di UGO ROSSI. (pubblichiamo qui l’intervento di Ugo Rossi all’interno della 3 giorni Commons and Cities che si è tenuta a Napoli, negli spazi dello Scugnizzo Liberato e dell’Asilo, dal 17 al 19 novembre: uno spazio di discussione trasnazionale che ha messo al centro il tema della produzione del comune nelle città e nelle metropoli). Il 2011 è stato un vero e proprio spartiacque per i movimenti sociali a livello mondiale. Il loro impatto è paragonabile a quello del “movimento di Seattle” del 1999-2001. È importante apprezzare il salto di qualità compiuto in quest’ultima fase. Non solo più contestazione dell’egemonia neoliberista in quanto tale ma anche concreta identificazione dei responsabili delle politiche neoliberali, critica delle élites, rivendicazione di spazi di democrazia reale, ricerca di nuovi modelli di far politica basata sul rifiuto delle gerarchie prestabilite nei ruoli.
Non è un caso che le esperienze politiche più significative in campo progressista siano un’emanazione del ciclo di movimenti post-2011: dalla candidatura di Bernie Sanders, che non sarebbe stata possibile senza Occupy Wall Street, a Podemos e Barcelona en Comú in Spagna e Catalogna. Lo stesso movimento dei beni comuni, per il “comune”, non sarebbe pensabile oggi senza quel ciclo di movimenti e lotte.
Una ampia riflessione nel pensiero critico e negli studi urbani ha messo in evidenza un punto fondamentale di quel ciclo di movimenti: non si è trattato di lotte per diritto alla città, come nella tradizione novecentesca, ma di movimenti in cui sono emerse singolarità insorgenti che sono diventate moltitudine in seguito a un processo di autoriconoscimento collettivo. La città è diventata teatro della politica dell’incontro, come è stata chiamata, o della politica del comune e non più solo di lotte per la rivendicazione dei diritti alla città (trasporti, casa, lavoro, salute) da parte dei ceti subalterni come nella città fordista-keynesiana.
Negli ultimi 2-3 anni abbiamo visto però alcune cose cambiare, in peggio purtroppo. L’esplosione dei movimenti nazional-populisti – da Trump alle nuove destre europee – o la trasmutazione di quelli che si dichiarano “post-ideologici” – con la svolta a destra dei Cinque Stelle sull’immigrazione, e non solo – non sarebbe potuta essere possibile, a ben vedere, senza le rivolte del 2011 e degli anni successivi. Il populismo è infatti il gemello contrario, l’appropriazione in forma distorta della critica anti-elitista dei movimenti del 2011 e del desiderio per il comune di cui sono espressione.
L’esperienza italiana, in particolare l’elezione recente delle amministrazioni 5 stelle a Roma e Torino, merita attenzione, perché se si vedono le cartografie elettorali del voto comunale del 2016 in quelle due città si nota come i quartieri disagiati delle periferie abbiano votato in massa per i candidati cinque stelle mentre quelli delle aree benestanti del centro hanno votato per il centro sinistra. Questo riflette a una scala urbana la polarizzazione del voto che si è avuta negli Stati Uniti, tra aree dinamiche della costa e aree in declino economico dell’interno e in particolare della Rust Belt ex industriale dove Trump ha promesso di restituire il benessere perduto a una classe operaia bianca in preda alla disperazione per l’emorragia continua di posti di lavoro (il picco nel consumo di eroina che si è avuto negli USA in anni recenti è concentrato in aree “bianche”).
Quindi, in un senso o nell’altro, le città sono cruciali non solo per capire i movimenti progressisti per la giustizia sociale e per il comune, ma anche il loro opposto: quelle forze che utilizzano la rabbia sociale della maggioranza dei residenti per attaccare i nemici dell’Occidente: i migranti, le minoranze religiose (i musulmani), i rom, etc. colpevoli di accamparsi nelle nostre città e di competere con i “cittadini” per i servizi sociali: a partire dall’assegnazione degli alloggi pubblici ormai residuali.
La questione abitativa è oggi strettamente intrecciata con la crisi dei rifugiati e con il rigetto che il ventre molle dell’elettorato italiano ha iniziato a manifestare in questi ultimi 2-3 anni verso i migranti. Ne è testimonianza il graduale ma inequivocabile adattarsi del movimento Cinque Stelle al nuovo senso comune (reale o costruito che sia), come si può vedere dalle dichiarazioni di Grillo e Di Maio, in particolare dal 2016 in poi, che hanno associato il fenomeno migratorio al terrorismo, hanno escluso i migranti dal diritto al reddito di cittadinanza, hanno attaccato le Ong umanitarie che operano nello Stretto di Sicilia.
La città, la metropoli globale, ha dunque un potenziale politico che però rischia di essere compromesso dalle contraddizioni sociali irrisolte e dalla divergenza nei bisogni sociali (tra “cittadini” e “ospiti”) alimentata dalle politiche neoliberali esistenti. Per tale ragione oggi per avere una politica del comune è fondamentale avere una politica di rivendicazione di un sistema di welfare: non chiamiamolo welfare state, chiamiamolo welfare e basta, che sia municipale, nazionale, sovra-nazionale: purché ci sia.
Io credo che, per dirla in termini politici(stici) conciliare Podemos con Sanders o Corbyn sia fondamentale. O per dirla meglio, penso che tenere insieme la politica del comune – alimentata dal desiderio di essere felici stando insieme con gli altri, di costruire situazioni di vita in comune e relazioni autentiche, non mediate dal denaro e dalla proprietà privata e liberate dalle passioni tristi del neoliberalismo (la carriera, la competizione individuale, etc.), e di trasporre questi desideri e queste relazioni in istituzioni durevoli – con una politica “socialista” dei diritti sociali – che assegna priorità ai bisogni dei gruppi sociali subalterni – sia oggi la sfida fondamentale che ci aspetta, se vogliamo lasciare un segno in questi tempi difficili.