di AUGUSTO ILLUMINATI. Ognuno si porta dietro gli anni e i pregiudizi che ha, siate clementi.

Per esempio, qual è la contraddizione principale oggi in ballo sul materialissimo piano ideologico? Il populismo dilagante o il neoliberalismo ancora saldo in sella? Interessante, non tanto per aderire all’uno o all’altro, ma per decidere se associarci o meno alle campagne in corso. Campagne orchestrate e finanziate in pari misura da forze geopolitiche e finanziarie ben note e da cui ci sentiamo egualmente distanti.

Populismo: «epíteto peyorativo como crítica política conservadora sin validez epistémica», scriveva Enrique Dussel nella seconda delle Cinque tesi sul populismo del 2007. Pensava naturalmente al neopopulismo latino-americano e ai regimi progressisti che si erano affermati al volgere del millennio in Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador e Brasile, non alle “comunità del rancore” dei sovranisti di sinistra e alle formazioni xenofobe e neofasciste. Per dirla con Rancière, «la nozione di populismo serve ad amalgamare tutte le forme di politica che si oppongono al potere delle competenze autoproclamate e per ricondurle a un’unica immagine: il popolo arretrato e ignorante se non astioso e brutale. Il potere del popolo è assimilato allo scatenamento di un branco razzista e xenofobo», quando oggi il razzismo è gestito dallo Stato, come dimostra la legislazione sulle migrazioni e sulle classi pericolose – pensiamo ai malfamati decreti Minniti subito tradotti in leggi e retate.

Oggi la polemica battente di governi, istituzioni sovranazionali, stampa e banche sul “pericolo populista” si volge, in apparenza, contro Marine Le Pen, AfD, Salvini, Grillo e i regimi est-europei (molto più sfumatamente contro Trump e la Brexit), ben attenta alle imminenti scadenze elettorali e altrettanto pronta a recuperare alla matrice imperiale questi nemici pseudo-assoluti in caso di loro vittoria, ma è chiarissimo che il vero bersaglio sociale sta a sinistra: Podemos, Mélanchon, Morales-Linera, Correa, Sanders, perfino Syriza, Corbyn e die Linke che magari non se lo meritano. E soprattutto i movimenti sociali, colpiti con misure repressive e non solo polemiche ideologiche. Daspo e manganelli, mica tweet e articolesse. Un po’ come fu la crociata degli anni ’50 e ’60 contro il “totalitarismo” quando in gioco erano i “duri”. Quindi: attenti alle compagnie e non scuotiamo l’albero per lasciar raccogliere i frutti ad altri. Il popolo contro il populismo? Sticazzi. Non mettiamo nello stesso sacco “populista” la demagogia centrista autoritaria di Macron e Renzi e quella soft di Grillo, i fascismi 1.0 e 2.0 dei nostri squadristi aborigeni, della Lega, del Tea Party e dell’Alt-Right, e i neopopulismi di sinistra in guerra con l’austerità e l’establishment­ – cioè i poteri finanziari, non l’innocua “casta”.00030205-the-matrix-reloaded

Beninteso, nel populismo di sinistra ci sono zone oscure e grigie. Decisamente oscura è la tendenza a “costruire” un popolo dall’alto e secondo criteri arbitrari, sulla base di “significanti vuoti” che colleghino trasversalmente catene equivalenziali di domande eterogenee. Nell’impostazione di E. Laclau e Ch. Mouffe il popolo non è una realtà empirica bensì discorsiva, che si fonda sulla divisione della società e si sviluppa contrapponendo un “noi “ a un “loro” in una logica antagonistica di tipo schmittiano (amico/nemico), che in Mouffe diventa competizione senza sfracelli. Alla fine – questa è la zona grigia – il “momento populista” diventa una forma di conflitto pluralistico, fondato sull’opposizione alto/basso e non su quella destra/sinistra. Il che esclude moltitudine ed esodo e ripropone piuttosto una guerra di posizione pseudo-gramsciana per trasformare lo Stato incorporandovi il popolo. Su questa base è facile innestare il sovranismo nazionale quale forma della sovranità popolare. Finisce che il buon popolo è “protetto” dallo Stato (dal “suo” Stato) come il gregge dal pastore.

Tuttavia all’interno stesso dei movimenti (neo)populisti o bollati per tali ci sono evidenti divergenze.

Lasciando da parte l’America Latina, dove sono presenti altri problemi e difficoltà, e gli Usa, dove Sanders ha ripreso, in alternativa sia alla Clinton che a Trump, una tradizione populista- progressista specificamente statunitense, possiamo citare un recentissimo dibattito proprio fra Ch. Mouffe e il candidato presidenziale J.-L. Mélanchon, che ha conseguito al primo turno un risultato di tutto rispetto, celebrando le esequie del Ps e arginando il deflusso operaio verso il FN nelle banlieues cittadine e nelle aree industriali dismesse. Mélanchon, oltre ad attenuare o specificare i suoi procedenti toni anti-europei, ha parlato di autocostruzione del popolo su una base materiale, riducendone la caratterizzazione simbolica e discorsiva a mobilitazione degli affetti sulla base concreta della passione per l’eguaglianza. Ha in conseguenza definito il “noi” in termini non fusionali e polemologici ma piuttosto di integrazione collettiva di singolarità, ponendosi in continuità con una tradizione della sinistra e di un marxismo aggiornato e con l’obiettivo di ricostruirne le radici (da Robespierre alla Commune) mediante una federazione del popolo, cioè con una lettura socio-politica della trasversalità e della concatenazione dell’eterogeneo. Contro Mouffe, che rimarca l’esclusivo momento dissociativo del populismo (noi si definisce solo per contrapposizione a “loro”, come l’amicizia schmittiana si fonda sul comune nemico), Mélanchon pone l’accento sugli elementi oggettivi di solidarietà che associano le singolarità in libera adesione a un movimento.

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Una volta sfrondate le letture approssimative del populismo, studiandone gli antecedenti storici e le variazioni spaziali ed evitando di identificarlo con Bannon o Di Maio, una volta appurato che il neopopulismo contemporaneo fiorisce nel vuoto prodotto dalla resa della sinistra socialdemocratica e liberal all’offensiva neoliberale, cioè nella crisi irreversibile della democrazia oligarchico-rappresentativa e dei partiti di massa che ne furono l’ultima incarnazione (il Parteienstaat kelseniano e keynesiano), restano un sacco di problemi.

Nel populismo, erede di una lunga tradizione profetica e carismatica, permane un’inclinazione rappresentativa che è il suo vero limite e di volta in volta si manifesta come delega fiduciaria a un leader, invischiamento in una dimensione statuale protettiv” o integrativa, una pericolosa propensione all’Uno plebiscitario. Nella forma più sofisticata il Popolo-Uno viene costruito arbitrariamente, è un “discorso”, un fattore arbitrario di coagulazione; di regola si mantiene quale essenza naturale ed è su questa base che può virare in fattore etnico, come è tipico dei populismi di destra. La tabe sovrana del populismo ha un illustre lignaggio, che parte dal processo hobbesiano di autorizzazione, per cui l’autore-agente politico si fa rappresentare per contratto e lascia agire in sua vece un “attore”, che detiene la sovranità per il bene di tutti. Come se ne può uscire?

Per molti aspetti il neopopulismo assomiglia – anche nella genealogia di alcune formazioni, pensiamo all’origine di Podemos dagli Indignados – a quello strano affetto che era in Spinoza l’indignatio: passione triste per l’individuo, sebbene con nobile motivazione (l’odio per qualcuno che ha fatto del male a un altro, ciò che implica la stessa decrescita di potenza che accompagna l’odio), elemento positivo a livello collettivo. Cosa succede nel passaggio dall’Ethica al Tractatus politicus? Che l’indignazione associa in una giusta causa gli oppressi e chi teme non solo le offese fatte a sé ma anche quelle fatte ad altri, insomma è il principio della resistenza all’oppressione e non solo di ogni rivoluzione ma anche della formazione e sussistenza di una società civile democratica. Dove c’è oppressione c’è resistenza e rivolta, questo è il momento populista della politica e della democrazia, ma è un movimento progressivo quanto inquinato da passioni tristi. Il risentimento reattivo resta incorporato nella rivolta e nell’immaginazione che inevitabilmente permea la razionalità del progetto emancipativo e associativo.

Del pari, gli antenati dei populisti, i profeti che sferzavano i tiranni e producevano un popolo, educandolo all’obbedienza e a vivere sotto una legge (non a conoscere la verità), hanno esaurito il loro compito. Oggi non ci sono più i profeti, perché Gesù li ha resi inutili, con il suo messaggio di amore e libertà che supera la Legge e la costrizione esteriore (è già il Gesù dostoevskiano che sconfigge il Grande Inquisitore). Ora siamo tutti profeti in una tendenziale democrazia assoluta. Spinoza ci indica insomma un al di là dello Stato liberale e del riequilibrio populista dell’oppressione mediante indignazione. Al culmine di questo processo avremo ancora l’immaginazione, ma non più quella reattiva che abbiamo incontrata nella giusta rivolta ma quella che, nell’ambito di una democrazia assoluta, con il minimo di rappresentanza, fa sì che «sentiamo e sperimentiamo di essere eterni».

Forse siamo andati troppo oltre, ritorniamo sulla terra. Il momento populista va attraversato, visto che per altre scorciatoie abbiamo fallito. Ma quelle passate non sono esperienze da buttar via. Ricordiamo un dettaglio: uno dei due grandi populismi storici dell’Ottocento, quello russo, fu sconfitto non da Plechanov quando scisse nel 1879 Naròdnaja Volja formando la corrente Cërnyi Peredèl, antenato del Partito operaio socialdemocratico russo del 1898, non da Lenin quando all’inizio del Novecento spaccò il Posdr fra bolscevichi e menscevichi, ma da Lenin nell’aprile del 1917, quando da una posizione di minoranza assoluta impose al CC del partito bolscevico l’uscita dalla guerra patriottica e il programma populista agrario quali strumenti per la presa del potere e il passaggio alla rivoluzione socialista. La cosa durò fino alla Nep e il socialismo non fu costruito, ma resta un eccellente esempio di come si supera uno stadio facendosene carico.

Ci sbarazzeremo prima o poi del populismo, con la sua mobilitazione ambivalente di passioni miste e pulsioni carismatico-rappresentative purtroppo necessarie per la battaglia, ma questo avverrà solo se sapremo spingere nella direzione giusta da dentro una situazione inedita, per cui poco serve il patrimonio che abbiamo già, se non riusciamo a qualificarlo riposizionarlo. La maggioranza dei dirigenti bolscevichi rinfacciò ad aprile a Lenin che stava abbandonando il marxismo rivoluzionario. E noi manco siamo Lenin.

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