di GIANNI GIOVANNELLI.
riprendiamo e condividiamo dal sito Effimera questo intervento di Gianni Giovannelli sul referendum costituzionale
Riordinando certe mie vecchie carte è spuntata una lettera del 5 novembre 2004. Quando la scrisse Teresa Mattei aveva 83 anni. La sua iscrizione al partito comunista risaliva al 1942, la radiazione al 1955. Durante i lavori dell’assemblea costituente fu la prima rappresentante delle ragazze madri; nel 2001 trotterellava durante il G8 per Genova, la città in cui era nata. Protestava e non conteneva l’indignazione di fronte al comportamento criminale dello stato.
Che mi scriveva? Questo, cito alla lettera: …cultura dominante così incline a un pericoloso, devastante sistema illiberale, di cui vediamo continuamente l’avanzata. Si sta cambiando la Carta Costituzionale, stravolgendone i principi fondamentali… Stava parlando di un pezzo della sua vita; la guerra partigiana di liberazione e la decisione di eseguire la condanna a morte di Giovanni Gentile rientravano armonicamente nel testo del 1948.
Sono trascorsi dodici anni ma i concetti sono dannatamente attuali, all’ordine del giorno.
L’opzione autoritaria si è già tradotta in una profonda modifica dell’assetto costituzionale e istituzionale, a prescindere dall’esito del referendum. Con legge 20 aprile 2012 le camere avevano introdotto, per imposizione europea (patto Europlus e Fiscal Compact), il pareggio di bilancio, modificando l’articolo 81 della Carta, senza quasi dibattito parlamentare, a tempo di record, con maggioranza superiore a due terzi, senza referendum. Questa rimane la leva per cancellare ogni residua forma di welfare. Ma la stessa costituzione materiale è andata trasformandosi giorno dopo giorno, nei fatti e senza modifiche formali, piegando il tradizionale triplice potere alle necessità dell’opzione autoritaria. I due rami del parlamento sono il frutto di una legge elettorale cancellata dalla sentenza della Consulta; per giunta il partito democratico ha raggiunto l’esile maggioranza con l’apporto della sinistra radicale, accantonando poi il programma originario. Il governo poggia sulla frode elettorale (lo scippo dei voti antagonisti) e sul trasformismo di parte del centrodestra. Questo parlamento dichiaratamente illegale ha scelto per leader Renzi, neppure eletto. A mezzo di decreti legge e di voti per la fiducia, in esecuzione degli ordini provenienti dal potere finanziario europeo, ha cancellato i diritti dei lavoratori, è intervenuto sulle cariche giudiziarie con leggi ad personam, ha istituzionalizzato la condizione precaria, ha legittimato la guerra utilizzando l’esercito di professionisti, ha imposto alle popolazioni contrarie grandi opere inutili consumando così le risorse rastrellate con la pesca a strascico nella fascia più debole del paese.
La legge di modifica costituzionale intende recepire quanto in buona parte già messo in opera e sviluppare ulteriormente la scelta repressiva e oppressiva necessaria per la gestione dell’attuale meccanismo di estrazione della ricchezza. Il punto è che la forbice fra ricchi e poveri si allarga di continuo, benché, contraddittoriamente, la cooperazione sociale complessiva e il necessario utilizzo del comune costituiscano ormai il pilastro di qualsiasi forma di profitto.
Dentro il progetto di riforma costituzionale si annida il programma a breve termine di attacco da parte del potere capitalistico finanziario, articolato per brevi passaggi:
a) il potere legislativo viene ricondotto ad una Camera a maggioranza precostituita (nel numero e nelle persone) e a un Senato di nomina indiretta (tramite i Consigli Regionali) che sostanzialmente disarma qualsiasi potenziale minoranza;
b) l’elezione del Presidente della Repubblica diventa appannaggio del partito di maggioranza;
c) il meccanismo di elezione dei membri della Corte Costituzionale (dieci su 15) diventa in questo modo di fatto controllabile dal ceto politico di governo;
d) le autonomie locali (ovvero le minoranze municipali riottose e ribelli) possono essere messe legalmente a tacere dal potere centrale. Questo rileva assai, anche se si finge di non comprenderlo, in tema di grandi opere e di acqua pubblica, di fonti energetiche e di ambiente, di scuola e ricerca. Lo stato centrale, a maggioranza blindata, potrà stipulare accordi internazionali imponendo la devastazione del territorio; quanto sta avvenendo in Val di Susa sul piano della repressione giudiziaria è quello che sarà domani utilizzato contro le lotte municipali.
Altro che irrilevanza delle modifiche! Nella centralizzazione del potere e nella costruzione di un controllo centrale dominante e repressivo sta il nocciolo dello scontro referendario.
Siamo giunti al nostro piccolo trivio referendario. Siamo in pieno enigma greco. Impossibile conoscere anticipatamente il destino. E prevedere le conseguenze di una lite su chi debba avere la precedenza nell’imboccare la via. Non ci sono solo due strade, almeno tre sono poi gli sbocchi possibili. Forse molti di più.
Il prevalere del SI comporterebbe l’accelerazione dell’opzione autoritaria che caratterizza l’intera socialdemocrazia europea, con intensificazione del processo di sussunzione dentro la condizione precaria; con prepotenza si costringerebbero i sudditi alla piena disponibilità su chiamata e a basso costo, come unica via possibile di accesso al reddito. Non va confusa questa scelta violenta con il fascismo storico, anche se sono simili alcune conseguenze. E proprio per questo l’inevitabile naufragio di una armonica ricomposizione del conflitto a colpi di decreti legge non potrà che rafforzare il progetto della destra che sogna la rifondazione dello stato nazionale sovrano; Hollande è riuscito nell’impresa impossibile di rendere Marine Le Pen una credibile candidata alla presidenza anche nel cuore socialista della Francia industriale. Ovvio che il potere finanziario europeo, che ha in uggia ogni forma di lungo periodo, guardi con simpatia all’accelerazione della evoluzione autoritaria, l’unica in grado di tenere la rotta di navigazione intrapresa. Ma che con questo progetto l’edificio stia in piedi per molto non è affatto detto. Anzi.
Il prevalere del NO (come era avvenuto per il referendum greco) sarebbe mal visto nella Commissione Europea e in generale nell’ambito dell’apparato di potere. Forse determinerebbe una qualche turbolenza speculativa, sia per intimidire sia per guadagnarci sopra. Ma dubito profondamente che muterebbe, a breve s’intende, lo scenario politico economico in modo davvero radicale. Probabilmente diventerebbe più trasparente la grande coalizione isolando le opposizioni: la variegata e divisa sinistra parlamentare, il composito movimento delle 5 Stelle, la destra turbolenta. Fra un maggioritario temperato o un proporzionale con sbarramento poco muta. L’importante è assorbire le quote disponibili, a destra come a sinistra, facendole salire a bordo in qualche modo. Il manuale di Licio Gelli funziona sempre; è lo stesso metodo descritto nel falso della polizia zarista noto come I protocolli dei savi anziani di Sion. Il governo si costruisce l’opposizione a proprio uso e consumo.
La terza via, l’unica possibile e percorribile, è a mio avviso quella di un NO attivo (o sociale o costituente o quel che volete).
L’opzione antagonista perderebbe, ancora una volta, l’occasione di svolgere il proprio compito, tacendo. Predicando l’astensione ci si mette a posto la coscienza, coerenti nella consapevolezza della sconfitta.
Non è vero che tutto ciò sia insignificante, irrilevante, identico. Non è vero che le modifiche costituzionali, se approvate, rimarranno senza conseguenze. Fosse così non si spiegherebbe tanto clamore, tanta irruenza, tanta minaccia da parte di chi tiene già ora in mano lo scettro.
Parlare di destra popolare (impropriamente definita populismo) che rappresenta il rancore e che contiene frammenti di lotta al sistema, diciamolo francamente, è una sciocchezza, senza base teorica, senza riscontro nella realtà. Questo non significa affatto ignorare il pericoloso rafforzamento di forze politiche che si riconoscono nel nazionalismo e nella cosiddetta sovranità nazionale; ma il successo propagandistico presso la fascia povera e colpita dal finanzismo va contrastato sul piano politico e non su quello sociologico, senza flirt e senza sconti, combattendolo apertamente.
E neppure ha senso equiparare queste forze a un fenomeno completamente diverso come il movimento a 5 Stelle. A differenza di quanto avvenuto in Grecia e Spagna, in Italia la sinistra antagonista si è suicidata, alleandosi con il partito democratico e lasciando il campo ai grillini nella convinzione errata che sarebbero spariti rapidamente come erano comparsi.
Il voto NO della destra nazionalista e del movimento 5 Stelle non è dunque una ragione logica per ignorare la questione, per trascurare la scadenza referendaria; tanto meno per parificare tutte le forze contrapposte e per ricavarne l’estraneità all’esito.
Il prevalere del SI costituisce certamente una sconfitta del comune e un successo del potere finanziario.
Il prevalere del NO tiene aperto il problema, senza risolverlo. Non credo vi sia neppure il bisogno (temuto dal mio amico Franco Bifo Berardi) di una repressione a mezzo di speculazione violenta, se non in forma temporanea di avviso severo, come accaduto dopo il referendum greco. La capacità di controllo è ancora troppo forte, il movimento è ancora troppo debole. La macchina neo capitalistica è in moto, il processo di sussunzione e di messa a valore dell’esistenza collettiva certo non si fermerà. Il fronte del comune non mostra forza sufficiente di contrasto e di reazione. Ma vincere il referendum tiene aperti i giochi; o almeno contribuisce a tenerli aperti. Non solo quelli, ormai prossimi, delle elezioni politiche e dei referendum sul lavoro.
Come diceva ai lavoratori furibondi un vecchio avvocato comunista dopo la lettura di un’ordinanza interlocutoria del Tribunale: sempre meglio un rinvio che una sconfitta.