di FANT BASSOTTO.
Per il punk è stato facile, già nel ’77 era conclamata la sottomissione della canzoncina tirata da due minuti alla legge del valore: fu un gioco parlare di “grande truffa”. Per il diritto non sono bastati 4000 anni.
È vero che il primo aveva come unici sacerdoti Syd & Nancy, mentre il secondo ha un “clan di menestrelli” che parte da Hammurabi e arriva a Marcelli, passando per la prolusione bolognese del 1903 [→ qui]; ma la ragione del successo della coazione meritata (diritto penale) e dell’esclusione lecita (diritto civile) risiede probabilmente altrove.
A favore del punk un (brutto) film del povero Malcom, a favore della norma (più o meno fondamentale) è tutto un tripudio live: Dio che detta articoli dal cielo nella woodstock sinaica, Domat che organizza i codici come La Femme a Rock sur Seine [→ qui], la pandettistica che esplode in Soon over Babaluma [→ qui] per arrivare all’orrida Coachella dei diritti che amiamo chiamare Costituzione.
Il diritto vince, in fondo, perché qualche scemo ha ritenuto che le mazzate fondate su norme certe siano più lievi (giuste?) di quelle erogate nell’abuso del sovrano, come se quelle norme non fossero frutto dello stesso abuso, tipo che il minotauro se si cotonava i capelli era più bravo. Il Dracone collettivo non scrive col sangue ma con il pomodoro (come nei film western con Franco e Ciccio).
In effetti, non possiamo parlare per il diritto di great swindle, troppo grave la prigione, orrenda l’espulsione per ridurre tutto all’agire di un commercialista bresciano.
Secondo Chiovenda, intriso di germanesimo come un fascista qualunque,
esteriormente il processo civile ci appare come una serie di atti delle parti o degli organi processuali o di terze persone che si compiono in un dato ordine o modi, procedimento in senso stretto, forme processuali. Più intimamente considerato, esso si presenta come un rapporto giuridico quantomeno come manifestazione speciale del rapporto corrente tra il giudice e lo stato […] infine, riguardato ancora più addentro il processo civile è il mezzo con un applicando la legge si assorda la tutela giuridica a una delle due parti.
Tutte palle: e aveva ragione quel giudice savonese che mi ripeteva che l’Italia sarebbe stata diversa se il sommo “fosse nato pochi metri più in là”. E a me, giovane praticante che, ruffiano, chiedeva: Perché? Rispondeva: “così era in Svizzera…”
Già Carnelutti aveva intitolato la commemorazione a Vittorio Scialoja “Arte del diritto”. Da qualche anno è tutto un fiorire di scritti sul processo, come gioco (di carte, dove la vita l’unica posta in palio), come scommessa ovvero come tragedia (e si scomoda il più delle volte Jago, e mai Jacula, purtroppo), come film di fantascienza (recentemente ho letto una cosa bellissima, dove la buffa sorte del consumerismo era narrata attraverso il modificarsi dello schema capitalistico nella descrizione delle città utopiche).
Il codice come sceneggiatura? (ora come sceneggiata).
Satta parlava di mistero del processo. Davvero misteriosa è l’origine dell’amore del condannato per la giuria torva e bavosa, il rifugiarsi del povero nei cavilli, cercando un buchetto nel cavo dell’albero delle norme, tipo Cip & Ciop per sfuggire al Paperino togato.
Satta, nello stupore del poeta (più che del giurista) riferisce che nel corso di un processo ai tempi del terrore (periodo tra i più vilipesi proprio per la pretesa mancanza di leggi, mentre, osserva sempre Satta, sono le dittature termidoriane – e quindi, come di seguito, antirivoluzionarie – le maggiori produttrici di norme) una moltitudine urlante cercò di impadronirsi di un nobile in catene condotto a processo: «con urla immani [da animali, come sono i poveri, ndr] balzano su per le scale, attraversano stanze e vestiboli, venerabili per antichi ricordi [che la cucina di mia nonna a Barabino, in quanto disadorna mica realizzò ricordi venerabili, magari incubi come quanto arrivo la spagnola e i vicini morirono a sciami], e appaiono sulla soglia, i cenci [che la prossima volta che assalto la Bastiglia, passo da Carvin in Rue de Grenelle] e le armi grondanti di sangue [non avevano ancora inventato gli estintori o i placanica]. Lo spavento è tale che gli svizzeri si gettano a terra, strisciando sotto le panche per sfuggire alla caccia [sei stato tu, con il tuo cencio!]. L’accusato Bachmann, solo, perché sicuro di morire, che sia per fatto dei giudici o per fatto di quegli assassini, discende dalla poltrona ove da trentasei ore è seduto, e si presenta alla sbarra come per dire uccidetemi. Avvenne un fatto mirabile. Il presidente Lavau ferma d’un gesto gli invasori: con poche energiche parole intima “di rispettare la legge e l’accusato che è sotto la sua spada”. Si vedono allora i massacratori [che, minchia, ancora non hanno fatto nulla e nulla misteriosamente appunto faranno], in silenzio, ripiegare docilmente verso la porta. “Essi hanno compreso”, commenta Lenotre, dal quale raccogliamo l’episodio “che l’opera che compiono là in basso, le maniche rivoltate e la picca tra le mani, questi borghesi in mantello nero e cappello a piuma la perfezionano sui loro seggi”».
Osserva S. che, paradossalmente (ma solo paradossalmente) «tanto la moltitudine che i giudici sono assassini perché sono le stesse persone, distinte solo da un mantello nero e un cappello piumato; e se dicono “l’accusato è sotto la spada della giustizia” essi vogliono dire soltanto, e sono subito intesi “lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo”». Poi si chiede: «Cosa è il processo? […] Questa gente vuole uccidere attraverso un processo, VUOLE il processo […] il processo è un atto essenzialmente e per definizione antirivoluzionario, è un momento eterno dello spirito».
Il processo, atto antirivoluzionario per eccellenza, diventa nella prassi Minnitian-Salviniana, atto di ristabilimento del decoro, momento eterno della negazione del senso dell’essere umano, dove il processo (nel senso di percorso) cede all’immediatezza della sanzione anticipata.
Un tempo: da un lato i nerovestiti/cappellopiumati, dall’altro una moltitudine sciamannata vestita di cenci, sguaiata, massacratori consacrati pur in assenza di qualunque massacro. Come diceva De Sica per Totò “la divisa ha fatto il miracolo”, e il miracolo si dà nel vestito che rende l’omicidio degno, giusto. Si badi: i massacratori, restano tali anche senza aver torto un capello al reo.
Ora: le due schiere di assassini – fuse per incorporazione – sono davvero la stessa persona. Le vesti non colgono più alcun elemento differenziante; l’elegante divisa del ministro che accoglie Battisti è quella che addobba tanto gli ammanettatori, che i superprocuratori anti ‘ndrangheta, che il cittadino modello che si duole dell’insicurezza percepita. Alla faccia di Bulgaro, il processo perde le parti e con esse il mistero, l’esigenza di giustizia lascia spazio al desiderio di decoro. La mannaia posta, d’ufficio, in dotazione a una folla ora ordinata, perpetua il diritto scarnificato e reso sputo.
Il Giudice Collettivo che nasce dall’idea che “sicurezza è di sinistra” ha condannato di recente Battisti, a nessuno importando le condanne comminate secondo la “giustizia italiana”: queste servono, al più, a supporto del nuovo ordine giudiziario, ancora alle prime armi e quindi in cerca di conferme.
Conta che aveva l’alito che sapeva di birra e pochi spiccioli in tasca.
Conta che non si è mai pentito.
Anche le vittime (se mai vi furono, ma questo argomento riguarda, e forse, il vecchio processo, quello misterioso) perdono di consistenza, svaniscono; sono solo ulteriore mazza da brandire, utile presupposto: conta l’alito.
Conta la birra… i pochi spiccioli sono la scriminante tra il terrorista rosso e il gentiluomo cubano di Miami che fa saltare gli ospedali a Santiago.
Un precedente, invero risalente, lo abbiamo.
Lui si chiama Abimael Guzman e la sua cattura (dovuta al fatto che nel suo monolocale rifugio si produceva piu molta spazzatura di quanto ne possa produrre un solo residente) fu seguita dalla sua vestizione a mo’ di nonno Bassotto.
Era il ’92, ma si respirava ancora un fumo dolciastro eighties cosicchè il capitale poteva conservare la sua faccia bonaria da cartone animato come con i nazisti di Indiana Jones, ed era sufficiente il ridicolo che voleva gettarsi su tanto granitico erede della lunga marcia.
Il gruppo di Guzman, un po’ come i gruppi west coast, si prendeva piuttosto sul serio: quella divisa da Sing Sing doveva sortire un effetto devastante su quei giovani educati a El Pueblo Unido.
Ora tutto è cambiato.
Occorre sterminare il nemico, ponendolo orrido, contrastante con l’ordine nuovo tutto Nardella e fioriere. Erigere un ordinamento giuridico sulle costituzioni di Valentiniano non è uno scherzo (tanto che non bastarono Giustiniano e Savigny a salvare l’eredità giacente), atteggiarsi a dottori citando il BGB anche, figurarsi immutare la sacralità del giudizio nella visione della vita ridotta a città per turisti.
Il giudizio potrebbe essere definito come concretarsi della norma nel fatto, la norma vive nel fatto e il fatto trova collocazione nell’ordinamento cristallizzandosi nella sentenza.
Cosa accade se la norma non trova riscontro nella vita, se la vita repelle il fatto previsto dalla norma?
Oggi è stato approvato il regolamento del comune di Roma secondo cui “è vietato soffermarsi nei pressi dei luoghi destinati al conferimento di rifiuti senza giustificato motivo”.
Come può qui formarsi il giudizio se non attraverso la elevazione a norma di un “dispetto” ai poveri? E come può la sentenza cristallizzare il fatto illecito, se non nella determinazione del legislatore di dismettere i panni di regolatore per assumere quelli di vicino di casa testa di cazzo?
Che poi a ben vedere uno potrebbe avvicinarsi al cassonetto perché sofferente di labirintite, spinto da un amico burlone; quando la scivolata sulla buccia di banana (che fa tanto Mack Sennet) assurge a giustificato motivo. Peggio, l’unico vero giustificato motivo sarebbe, peraltro, il bisogno, ma è proprio il bisogno che la norma vuole colpire: nella testa di Raggi, il giustificato motivo è l’assenza di motivo (per la gioia dei magistrati del lavoro alla ricerca di sempre nuovi alibi al Jobs act).
Ma torniamo al terrorista.
Puzzava di birra.
Ecco la colpa.
Ma è una colpa che “fa rete”, unisce, anziché dividere. Come la norma posta dalla praticante di Previti, che individua i colpevoli assemblandoli nel bisogno.
Di cosa pensate puzzasse il fiato dei camalli, prima (o dopo) il lavoro, al bar della chiamata dopo sei bianchi con l’amaro?
Colpire la diversità non è novità nelle espressioni del comando capitalistico, stavolta, però, l’immagine rilucente della legislazione decorativa è appassita, spuria; serva del nulla e tesa al nulla.
Non più residenze imperiali o chiese da tutelare ma il lucido pelo del cane da guardia del padrone verga le XII tavole della nuova Roma.
Probabilmente il prossimo atto legislativo sarà costringere il precariato a mangiare saponette per scoreggiare profumato.
Ecco il nuovo ordine: è sempre merda ma non si deve capire.
Ma perché questa guerra alla forma-merda?
La merda (senza scomodare il letame di De Andrè) fa rete, unisce le genti nella ricerca del cesso più vicino, rende creativi facendo realizzare nelle stazioni salaci graffiti (eccone uno: “qui tra merda e stracci, giaccion Mussolini e la Petacci”), consente dialoghi effervescenti in odio alla stitichezza.
Il diritto come varichina, il giudice come donna delle pulizie (inizia presto finisce presto e di solito non pulisce il water, intimava una pubblicità), la sentenza come sciacquone.
Se Dylan diceva che non c’è bisogno del meteorologo per capire da che parte tira il vento, non c’è neppure bisogno dell’igienista per essere rivoluzionari. Perché tanto bisogno di norme anche minute, anche volte a regolare attività del tutto irrilevanti (si sarebbe detto un tempo)?
Forse perché la vita potrebbe andare avanti anche da sola, senza stampella (armatura la definisce Carnelutti, che vede nel dispiegarsi della vita un arco) e vivendo realizzare forme di convivenza e di comprensione collettiva che aprono al comune. Spezzare ogni possibilità di condivisione per consentire l’apprensione della produttività umana è l’attuale scopo del diritto, che per questo è pura coglioneria.
Dice Carnelutti:
quando l’armatura può cadere senza che crolli l’arco? ciò che tiene il luogo del diritto è l’amore. Una verità, dopo tutto, che come il sole illumina le cose ma abbaglia i nostri occhi. Però i giuristi guardano le cose e non il sole; se lo guardassero saprebbero come l’originale di quel surrogato si deve chiamare. Fino a tanto che gli uomini non sappiano amare, avranno bisogno del giudice e del gendarme per tenersi uniti; in altre parole fino a che gli uomini non sappiano amare non c’è altro mezzo che obbligarli […] occorre assoggettare l’uomo che non riesce a fare il bene, e il vero bene non può essere il bene di lui soltanto, ma di tutti gli altri.
Evidentemente quel momento è il comunismo, l’estinzione dello stato e quindi del diritto.
Ed è per questo che la nuova legislazione per selfie o per pubblicazione su facebook è reale, congrua e modernamente repressiva: perché è l’unica in grado di aggredire le nuove forme di vita che la precarietà pulsando realizza, senza ucciderle ma deprivandole di ossigeno; sostituendo la normale produttività della vita in comune con la pulita solitudine, onde succhiare quanto secerne il soggetto nel mentre che soffoca, stritolato da un condominio candido della bassa vigevanese.