di EVA BANCHELLI per il Naga.
Non stupisce che, tra i vari ambiti in cui il Naga opera, Alessandro abbia scelto di fare volontariato (un termine che, peraltro, aborriva) in carcere o, come diceva lui, in galera e, in particolare, nel carcere di San Vittore, una sorta di archetipo del dispositivo disciplinare ottocentesco rimasto intatto, nel suo modello panottico, nel pieno centro di Milano. Lì i suoi studi teorici diventavano paesaggio reale: in una sorta di incredibile reperto archeologico, si trovava davanti lo spazio descritto da Foucault in Sorvegliare e punire e lì, di quello spazio, trovava confermate tutte le funzioni di punizione, di sorveglianza, di controllo, cui se ne erano aggiunte di nuove, peculiari e funzionali alla fase storica che stiamo vivendo. Quel suo retroterra gli forniva gli strumenti per fare del volontariato un importante lavoro di analisi, ma aggiungeva anche una carica di dolorosa consapevolezza nel suo approccio alla realtà ristretta.
A noi che entravamo con lui non sfuggiva un’emozione, una fatica, una rabbia in più nei passi con cui percorreva gli interminabili corridoi, nello sguardo con cui osservava muri, cancelli, grate, nell’attenzione con cui ascoltava e chiedeva.
Il reparto dove incontravamo ogni mercoledì il nostro gruppo di detenuti stranieri era (e continua ancora ad essere) il terzo, forse il più diseredato e problematico. Su tre piani decine di uomini e di giovani in attesa di giudizio per reati legati al consumo e all’uso di stupefacenti: in gran parte spaccio e traffico di droga, furti, risse, un va e vieni perpetuo tra dentro e fuori di chi non riesce a fare altro anche quando vorrebbe e tenterebbe.
Davanti a questa umanità, davanti alla totale, degradante condizione di una detenzione priva di senso e di sbocchi, il bagaglio teorico diventava per Alessandro urgenza di pratica politica. È ascoltando decine di storie nella saletta di socialità del II piano che si tocca con mano il nesso tra condizioni esasperate di precarietà, che inducono a vivere ogni giorno nelle zone grigie dell’illegalismo, e l’approdo all’illegalità conclamata dei reati. I meccanismi che presiedono alla criminalizzazione degli stranieri irregolari diventano lampanti e la detenzione si manifesta in tutta la sua evidenza di strumento per la gestione dell’immigrazione clandestina: spesso abbiamo usato tra noi, per definire San Vittore, il termine di discarica sociale.
Altrettanto lampante ti si palesa, lì dentro, anche il circolo perverso che fa del luogo ufficialmente deputato alla tutela della legalità una fabbrica spaventosa di pratiche illegali, doppiamente vistose e penalizzanti nei confronti dei detenuti stranieri. È nata così da Alessandro l’idea – poi realizzata insieme, e ora senza di lui, da diversi anni – di tenere un gruppo di lavoro sui diritti negati dentro il carcere. Sfida di massimo grado in quel contesto, considerato lo stato di diffuso degrado psico-fisico di soggetti arresi, passivi, infantilizzati dall’istituzione, ai quali in molti casi si deve spiegare la nozione stessa di diritto e metterla in relazione al verbo ‘avere’.
Con enorme fatica, a volte disperando, Alessandro ci ha trascinati a costruire in alcune di queste persone la consapevolezza di cosa sia un diritto (per esempio quello minimale di vedere scritto e pronunciato in modo corretto il proprio nome), riconoscere i diritti loro negati e provare almeno a pensare, anche solo nelle due ore che trascorrevamo insieme, che quei diritti si possano rivendicare.
Anche per questa ardua impresa, in cui non ha smesso di credere sostenendo i nostri momenti di scoramento, Alessandro poteva attingere ai suoi maestri di riferimento: le istituzioni totali, ha scritto Foucault, vengono trasformate «quando coloro che hanno a che fare con una certa realtà, quando tutti questi si scontrano tra loro e con sé stessi, incontrano ostacoli, imbarazzi, impossibilità, attraversano conflitti e scontri. Quando la critica viene giocata all’interno del reale e non quando i riformatori realizzano le loro idee».
Gli incontri che si sono fatti al III reparto di San Vittore, con persone da cui abbiamo imparato sempre tanto di più di quanto mai immagineranno, riassume nel più perfetto dei modi quello che Alessandro ancora in una recente occasione descriveva come “fare politica” quando tutto sembra congiurare contro questo fare: “mettere insieme delle pratiche e rappresentarci la situazione del mondo e batterci perché cambi”.