Di SARAH GAINSFORTH

Nella serata di ieri a Napoli si sono verificate proteste nel centro cittadino, culminate in scontri con le forze dell’ordine davanti al Palazzo della Regione. «Tu ci chiudi, tu ci paghi»: le rivendicazioni della piazza sembrano il frutto di una crisi economica e sociale acuita dalle misure per contrastare l’emergenza sanitaria, ma conseguenza di problematiche strutturali che presenta il tessuto lavorativo del capoluogo campano. In tanti hanno anche parlato di infiltrazioni da parte del crimine organizzato nonché della volontà dell’estrema destra di provare a porsi a guida delle mobilitazioni. Intanto, anche durante una manifestazione promossa oggi pomeriggio da lavoratori dello spettacolo, precari e disoccupati si sono verificate cariche da parte della polizia. Abbiamo provato ad analizzare la situazione con l’attivista Alfonso De Vito

Commentando le proteste della scorsa notte a Napoli, tu hai posto l’accento sul contesto economico e su come le misure di contenimento della pandemia vadano a influire su quest’ultimo…

La situazione che si è creata a Napoli era annunciata, l’abbiamo scritto, detto. Da tempo a Napoli si avverte un clima molto pesante, di grande preoccupazione. Il tessuto sociale della città esce estenuato dalla scorsa primavera, quando la pandemia ha solo toccato la città e la regione. Ma da un punto di vista delle misure di contenimento, delle restrizioni e delle conseguenze socio-economiche l’impatto è stato equivalente, trattandosi di un tessuto più fragile rispetto a quello di altre parti d’Italia. C’era già stata una forte sofferenza in tal senso, in parte mitigata da una serie di contributi a pioggia, ma c’è stata anche tanta delusione rispetto a contributi promessi e mai arrivati.
Uno dei segmenti più immediatamente colpiti dai primi provvedimenti è quello legato all’economia turistica, al settore terziario, che ha subito un forte ridimensionamento. Parliamo di un segmento economico che noi spesso critichiamo, riconducibile a quel modello di sviluppo particolarmente instabile e diseguale, perché collegato alla rendita, che distribuisce le briciole. Ma è evidente che a questo settore, l’unico in cui si è visto un po’ del pochissimo “sviluppo” che c’è stato negli ultimi anni a Napoli, è appesa la sopravvivenza di un pezzo di città.

È stata infatti colpita tutta quell’economia legata al consumo ricreativo, ai locali, alla movida e il precariato, solo in parte scolarizzato, che viene da ceti sociali più deboli. È evidente che le misure di contenimento della pandemia hanno un impatto molto forte su queste realtà e producono una protesta che, al di là delle letture ideologiche, è chiaramente una protesta composita, spuria, trasversale. Dentro ci trovi il piccolo imprenditore, il gestore di locali, di attività che sono ormai ai limiti della chiusura, ci trovi una larga fascia di precariato non garantito, di lavoro nero, che di fronte alle chiusure non è coperto da alcun ammortizzatore sociale.

Già la scorsa primavera il primo effetto delle chiusure è stato il licenziamento e l’accantonamento di tutta la manodopera a nero, informale, precaria, perché molti dei gestori di locali hanno dovuto ridimensionare l’attività. D’altra parte trovi anche il commerciante che ha fatto i soldi in questo periodo, speculando su movida e turismo, che alla prima difficoltà licenzia i suoi dipendenti. Insomma “tutti insieme appassionatamente” e confusamente protestano a fronte di una sofferenza reale, di una rottura che questa situazione crea, e soprattutto a fronte dell’incubo di un lockdown annunciato senza alcun paracadute sociale.

In tanti hanno parlato di “negazionismo”. Quali sono le rivendicazioni della piazza?

La manifestazione di ieri sera non aveva una connotazione negazionista. Magari lo era qualche componente, qualche soggettività, ma laddove questo si manifestava era probabilmente dovuto al bisogno di aggrapparsi a una narrazione che giustificasse la possibilità per esercizi e attività di continuare a stare aperti. Gli striscioni che erano presenti sia al sit-in in Piazza San Giovanni Maggiore Pignatelli, dove c’erano circa due-tremila mila persone, sia tra il migliaio di persone che si è spostato verso la sede della Regione Campania, erano del seguente tenore: «Tu ci chiudi, tu ci paghi». Anche le interviste realizzate sotto la Regione dopo gli scontri offrono uno spaccato molto significativo della trasversalità della composizione sociale: dal barman alla signora delle pulizie, al commerciante costretto a chiudere, insomma una situazione variegata. Questo precariato dell’industria del consumo e del turismo è la punta dell’iceberg di decine di migliaia di persone, di precari, di famiglie, che in questa città vivono di lavoro informale, di lavoro nero, di lavoro non garantito.

Napoli non ha un’occupazione costruita sulla grande azienda. Attuare delle fortissime restrizioni, arrivando a un lockdown regionale istituito con pochissimo preavviso, in questo contesto, è ovvio che suscita un malessere fortissimo. C’era stata già una manifestazione la notte prima, sotto la Regione e altre analoghe in altre parti della provincia che hanno un forte indotto commerciale, quindi è difficile ipotizzare una grande teoria del complotto dietro queste proteste. Tanto più che parliamo di Vincenzo De Luca, l’uomo che intorno alle elezioni ha portato avanti un’enorme operazione democristiana tirando dentro un po’ di tutto, sia in termini di rappresentanza politica sia in termini di blocchi sociali. Ha davvero incorporato tutti, anche per via dei tanti appalti, perché la Campania ha rastrellato con la Covid-19 tutte le risorse disponili e ne ha fatto un uso che si può criticare, ma insomma la corsa sul sul carro del vincitore si spiega con l’attesa dei possibili fondi del Recovery Fund.

Insomma è difficile pensare che in questo scenario Vincenzo De Luca sia al centro di un attacco politico. Il suo stile è molto aggressivo, ai limiti dello sprezzante, e gli si è ritorto contro: in Piazza Pignatelli c’era una composizione di commercianti ma anche di giovani stufi di essere additati come untori. Ma insomma chi è che potrebbe aver orchestrato una protesta in questo contesto?

Di chi sono allora le responsabilità?

Molti ieri in piazza davanti alle telecamere hanno accusato di questa situazione sia il Governo che De Luca. Più che dire «il virus non esiste» molti dicevano «che cazzo avete fatto questa estate»: si sentono come coloro che hanno già pagato un prezzo, la primavera scorsa, quando tutto era più comprensibile perché si era di fronte a un fenomeno nuovo, una sciagura, ma adesso ritengono molto meno accettabile l’ipotesi di pagare un prezzo che non sono in grado di sostenere, anche perché una serie di interventi promessi ad aprile e a maggio non si sono mai concretizzati.

Molta gente i soldi non li ha mai visti. Napoli poi ha una memoria epidemiologica: la scorsa primavera anche i ragazzini sono scomparsi dalle strade. Ma oggi la gente è estenuata, la pandemia a Napoli impatta un contesto fragile, sia in termini economici che sanitari. Di più, si sapeva che ci sarebbe stata una seconda ondata, ma non hanno preparato il sistema sanitario, non hanno preso misure sociali e oggi sembra coglierci di sorpresa.

La situazione è grave. Il problema è che siamo contesi tra un disastro sanitario e un disastro socio-economico. Si mette in contrapposizione il diritto alla salute con le condizioni economiche di un pezzo di popolazione. Questa è la premessa di un disastro perfetto. De Luca stesso ammette che il contagio è fuori controllo, che non riescono a fare il contact tracing, la Campania ha fatto meno tamponi rispetto a Regioni con simili numeri di casi. Con un sistema sanitario a pezzi, io credo che in questo momento De Luca sia spaventato da un definitivo collasso del sistema sanitario e che la Campania sarà la prima regione a capitolare nella fase due della pandemia. In questo caso il consenso che ha raccolto evaporerebbe molto rapidamente.

In questo scenario, che ruolo gioca la Camorra?

La Camorra è sempre usata come la chiave per “spiegare” Napoli e le sue rivolte “spurie”, a volte è una sorta di esorcismo intellettuale. Sicuramente un meccanismo razzializzante che serve a rompere l’empatia dell’opinione pubblica. Per i media è un po’ quello che Bildelberg o la Tilateral sono per i complottisti: si parte da un elemento vero o anche solo verosimile e ci si costruisce intorno un teorema che a quel punto può anche fare a meno della realtà. Naturalmente è ragionevole che nelle proteste siano presenti anche imprenditori che investono in questa economia capitali provenienti dalla criminalità organizzata e sicuramente tra i lavoratori, peraltro nella fascia spesso meno garantita, ci sta un pezzo di sottoproletariato urbano che può aver avuto esperienza anche nell’economia extralegale. Ma sono i meccanismi del lavoro nero e non garantito che li portano a esplodere di fronte a una crisi senza sbocchi, non una “regia occulta” (per altro la camorra oggi è tutto meno che un fenomeno coeso).

Io abito in una parte popolare dei Quartieri Spagnoli e ci sono zero ammortizzatori sociali per queste tipologie di lavoratori. Tanto se lavorano per un imprenditoria dall’origine “opaca” che per quella in doppio petto. Questa situazione, senza intervento pubblico, può (re)spingere nell’economia illegale una fetta di popolazione. E questa è una parte del dramma, più che un indizio di “colpevolezza”! È la fotografia di una crisi e dentro ci sta la composizione reale di questa città in tutte le sue sfaccettature. Certo, qualcuno si aspetta che le rivolte siano fatte dai bolscevichi, probabilmente, ma io così l’ho vista, quando sono stato in piazza per capire quale fosse la sua composizione.

Quello che ho visto non mi ha sorpreso, lo diciamo da tempo: attuare un lockdown senza paracadute sociale significa maneggiare una bomba a orologeria. E non credo che questo valga solo per Napoli. A Napoli alcune contraddizioni hanno forse espressioni più estreme che altrove, ma non si può moralizzare la forma di espressione di queste contraddizioni. La “Camorra” allora non può essere un argomento per perimetrare la percezione sociale di un conflitto e un modo per permettere al governo, alle istituzioni, di non assumersene la responsabilità. Ci sono misure sempre più urgenti come una patrimoniale che garantisca un reddito di emergenza e permetta di armonizzare il diritto alla salute con le esigenze materiali della sopravvivenza. Non si può schiacciare la narrazione della protesta, quindi le responsabilità, su tesi complottistiche, di infiltrati, di ghettizzazione, per rompere qualsiasi possibile empatia. Perché il prezzo del collasso lo paghiamo noi tutti.

Abbiamo saputo oggi che Vincenzo De Luca ha fatto marcia indietro sul lockdown… Evidentemente la ribellione a volte paga. Soprattutto quando è estesa e rappresentativa. In realtà degli interventi sono assolutamente necessari ma è fondamentale siano garantite le fasce più deboli, come lo stesso Governatore sembra aver capito scaricando su Conte la responsabilità di stanziare le risorse necessarie. Se anche il Governo ne pigliasse finalmente atto, “l’esecrato” riot di ieri sera avrebbe giocato un ruolo di indiscutibile utilità sociale.

Questo articolo è stato pubblicato su DinamoPress il 25 ottobre 2020.

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