di SANDRO MEZZADRA. La povertà ha assunto negli ultimi anni negli Stati Uniti dimensioni e caratteristiche per molti versi inedite. La figura del senza tetto, dell’homeless, le riassume nel modo più efficace, per quel che riguarda la sua crescita esponenziale, certo, ma anche per il tipo di visibilità che ha assunto in molte metropoli e per le relazioni che intrattiene con le istituzioni – a partire da quelle repressive sempre più presenti nella sua quotidianità
Quello degli homeless è ormai «un popolo nel popolo», scrive Elisabetta Grande nel suo Guai ai poveri. La faccia triste dell’America (edizioni Gruppo Abele, pp. 172, euro 14): non solo perché ha effettivamente assunto la consistenza quantitativa di un «popolo», ma anche nel senso che un insieme di dispositivi politici, giuridici e culturali – sapientemente orchestrati quantomeno a partire dalla prima presidenza di Ronald Reagan – ha finito per separare la figura inquietante e minacciosa del povero estremo dall’insieme della popolazione statunitense, scardinando le basi di quell’empatia che aveva pur caratterizzato altre fasi storiche, come il New Deal (nonostante la persistente discriminazione nei confronti degli afroamericani) e gli anni della «guerra alla povertà» di Lyndon Johnson.
L’homeless è del resto figura sintomatica della vera e propria esplosione della povertà negli Stati Uniti contemporanei (legata a doppio filo, non è certo inutile ricordarlo, all’accumulazione di ricchezza). L’«identikit» degli homeless, del resto, è drasticamente mutato, come è facile capire se si tiene presente che quasi il 50% ha un diploma di istruzione e che «un consistente numero di homeless, contato intorno al 30 per cento (e in alcuni luoghi a più del 40%) lavora a tempo pieno o parziale».
Grande ricostruisce in modo incisivo le diverse dimensioni su cui l’esplosione della povertà si articola, analizzando in pagine di grande chiarezza il progressivo smantellamento del Welfare statunitense (a cui ha dato un contributo fondamentale Bill Clinton negli anni Novanta) e soffermandosi ad esempio sulle politiche della casa e del lavoro. Raffinata giurista, l’autrice insiste sul ruolo del diritto nella produzione di una povertà che nulla ha di «naturale», ma è piuttosto «frutto delle scelte politiche e dell’intreccio fra mercato e diritto, laddove il primo non potrebbe mai funzionare senza il secondo».
Questo vale in primo luogo per le nuove architetture giuridiche internazionali, che hanno favorito una globalizzazione dalle caratteristiche «estrattive» nei confronti dei «lavoratori più deboli» (cosa non inevitabile, visto che Grande considera la possibilità di una globalizzazione di carattere «generativo», ovvero capace di porre le basi per nuove politiche redistributive ed egualitarie).
Ma vale anche, e soprattutto per quel che riguarda l’analisi svolta nel libro, per le politiche del diritto e per la giurisprudenza interne agli Stati Uniti, che nel momento stesso in cui hanno favorito lo «tsunami globalizzazione», gli interessi delle corporation e il dominio incontrastato del mercato non hanno predisposto alcun tipo di «argine» a protezione dei poveri. Hanno anzi sistematicamente disattivato, come già si è detto, gli argini sedimentati da una lunga storia di lotte e politiche sociali, trasformando progressivamente la «guerra alla povertà» in una sistematica «guerra ai poveri».
La seconda parte del libro di Grande è dedicata interamente all’analisi di questa «guerra ai poveri» – nonché delle nuove frontiere delle politiche del diritto nei confronti della povertà che attraverso lo strumento della partnership tra privato e pubblico trasformano la povertà in occasione per i più ricchi «di arricchirsi ancora di più» predisponendo interventi (ad esempio strutture di «accoglienza») che prescindono completamente dal consenso dei poveri. Non mancano in questa parte del libro, così come in altre, risonanze con la situazione europea e italiana in particolare. Basti pensare all’«accoglienza» di profughi e migranti, ma anche ai sistematici provvedimenti delle istituzioni cittadine statunitensi per proibire di «dar da mangiare ai senzatetto» (ripresi come è noto in un’ordinanza del comune di Ventimiglia sui migranti, solo da poco ritirata).
Più in generale, i tratti feroci e grotteschi della «guerra ai poveri» negli Stati Uniti sembrano rinviare – e Grande lo sottolinea esplicitamente – alla «legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio» che alle origini della modernità, secondo la celebre analisi della «cosiddetta accumulazione originaria», accompagnò la transizione al capitalismo in Europa. È un riferimento prezioso: se del resto è vero che il capitalismo, in questa sua fase «matura» e finanziarizzata, pare riproporre alcuni tratti che ne avevano caratterizzato le origini, decisamente mutate sono le funzioni della «guerra ai poveri».
Lungi dal rinviare a un lineare – ancorché violento – processo di proletarizzazione e avviamento al lavoro salariato, la produzione di povertà in un paese come gli Stati Uniti riguarda una componente costitutiva del «lavoro vivo» contemporaneo. E la povertà estrema, marchiata a fuoco da un insieme di stigmi e di misure punitive, pare funzionare come una sorta di limite della composizione di questo lavoro – nonché come una concreta minaccia che si rivolge all’insieme delle sue figure.
questo testo è stato pubblicato sul manifesto il 3o maggio 2017