di SANDRO MEZZADRA e MARIO NEUMANN. Al centro del dibattito recente della sinistra e dei movimenti di lingua tedesca sembra essere nuovamente la “politica di classe” – e troppo spesso quello che si intende con questa formula non è altro che il ritorno al Welfare state nazionale. Anziché rimanere nostalgicamente invischiati in idee superate (e che anche nel momento della loro validità avevano una forte valenza di esclusione e disciplinamento), si tratta oggi di pensare in modo radicalmente diverso la politica di classe: come una politica in movimento della solidarietà e del comune. Anticipiamo in questo articolo, pubblicato in tedesco nel blog della “Interventionistische Linke” (http://blog.interventionistische-linke.org/klasse-mit-differenz/jenseits-von-interesse-und-identitaet), alcuni temi di un più ampio lavoro critico sulla categoria di “populismo di sinistra” (e in particolare sui modi in cui questa categoria viene interpretata politicamente in Germania), in uscita a luglio per la casa editrice Laika (http://www.laika-verlag.de/).
La Francia, Eribon1, Mélanchon: in Germania sembra difficile prendere congedo dalla Francia come sfondo proiettivo. Di più: la sinistra e i movimenti tedeschi sembrano in questo momento impegnati a parlare della Francia assai più che di se stessi. Al centro di questa discussione sembrano esserci fondamentalmente coloro che un tempo sono stati operai e operaie e oggi votano per il “populismo di destra” – e la domanda su che cosa abbiano a che fare con tutto ciò le prospettive e le pratiche politiche riconducibili al “maggio del ’68”. Tanto in Francia quanto in Germania sembra essere ovvio che praticamente tutti i problemi della sinistra e dei movimenti dipendano dalla mancata o insufficiente politicizzazione della “questione sociale”. Il tema è poi la complicità della “nuova sinistra” con il “neo-liberalismo progressista”. E non si parla che di elezioni, in un duplice senso: si parla soprattutto di comportamenti elettorali – e nei fatti si parla soltanto di coloro che sono titolati a votare.
La “questione sociale”: nei fatti non è mai svanita. Sfruttamento e produzione di povertà sono tratti strutturali del capitalismo. E tuttavia c’è stata un’epoca – l’epoca dello Stato sociale democratico – in cui questi tratti strutturali sono stati messi sotto controllo e parzialmente limitati dalle lotte operaie e dalle politiche sociali, in Germania come in Francia e altrove. Al tempo stesso va sottolineato che le condizioni globali di quello che è descritto come un “compromesso di classe” vengono spesso rimosse nel dibattito.
Che cos’è davvero la classe?
Quest’epoca, in ogni caso, è ormai tramontata – e non certo da oggi. Nel segno della crisi ciò è divenuto definitivamente chiaro in Europa e perfino in Germania. E al più tardi dall’“estate della migrazione” del 2015 la “questione sociale” globale ha fatto irruzione all’interno dello spazio europeo in modo radicale, attraverso il movimento dei migranti. Chi domanda che cosa, si potrebbe quindi chiedere, quando si parla della “questione sociale”? Era forse tramontata soltanto per coloro che, prigionieri del nazionalismo metodologico e dello Stato sociale e nazionale, l’avevano dimenticata? La lotta delle donne per la parità salariale è forse meno una questione di classe della lotta dei ferrovieri per salari più alti? Il movimento di profughi e migranti, la loro lotta per i diritti sociali e la partecipazione ha forse meno a che fare con la classe operaia delle proteste sociali contro l’Agenda 2010 2? Dove si colloca il “basso” e dov’è la classe in un mondo in cui la brutalità dell’Agenda 2010 e del modello tedesco di bassi salari sono motivi sufficienti a spingere una moltitudine di donne e uomini a rischiare la vita nel Mediterraneo pur di parteciparvi?
La lunga ombra del Welfare state…
Queste domande potrebbero (e dovrebbero) essere al centro del dibattito contemporaneo. Così non è, tuttavia. Assistiamo piuttosto al ritorno di un tema antico: la “contraddizione principale” – o per lo meno un riflesso nostalgico, che porta a descrivere la storia della politica di sinistra come una sorta di inesorabile declino del “fronte unitario dei lavoratori”3.
Alcuni sostengono addirittura che la crisi attuale della sinistra dipende semplicemente ed esclusivamente dal fatto che la politica di sinistra non è più quella di una volta; che la “politica dell’identità” ha avuto la meglio ed è indirettamente responsabile della stessa frammentazione della “classe operaia”. Una politica della questione sociale all’altezza dei tempi non dovrebbe quindi cominciare – secondo queste posizioni – con un’autocritica del movimento operaio istituzionale, dei sindacati e dei partiti di sinistra, ma dovrebbe al contrario riaffermare la propria ortodossia contro la “politica liberale della parità di condizioni”, per liberarsi finalmente dalle politiche della “nuova sinistra”. È stupefacente: molti e molte, che da decenni non fanno altro che dedicarsi (spesso in qualità di funzionari retribuiti) alla politica della questione sociale, parlano oggi come se le loro pratiche politiche degli ultimi anni semplicemente non fossero esistite.
Questa è in particolare la linea che pare egemonica nella campagna elettorale del partito die Linke (pur con importanti e lodevoli eccezioni)4. È una prosecuzione lineare del tradizionale schema della “contraddizione principale” e dell’esclusione selettiva di una parte della “classe” dalla “questione sociale”: donne e migranti, in particolare, hanno sempre giocato e continuano a giocare in questo schema soltanto un ruolo subordinato. E lo stesso vale per i giovani. I discorsi nostalgici sullo Stato sociale democratico dimenticano sistematicamente coloro che oggi, sul mercato del lavoro, si trovano di fronte a situazioni e rapporti completamente diversi da quello che comunemente si definisce “rapporto di lavoro normale”.
… e gli insufficienti tentativi di rinnovarlo
Altri, bisogna riconoscerlo, non la fanno così semplice. Insistono sul significato e sul rilievo politico dei “nuovi movimenti sociali” e rifiutano con decisione una politica della contraddizione principale. Al tempo stesso, si può riscontrare nelle loro posizioni una evidente ambivalenza: mentre da una parte difendono da un punto di vista tanto politico quanto normativo le “politiche dell’identità”, appaiono dall’altra relativamente incapaci di renderle produttive metodicamente e teoricamente. Conseguentemente, non di rado la rivendicazione di antirazzismo e femminismo si coniuga con un registro vetero-marxista, che in ultima istanza individua ancora una volta le cause dei problemi sociali contemporanei (e le soluzioni per tali problemi) nelle politiche sociali del Welfare state – e che in fondo riconosce come motivazione del movimento politico soltanto “interessi materiali”.
Praticamente senza eccezione, in queste posizioni si riscontra una sproporzione tra la problematizzazione dei movimenti della “politica dell’identità” e la rinuncia praticamente a ogni critica della politica sindacale e del Welfare state. Non di rado pare di trovarsi di fronte a tentativi di formulare una politica ampliata della contraddizione principale – una politica cioè che certo si apre di fronte ai “nuovi movimenti sociali” ma che rinuncia a sviluppare ulteriormente e a porre in discussione in modo sistematico il proprio fondamento ideologico. Dal punto di vista del linguaggio questi tentativi si esprimono nell’assegnazione di attributi alla politica di classe, riformulata nei termini di una “politica di classe femminista, antirazzista ed ecologica”. Costante rimane tuttavia l’idea di un centro politico – il partito, il sindacato, la questione sociale – che ai suoi margini dovrebbe aprirsi al presunto “nuovo”. A questo corrisponde una riaffermata centralità di determinate soggettività, radicata in un concetto di “classe” non ulteriormente articolato concretamente né sviluppato in riferimento al suo contesto globale.
I genitori di Eribon
In luogo di questa articolazione, si pensa sempre a quei soggetti che in un modo ormai divenuto almeno in parte stridente rappresentano la “classe operaia” del Welfare state. Il centro della discussione è rappresentato da persone fondamentalmente analoghe ai genitori di Eribon. Implicitamente questo comporta un’idea precisa di quello che dovrebbe essere il core business della sinistra e dei movimenti, finalmente da riscoprire: la politica sociale, sostanzialmente intesa come restaurazione dello Stato sociale e nazionale. Su questo punto le diverse correnti che animano il dibattito sembrano concordare. L’immagine idealizzata di un passato che non è mai stato davvero così come lo si rappresenta si combina con una focalizzazione esclusiva su soggetti che sembrano incarnare la nostalgia per questo passato. E questa focalizzazione è onnipresente. Quantomeno non siamo riusciti a trovare un singolo articolo di giornale in cui ad esempio si tentasse di spiegare perché un gran numero di migranti con il diritto di voto o di donne non votano die Linke e se ne traessero delle conseguenze.
Classe, questione sociale, e “nuova sinistra”
E nonostante tutte le differenze di posizione: che cosa sia la “questione sociale” e che cosa sia “la classe” sembra a tutti ovvio e particolarmente importante in questo dibattito. I due termini vengono solitamente pronunciati insieme e considerati sinonimi. Vorremmo tuttavia contestare con decisione che la questione della classe, posta in questo modo e costruita attorno all’idealizzazione del “rapporto di lavoro normale”, del Welfare state e del modo di produzione e di vita fordista conduca oggi davvero automaticamente a una politica della questione sociale. E inoltre, per dirla nel modo più semplice possibile: originariamente la “questione sociale” registra negli anni Trenta dell’Ottocento l’emergere in Europa di una nuova povertà di massa nel contesto dei processi di industrializzazione. “Classe” è un concetto che si riferisce (teoricamente con Marx, politicamente con le rivolte operaie del 1848 e poi con la Comune di Parigi) alla soggettivazione antagonistica di questa povertà di massa nella figura del moderno proletariato. Verso la fine dell’Ottocento la “questione sociale” viene riformulata proprio in reazione a questi processi di soggettivazione e di lotta di classe e trasformata in oggetto di politiche governamentali, aprendo lo spazio per politiche nuove sociali dello Stato. È necessario ricostruire, come cerchiamo di fare nel testo più ampio citato nella presentazione di questo articolo, questa storia dell’integrazione conflittuale del movimento operaio, precisamente avviata nel segno della riformulazione del concetto di “questione sociale”.
Dalla costituzionalizzazione del lavoro…
Vogliamo in ogni caso anche qui sottolineare che nella cornice di questa integrazione conflittuale del movimento operaio – che nel corso del ventesimo secolo può essere compresa soltanto sullo sfondo della minaccia rappresentata per il capitalismo dalla rivoluzione sovietica su scala mondiale – si è progressivamente affermato un processo di costituzionalizzazione del lavoro. Questo processo ha trovato la propria figura politica, nell’Europa occidentale del secondo dopoguerra, nella nascita dello Stato sociale democratico. Al suo interno, e in questa figura, le lotte operaie sono state un essenziale momento dinamico, e hanno ottenuto significative conquiste. Al tempo stesso, tuttavia, il movimento operaio – i suoi sindacati e i suoi partiti – ha progressivamente subito un processo di “statualizzazione”. All’interno di questo processo, la stessa “classe” i cui interessi il movimento operaio puntava a rappresentare e a imporre si è andata identificando con una parte determinata della classe operaia industriale.
Per noi, tuttavia, la “classe” rimane essenzialmente definita da quel momento di insorgenza e di innovazione del politico che originariamente ineriva al concetto – e che anche nel corso della costituzionalizzazione del lavoro si è ciclicamente manifestato. Per questo il making della classe e la sua composizione sono per noi questioni fondamentali. E come ci insegnano la history from below e l’operaismo il “farsi” della classe non può essere ridotto a dimensioni tecniche o sociologiche, risultando essenzialmente di natura politica. In questo senso il “maggio del ‘68” – inteso come congiuntura globale di rivolta – rappresenta una soglia storica decisiva per ogni “politica di classe”.
… al maggio ’68
La rivolta delle donne e dei lavoratori migranti, la critica radicale della società e del mondo del lavoro fordista (in particolare da parte della gioventù) hanno aperto un nuovo spazio d’esperienza, al cui interno nuove articolazioni della politica di classe sono divenute possibili. Di più: la classe, in queste rivolte e grazie a esse, è tornata a essere un campo di tensione in cui le specifiche forme di esclusione e inclusione selettiva che avevano caratterizzato la politica del movimento operaio tradizionale divenivano visibili e oggetto di critica pratica.
Certo: dopo la sconfitta del “maggio ’68” questa nuova composizione di classe è anche divenuta la base di nuovi regimi di accumulazione capitalistica. Ma anziché lamentarsi per un’immaginaria complicità del “maggio ’68” con il “neoliberalismo progressista” si tratta di ricostruire analiticamente le continue trasformazioni di questa composizione di classe e di lavorare praticamente alla sua soggettivazione antagonistica.
Identità e interessi
Siamo ben lungi dall’ignorare che la “politica dell’identità” porta con sé un buon numero di problemi. Lo sviluppo di rivendicazioni e movimenti sociali attorno a un riferimento tendenzialmente esclusivo a specifiche “identità” è per noi decisamente problematico. In ultima istanza ciò separa quei movimenti e quelle rivendicazioni da una politica di classe in cui essi hanno spesso una delle proprie radici più importanti (si pensi solo alle lotte delle lavoratrici di colore alla General Motors negli anni ’70, all’origine dei dibattiti sull’“intersezionalità”, o alle lotte degli operai migranti alla Ford di Colonia). Ma a prescindere dal fatto che sul terreno della “politica dell’identità” – analogamente, in fondo, a quanto abbiamo scritto in precedenza sul movimento operaio all’epoca dello Stato sociale democratico – sono state ottenute importanti conquiste, non pensiamo che la soluzione dei problemi della “politica dell’identità” sia da cercare nel campo di una pura “politica degli interessi”.
Questo dipende da una parte dal fatto che l’immagine della “politica degli interessi” è troppo profondamente segnata dalle esperienze di un’epoca trascorsa. Dall’altra parte ha anche a che fare con la circostanza che la lotta per “interessi” materiali, assolutamente necessaria, è essa stessa caratterizzata e attraversata da desideri e aspettative, da passioni e affetti – in breve: da processi di soggettivazione. E questi processi sono oggi un terreno essenziale di lotta per una politica che punti a essere all’altezza del mondo contemporaneo del lavoro e della vita. Lo stesso concetto di interesse deve essere da questo punto di vista riformulato.
Politica della solidarietà: il “farsi” della classe
Il concetto di soggettività non è molto amato all’interno di ampie componenti della sinistra e dei movimenti tedeschi. Come momento centrale per la formulazione della strategia politica continuano a essere privilegiati l’appartenenza a organizzazioni politiche, il comportamento elettorale, il puro “interesse” o la capacità di articolare “verità” dal punto di vista teorico-politico. Al tempo stesso, molti sembrano ultimamente riconoscere il significato delle soggettività collettive, se è vero che le riflessioni strategiche si svolgono sempre più attorno a concetti come “”ceti medi urbani” o i “perdenti”, nonché attorno ai loro comportamenti e immaginari. Le attribuzioni economicistiche – qui c’è l’underclass, là ci sono i ceti medi intellettualizzati e privilegiati – non aiutano davvero qui. Riducono l’insieme della soggettività a un effetto della situazione economica – con semplificazioni spesso insostenibili. Ed è sulla base di queste semplificazioni che tutto ciò che non è immediatamente funzionale al perseguimento degli “interessi economici”, “materiali” viene liquidato come politica di ceto medio o filantropia.
In tempi segnati da potenti processi di individualizzazione e a fronte di una cultura dell’egoismo, una politica di classe non potrà certamente essere soltanto una politica degli “interessi” – e tantomeno dell’“identità”. Un populismo di sinistra à la Wageknecht, che punta su un processo politico autoritario – negli ultimi tempi con una svolta aggressiva in direzione della politica di classe, per quanto il rifiuto di questa politica sia stato in qualche modo l’origine del discorso populista di sinistra – è condannato al fallimento, anche se nel breve periodo può conseguire qualche successo nelle urne elettorali. Una “politica di classe” è oggi piuttosto pensabile soltanto come una politica in movimento della solidarietà e del comune, in cui i propri interessi si colletivizzano e si coniugano con una comprensione degli altri: come processo di solidarizzazione. Il carattere di massa del movimento di solidarietà con profughi e migranti negli ultimi due anni5 mostra che non si tratta di un sogno radicale, ma di una realtà sociale. In questo movimento si esprime un atteggiamento, una pratica di solidarietà che è perlomeno un fenomeno continentale e non può in alcun modo essere ridotto a un’espressione del “ceto medio”, come mostra ad esempio l’esperienza greca.
Ne siamo certi: il desiderio del comune, l’alta partecipazione di donne e migranti, l’estensione nelle città e nelle campagne, tutti questi elementi delle lotte degli ultimi anni corrispondono a caratteri di massa di una nuova soggettività solidale che dovrebbe essere il punto di partenza e di riferimento per una politica di classe all’altezza del nostro tempo. Il movimento che ha costruito la solidarietà con profughi e migranti ha reso produttive le differenze tra i subalterni, ha reso possibile la collettivizzazione di destini sociali diversi, ha creato nuove collettività e istituzioni non statuali e ha anche ottenuto successi politici significativi. In queste esperienze vissute della solidarietà la classe trova nuove basi, in modi peculiari, attuali e creativi – non a tavolino o nei laboratori per la stesura dei programmi politici. È per questo che una politica di classe deve essere a nostro parere pensata e costruita a partire da qui. Può poi arrivare a coinvolgere anche i genitori di Eribon, ma non può certo iniziare da loro. The times they are a changin’.
1 Il riferimento, ripreso anche più avanti, è a Didier Eribon: il suo Retour à Reims, Paris, Fayard, 2009 è stato tradotto in tedesco, per i tipi di Suhrkamp, nel 2016, ed è stato al centro di infinite discussioni nella sinistra tedesca. Il racconto del ritorno di Eribon ai luoghi della sua formazione, la descrizione dei processi di scomposizione del tradizionale milieu operaio e le riflessioni sui comportamenti elettorali di molti vecchi operai passati dal voto per il PCF a quello per il Front National sono stati da molti interpretati come dimostrazione (tanto più irrefutabile considerando il fatto che l’autore è da sempre impegnato nei movimenti gay, anche sulla base di una originale lettura di Foucault) dei limiti della “politica dell’identità” e della necessità di un “ritorno” alla questione sociale. Molte posizioni “populiste di sinistra” hanno preteso di “arruolare” nelle proprie fila Eribon, che tuttavia – va detto – si è immediatamente sottratto a questo tipo di lettura del suo libro.
2 Il riferimento è alla riforma del mercato del lavoro e della previdenza di Gerhard Schroeder (SPD), del 2003.
3 Arbeitseinheitsfront: il riferimento è all’Einheitsfrontlied, composto nel 1934 da Bertold Brecht (testo) e Hanns Eisler (musica). Una versione iconica di questa canzone per la sinistra e i movimenti tedeschi è quella dei Ton, Steine, Scherben (1971), facilmente reperibile su youtube.
4 Il riferimento è qui in particolare alle posizioni di Dietmar Barsch e soprattutto di Sarah Wageknecht, che in quanto Spitzenkandidaten (candidati alla guida del governo) di die Linke godono di una grande visibilità nella campagna elettorale. Le posizioni di Sarah Wageknecht, in particolare, rappresentano una specifica variante del “populismo di sinistra”. È opportuno sottolineare che all’interno del partito sono ben presenti posizioni di tutt’altro segno, aperte a posizioni come quelle sostenute nell’articolo e ben rappresentate dalla segretaria Katja Kipping.
5 Il riferimento è al cosiddetto Willkommensbewegung, alle “iniziative di solidarietà” con profughi e migranti sorte in tutta la Germania a partire dall’“estate della migrazione”.