di FRANCESCO FESTA.
«…che il Sud possa ribellarsi e innalzare una bandiera dietro la quale si muovano altre forze è un’opzione che va dimostrata» (Toni Negri1).
1. A cosa ci riferiamo quando parliamo di subalternità? E quale campo semantico o geografico interroghiamo nel nominare la nozione “Sud”?
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese.
Alcune premesse indispensabili per definire i campi che ci accingiamo a scavare. Anzitutto: chiamare in causa la cultura vuol dire segnalare dei «processi eternamente in atto», dei processi conoscitivi e pedagogici che sono anche e soprattutto pratica politica in un rapporto di lotte e di resistenze fra la parte subalterna e la parte egemonica della società. E poi: la cultura come sostantivo rinvia immediatamente alla sua forma aggettivale, culturale, allo spazio discorsivo da cui prende origine e dall’attenzione posta sulle concezioni e sull’azione di coloro che sono emarginati o dominati; mentre il sostantivo cultura privilegia il dato acquisito, l’idea di condivisione, accordo e compiutezza, che contrasta con quelli che sono i rapporti sociali e la microfisica dei poteri fra le classi. E infine: l’identità culturale, come insieme di «rappresentazioni e simboli» nella loro «vita quotidiana», non è qualcosa di già costituito, di già esistente, ma è «il risultato di storie – scrive Stuart Hall – soggette a una costante trasformazione. Lungi dall’essere eternamente fissata in un qualche passato essenzializzato, è sottoposta al “gioco” continuo della storia, della cultura e del potere»2.
Subalternità, cultura e identità sono spazi discorsivi in cui si esercita un certo tipo di potere e al cui sfondo si situa una nozione che solleva una molteplicità di “questioni”, ancorché sia una nozione dal carattere tanto geografico quanto giuridico-politico: i “Sud”. Sgombriamo il campo da fraintendimenti. Nel momento in cui si parla di “Sud”, che sia il Mezzogiorno d’Italia o il Sud d’Europa oppure genericamente i sud del Mondo, non si può trascurarne né la temporalità, né la spazialità. La posizione geografica non fa l’unità delle regioni meridionali; né tantomeno la condizione di assoggettamento determina un’identità culturale; e d’altro canto, le lotte asimmetriche nei paesi del Sud o nelle periferie non sono di fatto elementi che assommati aritmeticamente possano diventare denominatore comune di un’insubordinazione con orizzonte meridiano. Immaginare connessioni, tracciare linee, ideare piattaforme politiche fra ipotetici territori in lotta è un esercizio tanto affascinante quanto confusionario. In una sorta di geografia immaginaria, si perde di vista la temporalità, la casualità storica, la possibilità che le azioni umane siano determinate da cause accertabili, senza le quali, scriveva lo storico Edward Carr, la vita d’ogni giorno sarebbe impossibile. In questo limbo, inoltre, si perdono di vista quelli che Foucault chiama gli «amministratori della politica del sapere, dei rapporti di potere che passano attraverso il sapere e che naturalmente rinviano alle forme di dominio cui fanno riferimento le nozioni spaziali come campo, posizione, regione, territorio»3. Per quanto riguarda il Sud d’Italia, diciamo subito che le cose non stanno e non possono stare così. Non pochi scrittori e attivisti si sono cimentati in una “revisione” della storia del Mezzogiorno che, seppur generosa e ricca di apodittiche affermazioni e toni indignati quanto povera di ricerche atte a comprovare la funzione anti-risorgimentale, interroga immediatamente l’“identità italiana” dell’oggi, portandola dritto dritto al 1861, quasi che l’intera storia derivi da lì, così da riabilitare come “glorioso” il periodo borbonico interrotto dall’“invasione” e dall’occupazione piemontesi. «Non si perdona a una nazione – scriveva Marx nel Diciotto brumaio – come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Il problema non viene risolto con questi giri di parole, ma viene soltanto diversamente formulato»4. In questo modo si perdono di vista la storia della lotta di classe in Europa nell’Ottocento; le analisi di Gramsci sul Risorgimento quale «rivoluzione sociale mancata» in profonda trasformazione della realtà italiana. E si perde di vista anche Vincenzo Cuoco e il suo Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, scritto nel 1800, che definì «passiva» la rivoluzione di Napoli del 1799, portata lì dalle truppe napoleoniche, e «passiva» la partecipazione delle classi subalterne e la marginalità delle loro istanze. Una passività che si è poi protratta sotto la Restaurazione borbonica, fin nelle dinamiche dell’Unità, ove le classi dirigenti meridionali vi parteciparono per garantirsi interessi e vitalizi sotto i nuovi regnanti; mentre le classi subalterne in parte vi aderirono e in parte permasero in quel «mondo chiuso», scoperto molti anni dopo da Carlo Levi. In realtà, il problema era – e resta – sociale, e allorché alcuni gruppi di subalterni ebbero la forza di organizzarsi, non per restaurare il Borbone, ma per distruggere il latifondo, furono duramente repressi nella “guerra al brigantaggio”.
Dunque, trascurare la «politica del sapere», l’amministrazione e il potere esercitati su un certo territorio lascia in un’astrattezza giuridico-politica. Non cogliendo le difformità del comando nell’«economia-mondo», le differenze fra imperialismi nello spazio imperiale, si genera solamente confusione con associazioni d’idee seppur affascinanti. Alcuni esempi, per intenderci. È veramente difficoltoso cogliere il nesso, e di conseguenza i fattori attraverso cui creare un’alleanza fra classi subalterne, che tenga insieme l’azione dell’Unione europea nei confronti delle regioni del Sud d’Europa con le politiche militari del governo di Erdoğan e delle milizie del califfato islamico contro le comunità della Rojava, insieme all’azione dei governi messicani contro le comunità indigene chapaneche. In questa seducente ricostruzione, i territori in lotta produrrebbero soggettività subalterne con una coscienza tale da riconoscersi e coalizzarsi? Il medesimo dubbio sul metodo associativo vale per le “primavera arabe” del 2010 e 2011, sull’“effetto sponda” che sembrava profondere da esse infiammando il Mediterraneo – e noi tutti ne auspicavamo l’incendio – e che poi è rientrato negli argini austeri della crisi, anche se in quell’occasione gli effetti della stessa crisi, una certa composizione del lavoro vivo e i dispositivi di comando hanno agito da fattori accomunanti e diffusivi, oltre che da pratiche di soggettivazione, nei paesi del Maghreb e Mashreq. Lo stesso dubbio nutriamo rispetto alla retorica dei Pigs e alla capacità che intorno a essa si riesca a fare fronte comune contro la violenza delle politiche della Troika e della Bundesbank. In questi anni non è bastato denunciarne l’apologia ordoliberista, non è bastato sostenere come dietro di questa vi fosse un ordine retto su scorciatoie orientalistiche: debito pubblico alle stelle, mancato rispetto dei parametri fiscali, scarsa produttività, blocco della crescita, sperpero e cattiva gestione, quali effetti dell’indolenza mediterranea, del vivere al di sopra delle proprie possibilità, della corruzione, dell’anomia e dell’assenza di quell’etica del rigore e degli affari, della morigeratezza e del lavoro che già Max Weber poneva alla base del capitalismo.
Nondimeno lascia molti dubbi l’idea di una sommatoria dei conflitti o della scintilla che incendi la prateria, a partire dai paesi meridionali. È un metodo che in realtà risente degli echi del Novecento, se non addirittura dell’età delle «rivoluzioni borghesi». In compenso, l’Internazionalismo proletario ci consegna l’immaginazione e la cooperazione delle lotte quali vettori per la nascita di organizzazioni in difesa degli interessi proletari e come deterrenti contro la guerre tra “nazioni borghesi”. Che non traeva forza dalla posizione geografica, bensì dagli interessi e dalla «potenzialità» della forza lavoro. Come ha fatto giustamente notare Brett Neilson, laddove in Lenin in Inghilterra si dice che «la forza-lavoro operaia nasce già storicamente omogenea sul piano internazionale e costringe il capitale – entro un lungo periodo storico – a rendersi altrettanto omogeneo», vuol dire che «la forza lavoro diventa il sito in cui le operazioni del capitale e la politica delle differenze culturali e geografiche si toccano e deflagrano»5.
Il rischio della spazialità come metodo, quindi, è sia di confondere i processi di accumulazione, sia di cadere in un determinismo geografico o in un orientalismo di ritorno, dal quale grazie a Edward Said siamo stati ampiamente affrancati. E oltretutto, non favorisce la costruzione di un nuovo internazionalismo proletario.
Forse andrebbe preso ad esempio quanto fatto dagli studiosi e attivisti indiani che a inizio anni Ottanta del secolo scorso diedero vita ai Subaltern Studies. A ben guardare lessero le osservazioni di Gramsci sui subalterni in maniera situata relativamente alla storia d’Italia, in particolare alla storia del processo unitario. Ciò nondimeno scrissero di voler fare per l’India quello che Gramsci aveva fatto studiando i rapporti tra «dirigenti» e «diretti» nel Risorgimento, cioè tentarono di tradurre il Quaderno 25 in India. Non forzarono il dato geografico, invece analizzarono la composizione di classe. Per cui Nehru divenne una sorta di Cavour, mentre il ruolo di Mazzini venne ricoperto da Gandhi. Il gruppo di storici indiani guidato da Ranajit Guha trasse spunto da Gramsci soprattutto per affermare la necessità di una storiografia non limitata all’azione delle élite o delle classi dirigenti, che tenesse conto anche e in alcuni casi soprattutto della storia dei gruppi sociali subalterni. In particolare, i Subaltern Studies ci consegnano una problematica che è quella del rapporto fra il «materialismo geografico» di Gramsci e il tema della traduzione e della traducibilità, che permette di uscire dal vicolo cieco dell’unificazione dei “Sud” a partire dall’essere geograficamente situati, mentre dischiudono la strada verso quelle che sono i punti di accumulazione più interessanti del capitalismo. Come ha puntualizzato Sandro Mezzadra in un seminario della rete Orizzonti meridiani: «se Marx, negli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento, si situava non solo fisicamente ma anche “epistemologicamente” a Londra per comprendere e criticare il capitalismo, oggi forse si capisce meglio il capitalismo contemporaneo guardandolo dall’India, dall’America Latina o dalla Nigeria […] non perché corrispondano ai punti più “avanzati” dello sviluppo, ma perché sono saltati esattamente i parametri che consentivano a valutare il capitalismo sulla base del maggiore o minore “grado di sviluppo”»6. Centro/periferia, Sud/Nord sono coordinate certo da tener presenti, ma non sufficienti a definire una soggettività e una cultura subalterne.
Proprio Mezzadra nel suo lavoro con Brett Neilson, nel riprendere Gramsci e Lenin, aggiorna il tema della traduzione, non delle lingue, ma delle esperienze e delle lotte, quale metodo indispensabile per «ricostruire la basi materiali di una nuova politica comunista». Che significa tradurre non le lingue ma le esperienze? Significa con Gramsci che parafrasa Lenin il «non aver saputo “tradurre” nelle lingue europee» la lingua russa. Un’allusione linguistica che rinvia a un’analisi profondamente materialistica. Ancor più chiaramente: «fra le pratiche di traduzione che inseriscono i soggetti all’interno di distinte civiltà e quelle proprie del capitale esiste un parallelismo materiale. In gioco è il modo in cui la traduzione istituisce e trasforma i rapporti sociali. A questo proposito, è importante ricordare che lo stesso capitale è un rapporto sociale. I termini attraverso cui è istituito e i modi in cui può essere spiazzato o alterato sono profondamente implicati nella politica della traduzione»7.
La politica della traduzione è dunque un metodo fondamentale che consente di condividere pratiche e di intrecciare percorsi, quali basi per un nuovo internazionalismo, poiché segnala i soggetti inseriti in determinati punti di accumulazione. E chiama in causa, anzitutto nei territori subalterni e negli angoli “arretrati”, la grande varietà di mezzi di appropriazione dei commons messi in campo dal capitale, i molteplici strumenti adoperati per confinare il comune attraverso – e in particolar modo – l’uso dello «sviluppo come governo del Sud»8. Ci confrontiamo qui con questioni tecniche come l’appropriazione di idrocarburi, le forme di enclosures dei decreti emergenziali (“Sblocca Italia”); ma anche con questioni biopolitiche come l’inclusione differenziale dei migranti nella Fortezza Europa; oppure come le politiche dei fondi strutturali comunitari; e quindi le politiche del lavoro nell’UE (“Jobs Act”). Cogliere tramite la politica della traduzione i soggetti dell’antagonismo per «impostare un ragionamento sui “Sud”, sul cambiamento profondo che investe questa nozione»9, e soprattutto sul riproporsi della “questione meridionale” non più soltanto in Italia, bensì nello spazio europeo.
2. Traduciamo la “questione meridionale” in questione europea. Osservando i dati dei Fondi europei per la coesione degli ultimi quindici anni notiamo come il divario fra le regioni del Nord e quelle del Sud d’Europa, anziché diminuire, sia cresciuto, contribuendo ad accelerare e radicalizzare un processo di vera e propria scomposizione dello spazio europeo10. Nei Fondi, rinnovati per il settennato apertosi nel 2014, non appaiono chiaramente gli obiettivi. Viene sottolineato a più riprese il «riscatto della qualità dell’azione pubblica nel Mezzogiorno» tramite l’utilizzo delle «Politiche di coesione», con riferimento a generiche «best practice», a «comportamenti» e «condotte». Sullo sfondo, lo scopo sarebbe la formazione di una classe dirigente e di un complesso di attività direzionali di gestione e organizzazione delle aziende pubbliche (management) che rispondano alla nuova ragione universale, quella presupposta dalla razionalità neoliberale come entità astratta permanente, ossia la «generalizzazione della concorrenza come norma di comportamento e dell’impresa come modello di soggettivizzazione»11.
Nel dicembre 2012, nel documento Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi strutturali, l’allora Ministro per la coesione territoriale Fabrizio Barca scriveva: «l’azione per la coesione deve destabilizzare queste trappole del non-sviluppo, evitando di fare affluire i fondi nelle mani di chi è responsabile dell’arretratezza e della conservazione. Aprendo invece agli innovatori nei beni pubblici e nel modo in cui si producono»12. Al netto di comportamenti e “buone pratiche”, nessun obiettivo è indicato, né tantomeno individuato qualche indice da raggiungere. Mentre vengono additate le «morse» del sottosviluppo quali l’«incapacità degli amministratori a non favorire lo sviluppo». Eppure dopo quindici anni di politiche comunitarie qualcosa si sarebbe dovuto pur ridurre nel divario Nord/Sud!
A ben guardare, leggendo in maniera contrappuntistica i termini crescita, sviluppo, ripresa, probabilmente ne noteremmo la funzione di variabili dell’accumulazione piuttosto che di misure d’incremento dello sviluppo o del “prodotto pro capite”. Detto altrimenti: lo sottosviluppo e l’arretratezza sono funzioni dello sviluppo capitalistico. Il dibattito sull’Età d’oro del capitalismo ci restituisce una fondamentale lezione, quella di Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini in Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, che tradotta all’attuale composizione dei mercati europei si presenta di estrema attualità: «il sottosviluppo come funzione materiale e politica, funzione nel processo di accumulazione e di sfruttamento della cooperazione sociale, sviluppo come potere capitalistico sulla società nel suo insieme, del suo governo della società […] come ridefinizione del rapporto di forza politica fra le classi» e come «disgregazione delle stesse possibilità materiali di attacco politico proletario al rapporto di classe»1313. Una lezione che fa eco a Gramsci del Quaderno 19 su Il Risorgimento e del Quaderno 25, e prim’ancora del testo del 1926 Alcuni temi della quistione meridionale. Nel “cantiere” gramsciano leggiamo che la «disgregazione delle classi subalterne» è causata dall’«egemonia» e dall’«iniziativa dei gruppi dominanti», dal loro «potere governativo» e «prima» dal loro «essere dirigenti»; «i gruppi subalterni subiscono» «l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono»; ciò nondimeno possono «diventare classe dirigente e dominante» nella misura in cui riescano a creare un «sistema di alleanze di classe» che gli consentano di «mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice»14.
L’analisi del rapporto fra angoli “arretrati” e angoli “avanzati” all’interno dello spazio europeo permette di riprendere, con i necessari distinguo relativamente all’uso, alcuni studi di Rosa Luxemburg sulla «società non capitalistica». Efficaci sono le sue analisi riguardo a ciò che chiama all’«infuori», all’esterno, quale necessario sbocco della «riproduzione allargata» e della «trasformazione del sovraprodotto in capitale». Scrive Luxemburg: «la realizzazione del plusvalore richiede come prima condizione un cerchio di acquirenti e non di consumatori all’infuori della società capitalistica […] gli strati sociali non-capitalistici gli occorrono come mercati di sbocco del plusvalore, come fonti di approvvigionamento dei mezzi di produzione, come riserve di forze-lavoro per il sistema salariale»15.
Nell’analisi del «pacchetto legislativo sulla politica di coesione 2014-2020» emerge direttamente dalle voci di finanziamento quale sia la funzione dei discorsi di sviluppo e di crescita all’interno dei meccanismi di governance16, ossia una funzione materiale e politica dei processi di accumulazione. In particolare, oltre alle “solite” voci sull’efficienza e la semplificazione della Pubblica Amministrazione, 23,4 mld verranno destinati nei prossimi 7 anni principalmente a due settori: la formazione di forza lavoro specializzata (cognitiva) e la valorizzazione del territorio (infrastrutture, in particolare web) e dell’ambiente. Tradotto nel Mezzogiorno italiano: saranno finanziati progetti di espropriazione di risorse naturali – con David Harvey, «accumulation by dispossession»17 – e l’accumulazione tramite la formazione del lavoro vivo. Vale a dire: l’inaugurazione di nuovi insediamenti industriali; le bonifiche ambientali in Campania, a seguito del decreto legge “Terra dei fuochi”; l’estrazione di idrocarburi (in Basilicata e Campania ma anche, a macchia di leopardo, in altre regioni del Meridione d’Italia); e la formazione (universitaria, post-universitaria, corsi regionali, stage, ecc.), destinata alle regioni d’Europa che ne avranno bisogno e che potranno assorbirne le specializzazioni.
A chi giova il rapporto sviluppo/sottosviluppo e la dialettica dentro/fuori? Anzitutto va detto che dal 2000 al 2014 i Fondi comunitari hanno garantito un certo grado di subalternità al discorso egemone dell’unione, della costituzione e dell’integrazione dello spazio europeo; nel frattempo hanno incanalato la mobilità della forza lavoro meridionale all’interno di uno sviluppo complessivo del mercato europeo. In questo modo, la dualità sviluppo/sottosviluppo non è stata superata, bensì integrata nel sistema europeo. Non più il Sud d’Europa come rapporto esterno, ma come rapporto interno allo sviluppo. In altri termini: l’unificazione capitalistica dell’Europa come «dominio capitalistico totalizzante di uno specifico rapporto sociale e politico»18. Dunque, il mercato europeo funziona grazie al rapporto sviluppo/sottosviluppo che attiva delle variabili di accumulazione indispensabili: «fonti di approvvigionamento» di lavoro vivo a basso costo, «mercati di sbocco» e di «accumulazione di plusvalore». La “questione meridionale” è così diventata questione europea. E chissà quanti meridionalisti hanno speso fiumi d’inchiostro a favore di questa svolta, auspicando dapprima il suo divenire italiana e poi europea, per approdare infine al suo superamento. Pie illusioni di uno storicismo d’altri tempi.
In realtà, sviluppo e sottosviluppo sono condizioni strutturali del capitalismo. Tramite la messa a valore degli angoli “arretrati” del mercato europeo, gli scarti temporali garantiscono un’estrazione violenta di rendita e profitto; provano continuamente a imbrigliare la mobilità della forza lavoro; intersecano la classe, la «linea del colore» e i dispositivi di genere, nel tentativo di ricostruire il rapporto di sfruttamento e la sua capacità di valorizzazione; e favoriscono nuove accumulazioni sulla cooperazione e sul lavoro vivo. Come ha ben notato Giso Amendola: «l’alternativa sviluppo/arretratezza si è così riproposta come dispositivo di governo delle vite: il rifiuto meridionale dell’integrazione nello sviluppo neocapitalistico industriale è stato bollato come “colpa”, come irresponsabilità. Il neoliberalismo ha riscritto così l’imperativo dello sviluppo: lo ha fatto diventare uno strumento di costruzione della soggettività […] lo stereotipo del Sud “arretrato” e bisognoso d’essere messo alla pari coi tempi dello sviluppo, si è così trasformato nella stigmatizzazione dell’aver vissuto al di sopra dei propri mezzi»19.
È andata così costituendosi una cittadinanza europea fatta non tanto e non solo in senso binario (Sud/Nord, centro/periferia, modernità/arretratezza), dove la spazialità ormai non cartografa più gli angoli attardati e quelli sviluppati, ma una cittadinanza in cui lo sviluppo convive accanto al sottosviluppo in un sistema più largo, molteplice e integrato. Per dirla con Aníbal Quijano assistiamo all’esercizio della «colonialità del potere», all’unificazione delle modalità attraverso cui il capitalismo mantiene insieme l’«eterogeneità» e le «differenze», nei «rapporti di produzione» e nei «modi di produzione»20.
Dunque, se il dispositivo sviluppo/sottosviluppo e la dialettica dentro/fuori sono l’ordinario funzionamento del sistema economico europeo, le politiche di austerità sono l’ordine del discorso che ne rendono possibile l’attuazione. Che l’austerità non arridi alla Germania e ai paesi del Nord Europa per superare la crisi e per riattivare la crescita è dimostrato dall’andamento dello stesso mercato tedesco: il barcamenarsi tra il blocco della crescita e un forte rischio di deflazione ha spinto le agenzie di rating, sì a confermargli la “tripla A”, ma a non riporre grossa fiducia nella sua stabilità. Ciò non toglie, però, che la sua bilancia commerciale si mantenga in avanzo, che sia forte la competitività dei suoi prodotti, e che i bilanci pubblici in attivo gli consentano di fronteggiare i rischi di stagnazione e al governo Merkel di contrastare qualsiasi ragione contraria al rigore. Se finora le politiche comunitarie hanno consentito l’integrazione del sottosviluppo nello sviluppo, il prossimo settennato servirà alla formazione di forza lavoro specializzata nelle regioni periferiche e “poco sviluppate”; al controllo della mobilità della forza lavoro verso i mercati “avanzati” dell’UE, in particolare verso il mercato tedesco; e all’apertura di processi violenti di «accumulazione per spoliazione» nelle regioni “arretrate”, come ricostruzione del rapporto di sfruttamento, secondo una logica estrattiva.
Sempre nel Mezzogiorno e nell’area mediterranea riscontriamo altri fenomeni particolarmente significativi delle politiche comunitarie, cui vale la pena prestare attenzione. Sono i fenomeni di mappatura di nuove regioni geopolitiche per la gestione della popolazione e dei territori. Ci riferiamo ad esempio alla Macroregione Adriatico-Ionica. Dai documenti ufficiali si evince l’importanza strategica di quest’area all’interno della Politica macroregionale dell’UE che vede coinvolti un numero elevato di Paesi extra unionali (Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Serbia) insieme agli Stati membri (Croazia, Grecia, Italia e Slovenia) che fanno da garanti dell’accordo. Gli scopi sono l’estrazione di risorse ambientali ed energetiche; la gestione delle migrazioni; e nel complesso la governance dello sviluppo economico delle regioni coinvolte21. Essa appare come una nuova regione del Mediterraneo in cui sono applicate «tecnologie di zoning», ossia «sono introdotti calcoli economici nella gestione della popolazione». In questo caso abbiamo un esempio, fra i tanti nel meridione d’Europa, ma probabilmente tra i più rappresentativi, di moltiplicazione dei confini in aree “arretrate”: vale a dire di «gestione, limitazione, arresto» della «mobilità dei migranti» e, al contempo, dell’esistenza di «corridoi ed enclave per la costituzione di zone economiche speciali»22; dove convivono le lotte dei migranti con gli interessi delle multinazionali petrolifere, con il progetto noto come Gasdotto Trans-Adriatico (TAP, Trans-Adriatic Pipeline) per l’afflusso di gas naturale proveniente dall’Azerbaigian in Italia e in Europa.
In ultimo, vale brevemente la pena analizzare un altro caso di «enclave» e «zona economica speciale» per eccellenza, all’interno dello spazio europeo: il porto di Gioia Tauro. Qui è difficile parlare di periferia o di Sud Europa oppure di zona “arretrata”, allorché su questi cliché si staglia non la marginalità e l’eccezione ma la realtà della globalizzazione capitalistica. Il porto di Gioia Tauro è uno dei punti più alti dell’accumulazione capitalistica e del flusso di merci globale; e la zona circostante è un contenitore esplosivo di sfruttamento, tensioni, attriti e conflitti. La sua condizione di frontiera contraddistingue una sovranità ambivalente. Il flusso di merci ne istituisce gli spazi caratterizzati dalla «confusione tra legale e illegale, pubblico e privato, disciplinato e selvaggio»23. Così, in una manciata di chilometri, in una delle tante periferie dell’Europa ormai assurta a ventre della bestia, è concentrata tutta la violenza del capitale: processi di sfruttamento del lavoro vivo, di estrazione di profitto e di finanziarizzazione; e un po’ più in là, nella Piana di Gioia Tauro, la brutalità dell’inclusione differenziale: lo sfruttamento “schiavistico” e la ghettizzazione della forza lavoro migrante.
3. Parafrasando un classico di Giovanni Arrighi, forse sarebbe necessario mandare Adam Smith a Gioia Tauro. Cosa vuol dire questo? E che cosa ci dicono quelle coordinate che abbiamo provato a rincorrere e riacciuffare nel corso di queste analisi? Queste domande in realtà ci aprono le porte a quelle sfide che rimandano alla comunicabilità delle differenze e alla traducibilità delle lotte; al ripensamento radicale della politica della traduzione delle lotte, tanto a livello europeo quanto a livello globale. Non si tratta di andare da una lingua a un’altra tenendo ferma la barra delle coordinate Nord/Sud, centro/periferia, che solo a pronunciarle farebbero idealmente alleare i subalterni meridionali. Questo tipo di traduzione non tiene conto dei processi di accumulazione, delle forme di sfruttamento, dei differenti livelli della lotta di classe e dell’eterogeneità degli stessi “Sud”. Certo, una sorta di “geografia della percezione” potrebbe essere uno strumento tra i tanti di una politica della traduzione delle lotte. Tuttavia non va trascurato come all’interno delle periferie pulsi il cuore della bestia: alti livelli di accumulazione così come violente forme di sfruttamento; e come nel centro della finanza internazionale convivano pratiche di precarietà e povertà. Si tratta di una traduzione che di fatto non passa più soltanto per la lingua della spazialità. Ma al contempo va preso atto come le politiche nello spazio europeo proprio tramite la retorica del sottosviluppo, i proclami sul rigore, i discorsi orientalistici, abbiano ormai riconfigurato i processi di accumulazione, il mercato del lavoro, la mobilità dello sfruttamento, la formazione di sacche da cui attingere «mezzi di produzione» e dove praticare nuove forme di «accumulazione originaria».
Tentare di sperimentare la traducibilità fra subalternità eterogenee, ad esempio nei paesi del Sud d’Europa, significa creare ambiti di connessione e di comunicazione di «contro-condotte», di esperienze di solidarietà e di resistenza, nuove forme di sindacalismo e di mutualismo fra classi subalterne; e individuare dei momenti, dei punti e dei luoghi di accumulo in cui misurare i rapporti di forza. Attingendo dal “cantiere” gramsciano, varrebbe forse la pena di interrogarsi sul come produrre «egemonia» in grado di divenire discorso pubblico. Che tenga insieme pratiche conflittuali e consenso sempre più largo: «egemonia» in grado di parlare la lingua delle subalternità e di creare un «sistema di alleanze di classe» che consentano di «mobilitare contro il capitalismo», e contro la cultura e la solitudine neoliberiste, la «maggioranza» di quell’eterogeneità precaria all’interno dello spazio europeo.
Dall’incontro del 16 maggio 2014, presso l’Università degli studi di Napoli, “L’Orientale”, Lo spazio europeo: sguardi da Sud per inventare il comune – dialogo con Toni Negri. Si vedano qui materiali e video. ↩
S. Hall, Cultural Studies Identity and Diaspora, in J. Rutherford (a cura di), Identity, Community, Culture, difference, Lawrence & Wishart, London 1990, cit. in M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Meltemi, Roma 2005, p. 128. ↩
M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 153. ↩
C. Marx, Il Diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, con pref. di F. Engels, Feltrinelli Reprint, Milano 1896, p. 16. ↩
Rileggere “Operai e capitale”: relazione di Brett Neilson, qui. ↩
S. Mezzadra, Leggere Gramsci oggi. Materialismo geografico e subalternità, in Briganti o emigranti. Sud e movimenti fra conricerca e studi subalterni, a cura di Orizzonti meridiani, ombre corte, Verona 2014, p. 37. ↩
S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, il Mulino, Bologna 2014, p. 357. ↩
G. Amendola, La norma dello sviluppo, la rottura meridiana, in Briganti o emigranti, cit., p. 52. ↩
S. Mezzadra, op. cit. p. 37. ↩
I dati sull’uso dei fondi comunitari nelle «aree sottoutilizzate» parlano chiaro, anche se vanno relativamente commisurati alla capacità degli enti periferici dell’UE di farne richiesta e di investirli in modo da ottenerne il rientro. Ad ogni modo sono cartina di tornasole della funzione e dello scopo dei fondi di cui andremo parlando nel corso del presente articolo. Dal 2007 al 2011, l’investimento è stato del 21,7% (6,1 mld) a fronte del ciclo precedente, 2000-2006, di 36,1 % (9,7 miliardi), quindi assistiamo a una sostanziale riduzione. ↩
P. Dardot., C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Derive Approdi, Roma, 2013, pp. 8-9. ↩
Metodi e obiettivi per un uso efficace dei Fondi comunitari 2014-2020, scaricabile qui. ↩
L. Ferrari Bravo, A. Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano, ombre corte, Verona 2007, p. 28. ↩
A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, intr. e cura di F. De Felice, V. Parlato, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 135; Id., Quaderni del carcere, III, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, p. 2283; Id., Risorgimento italiano. Quaderno 19, a cura di C. Vavanti, Einaudi, Torino 1977 p. 70. ↩
R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, Einaudi, Torino 1972, pp. 343 e 363. ↩
Il pacchetto legislativo sulla politica di coesione 2014-2020 che introduce cambiamenti significativi, quali «un coordinamento rafforzato della programmazione dei quattro fondi comunitari collegati al Quadro Strategico Comune 2014-2020 in un unico documento strategico, e una stretta coerenza rispetto ai traguardi della strategia Europa 2020 per la crescita intelligente, inclusiva e sostenibile dell’UE e rispetto agli adempimenti previsti nell’ambito del Semestre europeo». Il documento è stato istruito dal «processo di preparazione […] avviato con la presentazione da parte del Ministro per la coesione territoriale, d’intesa con i Ministri del Lavoro, e delle Politiche Agricole, Forestali e Alimentari, nel dicembre 2012, del documento “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi strutturali”, che ha definito l’impianto metodologico del nuovo ciclo, individuando sette innovazioni volte a rafforzare l’efficacia e la qualità della spesa dei fondi [qui]». ↩
Per un’analisi critica della nozione di Harvey, si veda M. Mellino, David Harvey e l’accumulazione per espropriazione, qui. ↩
L. Ferrari Bravo, A. Serafini, op. cit., p. 25. ↩
G. Amendola, op. cit., p. 55. ↩
A. Quijano, Colonialità del potere ed eurocentrismo in America Latina, in G. Ascione, a cura di, America latina e modernità. L’opzione de coloniale: saggi scelti, Edizione Arcoiris, Salerno 2014, p. 77. ↩
Sull’Iniziativa Adriatico-Ionica si veda questo documento ministeriale. ↩
A. Ong, Neoliberalismo come eccezione. Cittadinanza e sovranità in mutazione, La casa Usher, Lucca, 2013, cit. in S. Mezzadra, B. Nielsen, op. cit., pp. 267. ↩
Ibidem, p. 268. ↩