di GIROLAMO DE MICHELE e ELEONORA CAPPUCCILLI.
Riprendiamo dal manifesto del 13 aprile 2017 due interventi sull’importante raccolta, a cura di Sandro Chignola e Devi Sacchetto, Le reti del valore. Migrazioni, produzione e governo della crisi (Derive e approdi, Roma 2017, pp. 259, € 18).
Estensioni transnazionali e predatorie della logistica
di Girolamo De Michele
La figura del «lavoratore migrante» costituisce un nodo problematico per chi, al di là delle sintesi statistiche quantitative, dei grafici sempre cartesiani e dei flussi che trasformano le soggettività in processi omogenei da governare, indaga la composizione di classe delle soggettività al lavoro. Ed è indubbio che le segmentazione e differenziazione che attraversano e il lavoro nel terzo millennio sono caratterizzate da un nuovo soggetto migrante, non riconducibile al lavoratore salariato novecentesco.
Le reti del valore. Migrazioni, produzioni e governo della crisi raccoglie gli atti dell’importante convegno su «Globalizzazione e crisi. Lavoro, migrazioni, valore» (tenutosi a Padova un anno fa, il 4 e 5 febbraio), coordinato dagli stessi curatori del volume Sandro Chignola e Devi Sacchetto, e cerca di comprendere il modo in cui le reti produttive transnazionali attraversano e riconfigurano i confini nazionali e mettono in discussione lo stesso spazio politico europeo, ma anche le pratiche politiche di queste nuove soggettività: con buona pace di chi sostiene che al giorno d’oggi non si fa più inchiesta, o di chi l’odierna classe al lavoro la legge solo nei (supposti, e spesso fantasmatici) flussi elettorali britannici e statunitensi.
Dagli interventi e dalle immersioni dirette nel lavoro vivo e nelle lotte in questo volume appare evidente come le coppie Nord/Sud, Europa/Mediterraneo, logistica/produzione, i concetti di lavoro autonomo e/o precario, capitalismo finanziario e/o predatorio vadano rimessi a fuoco.
Ridefinire il prisma interpretativo significa però rideterminare l’oggetto su cui fare scienza, ovvero il soggetto dell’inchiesta: la forza-lavoro intra-europea, il lavoratore multinazionale. Assumendo un approccio transnazionale alle modalità e categorie dello Stato neoliberale, e quindi centrando l’analisi sul passaggio dalla working class agli hired labours, diventa fondamentale la comprensione delle dinamiche distributive/produttive della logistica, nel cui campo si è operata una vera e propria rivoluzione: la formazione di uno spazio politico-economico poroso, proteso verso la dimensione globale, in transizione anche geografica (vedi lo spostamento ad est dell’asse della logistica, con Foxconn nella Repubblica Ceca o Amazon in Polonia).
Lo spazio europeo viene così ridefinito non dai confini nazionali (la cui perduta centralità nessun sovranismo di ritorno potrà ripristinare), ma come una formazione politica inedita, espressione delle interconnettività produttive all’interno di relazioni mobili e flessibili con il territorio, i confini, le appartenenze e i diritti.
L’estensione transnazionale della logistica è sia condizione della produzione che produzione essa stessa: il sistema nervoso della riarticolazione dei flussi produttivi che ridefiniscono i processi di gerarchizzazione, razzializzazione e mobilità. Ma è anche esempio dell’estensione del sistema produttivo in catene globali, con molteplici conseguenze. La prima è la destrutturazione delle cornici istituzionali all’interno delle quali si era costituita la mediazione con la forza lavoro; un crepuscolo della cittadinanza in cui lo Stato rinuncia a rappresentare l’universale.
La seconda ricaduta è la modifica della composizione di classe e dei rapporti di lavoro: valorizzazione del brand e invisibilità del lavoro vivo migrante si congiungono in un perverso legame. Ulteriore implicazione concerne i nuovi processi di soggettivazione e di ricontrattazione delle identità; il lavoratore migrante multinazionale è preso in un continuo gioco dell’elastico fra processi di soggettivazione e assoggettamento, in un intreccio fra precarizzazione salariale crescente e crescente vulnerabilità politica, entro cui si giocano le segmentazioni di genere, classe, età, lingua e cultura. Infine, i processi di valorizzazione attraverso la determinazione finanziaria della produzione, e la messa a valore dell’immaterialità.
Emerge qui come la presupposizione che il potere sia dappertutto – che le funzioni di comando siano distribuite analiticamente attraverso il processo di distribuzione irrelato con quello produttivo – non implica una concessione a teorie «deboli» che vorrebbero l’evaporazione del comando, ma una più acuta comprensione analitica delle sue funzioni. Fra esse, quella governance attraverso i numeri che pre-struttura il territorio sul quale si andrà ad esercitare la decisione politica. Riducendo il lavoro a calcolo dell’occupazione – e i lavoratori stessi a «forze di lavoro» – si eclissano la qualità del lavoro e il suo (ipotetico) contributo all’effettivo esercizio della cittadinanza, mentre le forme quantitative della governance assumono l’aura di una procedura tecnica dall’indiscussa autorità. La crisi è così governata sul piano giuridico e istituzionale, e la recessione diviene elemento centrale nella gestione globale dei processi produttivi.
Indagare in modo non neutro la composizione del lavoro vivo contemporaneo significa allora qualificarla nelle differenze che la percorrono, scrivono Chignola e Sacchetto nell’introduzione, «affinché queste differenze possano essere tradotte in una composizione politica soggettiva all’altezza del capitalismo contemporaneo»: dar voce ai processi di soggettivazione che rompono con le loro lotte la riduzione del lavoro vivo a mero capitale variabile, far parlare questa differenza nel loro rivendicare il diritto alla capacità di aspirare, alla ricerca, al futuro.
L’universo chiuso della cittadinanza
di Eleonora Cappuccilli (pubblicato anche su connessioni precarie)
Cos’hanno in comune un dormitorio per lavoratori interinali a Pardubice, un camion usato come palco per comizi sindacali fuori da una fabbrica di Manaus, un magazzino stipato a Shenzen? Niente, se non il fatto di essere scorci nascosti di continenti lontani, tanto differenti da sembrare collocati su pianeti diversi, ma in realtà posizionati su di una stessa catena transnazionale del valore.
Foxconn, multinazionale di elettronica al centro di questa particolare catena, non è però che una delle imprese che hanno contribuito a ridisegnare le geografie globali della produzione analizzate in Le reti del valore. Migrazioni, produzione e governo della crisi, a cura di Sandro Chignola e Devi Sacchetto. Questa raccolta di quattordici testi sociologici, etnografici e teorico-politici, si pone, nelle parole introduttive dei curatori, il problema politico di «pensare una connessione tra gli spazi e i tempi (produttivi e politici, individuali e collettivi) che il capitale cerca costantemente, e con violenza, di separare e che la composizione complessiva del lavoro permette invece di unificare come nuova condizione comune». La raccolta dà allora voce alla condizione dei migranti nei luoghi più disparati, dal Sud Italia alla Russia, per mostrare la doppia natura del lavoro migrante come rapporto di dominio e dispositivo di soggettivazione, «soglia di ubbidienza» e «spazio di politicizzazione», secondo le formule di Maurizio Ricciardi.
Non si tratta dunque solamente di un’indagine volta a scandagliare il cuore nero dell’industria globale nei suoi effetti sulle classi subalterne, bensì di una ricerca collettiva tenuta insieme dal filo conduttore delle migrazioni e specificamente dei migranti come soggetto autonomo che incarna il «non più» della cittadinanza. Il lavoro migrante e i processi di soggettivazione che innesca permettono di gettare luce sulla trasformazione contemporanea delle relazioni produttive transnazionali, e, come suggerisce Gabriella Alberti nel suo saggio sul sindacalismo ibrido dei migranti, di «reinventare forme di mobilitazione e negoziazione perfino dentro i luoghi di lavoro frammentato».
All’interno di questo scenario, l’Europa rappresenta uno spazio cruciale in quanto «accomuna oggi attori istituzionali ed economici in ogni parte del globo» interessati a trarre profitto da una vera e propria «nuova logistica europea» (Giorgio Grappi) fondata tanto sull’abbattimento quanto sulla creazione ex novo di confini. In questo contesto, la mobilità del lavoro e del capitale si danno – nelle parole di Devi Sacchetto e Rutvica Andrjiasevic – come «forza costitutiva nella strutturazione del mercato del lavoro», disarticolando il rapporto tra forme istituzionali, organizzazione economica e territorio.
Fuori da ogni nostalgico lavorismo, il volume mette in luce la rilevanza dell’industria per comprendere i processi di soggettivazione attuali, un’industria, però, che non si può leggere se non attraverso categorie nuove: razionalità logistica, mobilità, Stato globale, ma anche informalizzazione, etnicizzazione, de-delocalizzazione in un contesto mondiale trasformato in profondità dal neoliberalismo e dai processi di finanziarizzazione. Queste sono le parole che risuonano in tutti i saggi, a riprova dell’insufficienza della categoria di cognitariato come ombrello onnicomprensivo capace di cogliere la complessità di reti del valore segnate da gerarchie marcate, da dislivelli di potere enormi. Piuttosto, come emerge nel saggio conclusivo di Vando Borghi, «la città del lavoro» e «la città della conoscenza» convivono creando un campo di tensione, di conflitto, che sfugge ai tentativi di appropriazione.
È un conflitto, questo, che difficilmente può esaurirsi nell’immaginario pacificato della società reticolare, orizzontale, che connette lavoro e conoscenza, ma deve scontare l’imporsi sulla scena di soggetti – precari, migranti, operai – che mettono continuamente a nudo la violenza che si cela dietro la valorizzazione della cooperazione sociale. Da un lato, la trasformazione della conoscenza in «basi informative» (algoritmi, programmi informatici, indicatori di performance, parametri di valutazione) e, dall’altro, le dinamiche di impoverimento e marginalizzazione del lavoro vivo contribuiscono a intensificare un processo di individualizzazione che, da originario progetto di emancipazione, diventa un prerequisito che costringe ciascuno e ciascuna a trovare «soluzioni biografiche» a problemi collettivi e strutturali.
Contro questo nuovo spirito del capitalismo che usa i processi di individualizzazione per esercitare un dominio assoluto sul tempo, i migranti, figura chiave dell’intero volume, si pongono come forza dirompente capace di politicizzare la differenza data dalla presenza di una massa di individui messi al lavoro. Se guardati dal punto di vista eccentrico dei migranti, perfino gli stereotipi razziali e razzisti acquistano una valenza inaspettata. Ad esempio, letta contestualmente allo sviluppo dell’industria della moda, l’auto-segregazione dei migranti cinesi risulta non già una caratteristica etnica, ma il mezzo di «compressione della diversità della forza lavoro nel contesto globale della crescente diversità del lavoro».
Come mostra Antonella Ceccagno, nella rete di laboratori terzisti cinesi della moda italiana, le dinamiche di etnicizzazione della forza lavoro e di delocalizzazione «in loco» della riproduzione sociale diventano assi di produzione di profitto, precondizione per un «fluido funzionamento» del regime mobile del fast fashion.
Allo stesso modo, il furto di materie prime e di merce finita nelle grandi fabbriche tessili in Romania che producono per le grandi firme, lungi dal confermare lo stigma del romeno ladro, simboleggia la contestazione materiale del furto che la forza lavoro subisce quotidianamente. Come spiega Veronica Redini, rubare un capo di alta moda cucito e assemblato in Romania ma comperato esclusivamente nelle boutique delle capitali dell’Europa occidentale, per rivenderlo o tenerlo per sé, non è solo un risarcimento del proprio sfruttamento, ma è espressione di una conflittualità operaia che non trova nessuna mediazione sindacale, la cifra, cioè, di una rivolta silenziosa contro un ordine in cui il lavoro materiale, strutturalmente sottopagato, deve essere reso invisibile.
Questa è l’altra metà del made in Italy, marchio di uno sfruttamento subìto soprattutto dalle donne migranti, che, mentre con i loro movimenti e la loro ricerca di libertà mettono in discussione le strutture patriarcali di potere, si ritrovano sempre più oppresse dal doppio carico di lavoro produttivo e riproduttivo. Tanto in Veneto quanto nei Paesi della Ex-Jugoslavia, nota Chiara Bonfiglioli, la crisi (ormai normalizzata) costringe infatti le migranti a tornare al lavoro domestico, andando ad alimentare «un welfare informale, tollerato e sussidiato dai poteri pubblici» (Francesca Alice Vianello).
La collezione dei saggi contenuti in Le reti del valore allude insomma non soltanto alla produzione reticolare del valore a livello mondiale, ma anche e specialmente alla cattura del valore da pare di reti intrecciate di sfruttamento, informalizzazione, segregazione funzionale, retoriche umanitarie e mobilità governata per mezzo della costante produzione di norme legislative ed amministrative. Eppure, l’immagine delle reti non evoca solamente l’«irretimento» quotidiano a cui è soggetto il lavoro vivo. Fotografa anche una situazione che si evolve con rapidità e lungo traiettorie impreviste, lasciando spazio ai movimenti reali che non si lasciano catturare da queste reti ma le sommergono con la potenza di una marea che non risparmia nessun angolo del globo.