di JUDITH REVEL

intervento pronunciato ad ESC (Roma), il 27 gennaio 2024, durante la giornata per Toni Negri “L’eternità ci abbracci”.

Sei settimane fa, ho perso una persona che molte e molti di voi conoscevate, alla quale molte e molti di voi eravate legati, che mi amava e che amavo, e con la quale ho trascorso più di un quarto di secolo. Questa esperienza della perdita che mi è toccato fare è, dicono, universale: prima o poi capita a tutte e a tutti. A me è toccato il 16 dicembre alle ore 3.55.

È di quella esperienza, e dello strano intreccio di elementi estremamente privati e di una risonanza pubblica e politica evidente, che vorrei provare a dire qualcosa. Vado avanti per punti, ce ne saranno quattro.

1. La prima sorpresa è stata l’incredibile quantità di affetto ricevuta – e la vostra presenza, e il formidabile lavoro di organizzazione delle compagne e dei compagni di Esc e di Euronomade per la giornata di oggi, e più generalmente tutti i messaggi che mi sono arrivati, ne sono la testimonianza preziosa. Ma se testimonianza c’è stata, quella diceva anche qualcosa del modo in cui Toni ha, a modo suo, inciso sulla vita delle persone. Di tante persone. Si può pensare non senza qualche ragione che quel “peso” di Toni sulle vite sia stato a volte difficile da sopportare, e che vi sia corrisposto un lungo elenco di disgrazie personali e politiche – a cominciare da tanti anni di galera, per tante e per tanti. Questo è vero. Ma quello che mi è arrivato massicciamente attraverso i messaggi, le telefonate, le mail, diceva anche e soprattutto altro: Toni dava un senso pieno alla vita, perché ne faceva cosa comune. Questa è stata per me la sua potenza: la trasfigurazione di vite individuali in una passione comune.

Allora certo, c’è stato anche altro in queste ultime settimane, ed è, a modo suo, un insegnamento impressionante sui comportamenti umani. C’è stato chi faceva a gara per tirare fuori il più intimo dei ricordi – come se la concorrenza memoriale dovesse subito invadere il campo del dolore e stabilire gerarchie tra quelli più vicini, e quelli meno vicini; c’è stato chi ha inventato di sana pianta ricordi d’incontri mai avvenuti, ha sceneggiato dialoghi mai pronunciati, ha citato date, pranzi, serate mai esistiti, sovrapponendo alla realtà uno strato secondo, mimetico eppure totalmente fasullo. Pazienza: certo è stato sorprendente e sgradevole, ma tutto sommato umano.

E poi c’è stato chi, proprio perché la morte di Toni era anche un fatto politico – dopotutto veniva meno uno dei protagonisti della contestazione sociale e politica italiana degli ultimi sessant’anni, e con lui il simbolo di una, due, forse anche tre o quattro generazioni (vedendo oggi l’età di alcuni presenti) di compagne e compagni che avevano tentato di declinare la parola comunismo in modo diverso –, c’è stato chi dunque, ha provato a cancellare quella storia tornando cinquant’anni indietro e tirando fuori polemiche non solo sterili ma svuotate da ogni possibile contenuto. La storia non torna indietro. E se la vostra storia, che non è stata la nostra, vi sembra più gloriosa, io dico che la sconfitta vera, non quella degli anni di galera e della repressione ma quella dell’inconsistenza politica, dell’incapacità a cogliere il cambiamento, dell’incapacità a stare all’altezza dei tempi e delle trasformazioni, quella è stata la vostra. Cosa avete fatto nell’ultimo mezzo secolo? Siete forse andati al letto presto?

2. La seconda cosa che voglio provare a dire sembra molto personale, ma ha effetti, credo, immediatamente politici. Si pensa: qualcuno è morto e tutto il problema è di sapere come mantenere viva la sua memoria, di far rivivere le tracce, in qualche modo di tenere accesa la brace anche se il fuoco, quel fuoco, si è spento. E invece l’esperienza del lutto insegna ben altro, anzi, per così dire rovescia tutto.

La morte è ovviamente un punto di arresto definitivo per la persona che scompare, ma è anche, immediatamente, per chi rimane e vive, l’impossibilità di fermare anche se stessi. In questo sta probabilmente tutta la violenza della morte degli altri. Noi vivi siamo incatenati alla vita. In francese, enchaîner significa due cose: incatenare da una parte, e passare alla cosa successiva dall’altra. La catena, qui, è quella che ci lega al movimento stesso, ed è il fatto di essere letteralmente aspirati da quello che è ancora a-venire, in direzione di quell’a-venire.

A questo punto le domande si rovesciano.  Non, o non solo: cosa resterà di lui – cioè la domanda, se volete, della traccia, della memoria, della brace tenuta viva nonostante il fuoco spento; ma una sorta di stranissima (e straziante) riformulazione di quello che i filosofi sono soliti chiamare l’esperimento mentale della barca di Teseo. Ricordate forse ciò che racconta Plutarco ne Le vite parallele: “Gli ateniesi avevano conservato la nave per circa mille anni continuando a sostituire al legno che man mano marciva del legno nuovo e sano. Perciò, in seguito, i filosofi usavano riferirsi sempre a questo mezzo nei loro dibattiti sull’accrescimento delle cose, così che alcuni
ritenevano che fosse e restasse la stessa nave, altri, al contrario, che fosse ormai una nave completamente diversa”.

Ora, questa esperienza è immediatamente quella della persona che sopravvive e lascia dietro di sé l’altro, che è morto: dopo quante docce la mia pelle insaponata non sarà più la stessa di quella che lui conosceva? Dopo quanti passaggi sotto le forbici del parrucchiere i miei capelli saranno stati sostituiti da altri, che lui non avrà mai accarezzato? In breve: cosa resterà di ciò che siamo stati per coloro che abbiamo perso? Quanto tempo ancora prima che ciò che siamo stati per loro si dissolva definitivamente? Al centro di questa inversione della questione della scomparsa, che sembra spostarsi dal morto al sopravvissuto o alla sopravvissuta, quel sopravvissuto o quella sopravvissuta che letteralmente scompare man mano che il tempo va avanti e li fa diventare qualcos’altro – c’è una costatazione: sopravvivere e svanire sono una identica cosa nell’esatta misura in cui si afferma e si dice: io vivo.  Sopravvivere significa accettare di dissolvere ciò che si è stati per l’altro che non c’è più. Questa è la cosa più difficile.

3. Due settimane fa, mi è capitato di dover rileggere Spettri di Marx e in misura minore Mal d’archivio, di Derrida, per una conferenza. In entrambi i testi, pubblicati a due anni di distanza, Derrida chiede: cos’è uno spettro? Lo spettro è quella strana realtà che ha affascinato le correnti spiritiche dell’Ottocento (anime senza corpi), o che ha alimentato nella versione odierna tanti film horror (corpi senz’anima); in alcuni casi è l’incarnazione di un passato represso che non cessa di tornare a perseguitarci sotto forma di un’ingiunzione (come lo spettro di Jakob Freud nella vita e nel pensiero del proprio figlio Sigmund) ; ma è anche e soprattutto ciò che sul modo presente riqualifica il passato nella sua forma spettrale, in quello che fa ritorno come spettro, all’altezza di ciò che effettivamente è,  all’altezza di quello che chiamiamo oggi. Derrida scrive di questo ritorno fantomatico che è “ciò che si potrebbe chiamare un “trionfo della vita”. La sopravvivenza non significa più la morte e poi il ritorno dello spettro, ma il sopravvivere di un eccesso di vita, che resiste all’annientamento”.

Ora quello che, nell’eccesso di vita di cui parla Derrida, è apertura, quello che non solo si dà nel presente ma in qualche modo fa segno verso il futuro, assomiglia ad un altro significato di spettro. Si dice di una goccia d’acqua che contiene tutti i colori dello spettro, che dispiega davanti ai nostri occhi l’intera gamma dei colori disponibili. L’eccesso di vita è questo: l’apertura a ventaglio di possibili. La questione, a questo punto, non sarà tanto di sapere in virtù di cosa scegliere tra i vari percorsi proposti, o tra le varie combinazioni offerte, quanto di far valere nelle maglie dello stato presente delle cose, esse stesse collocate in cima all’insieme delle stratificazioni che le costituiscono e che chiamiamo storia, ciò che Derrida descrive sotto diverse vesti: a volte come potenza di indeterminazione, a volte come scardinamento (il termine francese è dégondage, i gonds sono i cardini di una porta), a volte come disarticolazione. E Derrida continua: “La condizione perché l’avvenire rimanga a-venire è non solo che non sia conosciuto, ma che non sia conoscibile come tale. La sua determinazione non deve più rimandare all’ordine del sapere o a un orizzonte di pre-sapere, ma ad una venuta o a un evento che lasciamo venire o facciamo venire (…)  in un’esperienza eterogenea ad ogni costatazione, ad ogni orizzonte di aspettativa in quanto tale: vale a dire, a qualsiasi teorema stabilizzato”.

Credo ci siano due punti da trarre da tutto questo, e che riguardano entrambi il nostro rapporto a Toni, alla sua morte, e a noi stessi oggi.

Il primo è che la questione di ciò che deve necessariamente venire non deriva da nessuna parola spettrale. Al netto di ogni tradizione italiota, le sedute spiritiche, lasciamole agli altri. I fantasmi non rispondono alle domande dei vivi. Ma i fantasmi, se non rispondono, fanno altro. Parlano. Non dobbiamo chiedere allo spettro di dirci cosa ne sarà di noi, o del mondo. Dobbiamo semplicemente imparare ad ascoltare quando parlano di ciò che, a nostra insaputa, si dà come apertura. Il secondo punto è che questa apertura non necessariamente si riferisce al passato, perché ha invece a che vedere con una sorta di eccedenza, e ovviamente tocca a noi caratterizzare questa eccedenza.

4. Un’ultima cosa, sono stata fin troppo lunga. Cosa significa esattamente l’eredità di un pensiero, di una vita, di un tentativo politico e filosofico – quello di sperimentare il comune? Cosa significa eredità? Ancora una volta, mi ha aiutato Spettri di Marx. Derrida vi scrive: “Quando, nel 1847-1848, Marx nominò lo spettro del comunismo, lo collocò in una prospettiva storica che era esattamente l’opposto di quella che avevo inizialmente in mente quando ho proposto un titolo come “Gli spettri di Marx”. Laddove ero tentato di nominare la persistenza di un presente passato, il ritorno di un morto, una riapparizione fantomatica di cui un lavoro di lutto mondiale non era riuscito a liberarsi, (…) Marx, lui, annuncia e chiama la presenza che verrà”.

Derrida ci dice quindi: all’inizio ho sbagliato. Perché è Marx che ha ragione: pensa allo spettro come ad un vettore dell’a-venire. Ma per far sì che questo sia possibile, il ritorno spettrale di Marx non può essere il nome di un dato, deve necessariamente trasformarsi in un compito. Immobilizzare il nome di Marx, de-storicizzare il suo pensiero con il pretesto facile di una presunta (e fasulla) fedeltà, o con quello di una necessaria riunificazione politica, o dell’esigenza di un consenso (“la linea del Partito”, compagni!), quello significa invece incatenare Marx al suo tempo – e questo tempo non è più il nostro. Pensiero del Partito, pensiero della forma-Stato, pensiero di una certa realtà del lavoro e dei lavoratori, pensiero della classe, pensiero di una certa teoria del valore: quello che viene consentito da questo tipo di operazione di feticizzazione del mondo ottocentesco o primo-novecentesco, quando non è apertamente la negazione della storia, è semplicemente la nostalgia. E si sa quanto, e con quale facilità, la nostalgia possa diventare risentimento.  

Insomma, se l’eredità non è un dato ma un compito, facciamo in modo che ogni volta che diciamo “da Marx in poi”, l’espressione continui a indicare la forza che ci spinge avanti.  Scrive Derrida: “Se “da Marx in poi” nomina un a-venire tanto quanto un passato, il passato di un nome proprio, è perché il proprio di un nome proprio resterà sempre a venire”.

Torniamo a Toni. Mi sembra che colui che scrisse quarantaquattro anni fa quel quaderno sui Grundrisse che aveva precisamente scelto di intitolare Marx oltre Marx, abbia anche lui quel tipo di eredità. Se il suo nome, Toni, nomina un passato – il suo, il nostro: ovviamente anche un passato -, stiamo attenti: il passato di quel nome proprio non può, e non deve, cancellare il proprio di quel nome proprio, che resta sempre a venire.

E di questo, noi – ciascuna e ciascuno di noi – siamo oggi responsabili. L’eredità non è un dato, l’eredità è un compito.

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