funziona anche per l’economia in generale.
Alcuni attivisti sostengono che il principale problema di Syriza sia stato di non aver costruito strutture sociali sufficientemente resistenti per reagire alla bancarotta. Pertanto il governo di Syriza, avendo firmato il secondo e il terzo memorandum, sta preparando nazionalisti e fascisti a prendere il potere. È d’accordo con questa interpretazione? E in relazione a questo tipo di prospettiva lo spazio europeo come può essere inteso?
È un periodo oscuro per la UE, tuttavia lo spazio europeo è uno spazio di resistenza, di lotte, di alternative possibili. Per questo lavoriamo nelle reti contro il neoliberismo e il capitalismo dagli anni 90. Facciamo parte di Blockupy e della mobilitazione contro il G20 a luglio ad Amburgo. E abbiamo lanciato la data di mobilitazione del 18 marzo contro l’accordo tra Turchia e Unione Europea con manifestazioni in più di 15 città in Grecia e in molte altre città nel mondo, dall’Italia, alla Danimarca, alla Svezia e alla Germania. Rispetto all’analisi su Syriza sulla prima parte non sono d’accordo. Syriza, ad un certo punto, aveva moltissimo potere sociale. Al tempo del referendum una parte enorme della società sosteneva una strategia di negoziazione molto radicale. Ma pur avendo questo potere si sono arresi. La crescita della destra estrema è uno scenario molto probabile. Non so cosa accadrà dato che la società si muove in varie direzioni e non in modo lineare. Sicuramente stare nella EU non dà nessuna possibilità. Ci sono momenti in cui bisogna percorrere strade inedite. Non penso che con la dracma tutto sarebbe stato perfetto ma, nel medio-lungo periodo, l’economia avrebbe potuto esser regolata diversamente. La questione non è la valuta ma chi la controlla e che politiche economiche si fanno. Un governo di sinistra potrebbe supportare l’autorganizzazione nella società, un’economia alternativa di cooperative e minimizzazione dei profitti del grande capitale.
Certo, c’è una dimensione strutturale all’interno della quale possono esser compiuti piccoli cambiamenti. Ma il quadro rimane immutato. Facendo così, hanno legittimato quanto fatto dai governi precedenti. La società, ormai, pensa che sinistra, destra e centro facciano tutti la stessa cosa. E ha assolutamente ragione. Inoltre finché devi ripagare il debito non ci possono essere vere politiche sociali. Ovviamente le loro politiche sono leggermente migliori rispetto a quelle di Neo Demokratia e della destra ma non è quanto ci saremmo aspettati. Non ti aspetti questi cambiamenti minimi esattamente nello stesso quadro neoliberale. Hanno fatto le scelte più sicure. Hanno feticizzato l’euro e l’Europa mentre avrebbero dovuto fare un passo indietro. Per come stanno le cose non c’è speranza: ottengono prestiti per pagare il debito. Non è una situazione sostenibile. Avrebbero dovuto rifiutare di pagare il debito o quantomeno posporne il pagamento. E provare a regolare l’economia diversamente.
*una versione di questa intervista è apparsa su il manifesto del 17 marzo 2017