di MARCO BASCETTA*. Dalle sue origini moderne fino alla metà degli anni ’70 del Novecento il proletariato non ebbe età. È solo in quel momento che irrompe sulla scena un soggetto, per nulla compreso ma grandemente temuto dalle organizzazioni storiche del movimento operaio: il «proletariato giovanile», con i suoi circoli, i suoi festival, le sue specifiche forme di conflitto e di autorappresentazione.
UN’ESPRESSIONE CHE NEI DECENNI PRECEDENTI sarebbe stata priva di ogni senso. Ma quella che sembrava proporsi come una questione generazionale non lo era affatto. Semplicemente furono i giovani a percepire più direttamente e più immediatamente una trasformazione che avrebbe messo rapidamente fuori uso categorie e paradigmi del passato e ad animare un movimento che tentava di prendere commiato da quei modelli, senza precipitare in nuove forme di sfruttamento. Ma quella trasformazione, la fine travagliata del fordismo, riguardava tutti, come gli anni a venire avrebbero messo in chiaro. Al proletariato della tradizione, insomma, bisognava dire addio, come recitava il titolo di un celebre libro di André Gorz. E, soprattutto, dire addio alla sua storica rappresentanza: la sinistra. Quest’ultima si sarebbe dedicata da quel momento in poi a una ininterrotta attività di esorcismo. Con il massimo zelo, le sinistre politiche e sindacali si sforzarono di mantenere in vigore ciò che era sempre meno vero.
QUEL «PROLETARIATO GIOVANILE» era una «seconda società» che doveva essere reintegrata nella prima. La disoccupazione non rappresentava che un fenomeno congiunturale che sarebbe stato, presto o tardi, superato. Il lavoro salariato, lo stato sociale tagliato a sua misura e i suoi canali di rappresentanza politica restavano il solo schema di inclusione contemplato. Gli esorcismi fallirono uno dopo l’altro fino ad oggi quando, ormai sommersi dal successo della controrivoluzione neoliberista, continuano ad essere riproposti come modello di resistenza. Sembra incredibile, ma a 40 anni di distanza da quella crisi e dall’emergere di una soggettività anticipatrice, si sente ancora parlare di «lavoro di cittadinanza» e di piena occupazione come strada maestra dell’integrazione sociale. Fino all’indecente apologia del lavoro gratuito come strumento per strappare una briciola di occupazione a chi ancora la conserva.
FUORI DAL LAVORO SALARIATO ETERODIRETTO, il 1977 fu un anno di straordinaria produttività e innovazione. Nella comunicazione, nella produzione culturale, nelle forme della socialità, nella riconfigurazione degli spazi urbani. È quasi superfluo ricordarlo. Semplicemente quella capacità produttiva, quel fare intenso e generalizzato restìo a ogni idea di competitività, non fu riconosciuto né in termini di reddito né in termini di valore. E la sua pretesa, anche aspramente conflittuale, di affermarsi nella pienezza della sua autonomia, repressa. In condizioni completamente diverse le innumerevoli attività cognitive, relazionali, organizzative che fanno la ricchezza delle società contemporanee non sono in alcun modo riconosciute. Solo il comando di un padrone, di un programma di stato o di una committenza, oggi come ieri, possono sottrarre chi vi dedica il suo tempo, le sue inclinazioni e qualità, al girone statistico degli sfaccendati e degli schizzinosi.
NON ASSISTIAMO, TUTTAVIA, come 40 anni fa, a quello scontro violento per l’autonomia che segnò gli anni Settanta. Il mercato e i suoi custodi hanno avuto il tempo di integrare e corrompere l’agire di concerto di un proletariato cognitivo, flessibile, inventivo che è tornato a non avere età. L’autonomia è stata rovesciata in una competitività senza esclusione di colpi, la libertà individuale e collettiva nella parodia dell’organizzazione aziendale, la cooperazione sociale catturata da chi mantiene saldamente nelle sue mani i cordoni della borsa e le fonti del diritto.
UNA NARRAZIONE CAPZIOSA sostiene che tra il 1968 e il 1977 lo spirito egualitario, che pure aveva animato quei movimenti, finì con l’essere sacrificato a quello libertario che preparava la strada all’ «imprenditore di se stesso» nel quale le nuove soggettività avrebbero trovato la loro più propria realizzazione. In verità queste due aspirazioni non potevano essere distinte e, semplicemente, il movimento fu sconfitto. Ma aveva comunque individuato il nuovo terreno dello scontro e mosso su di esso i suoi primi passi.
INTANTO LA SINISTRA si scindeva tra i convertiti, sempre più numerosi e fanatici, al libero mercato e alla competitività e i cantori di una centralità sempre più improbabile del lavoro e della sua rappresentanza politica. La trascendenza del capitale finanziario e dei mercati si sostituiva a quella della programmazione economica, del partito e dell’«interesse generale», che avrebbe continuato, tuttavia, a sopravvivere in forme ostentate e resistenziali. Il movimento del Settantasette fu il tentativo di ricondurre nell’immanenza delle vite reali e delle innumerevoli aspirazioni che le attraversano la trasformazione della società. E questa rimane comunque l’unica strada possibile.
*articolo apparso nell’inserto “77 – contro il presente” de il manifesto del 5 aprile 2017