di ANTONIO NEGRI.
1. Dialettica dell’antagonismo
Chi esca dalle discussioni sulla dialettica, sviluppatesi nel cosiddetto “marxismo occidentale” degli anni ’30 e ’50-’60, avrà perfettamente presente come allora abbiano giocato in maniera complementare “Storia e coscienza di classe” di Lukàcs e il lavoro della Scuola di Francoforte.In una strana ed inattuale ibridazione, furono infatti allora prodotte una serie di descrizioni fenomenologiche e di ipotesi normative attraverso le quali vita, società e natura, egualmente investite dalla forza produttiva del capitale, ne venivano radicalmente depotenziate. La tematica dell’alienazione percorreva l’insieme del contesto teorico: vale a dire che l’intera fenomenologia dell’agire e la storicità dell’esistenza si consideravano completamente assorbite nel disegno capitalistico di sfruttamento e dalla produzione capitalistica di potere sulla vita. Demonizzata la tecnologia, la dialettica dell’Aufklaerungera così compiuta, la sussunzione della società nel capitale era definitiva. Per i rivoluzionari non restava che attendere l’evento che riaprisse la storia; per coloro che rivoluzionari non erano, non restava che adeguarsi tranquillamente al destino, Gelassenheit.
Naturalmente, a fronte di questa (talora inerme) presa di coscienza della sussunzione della società nel capitale, si davano resistenze. Nel marxismo occidentale è questo il momento nel quale, a fronte di quella conclusione, si emancipa un punto di vista critico ed emerge per la prima volta un atteggiamento etico-politico che si accompagna ad un dispositivo teorico nell’esaltare il “particolare sovversivo”. Vale a dire un atteggiamento che istituiva, pur nell’estensione massiccia del potere capitalistico sulla società, l’aprirsi di una nuova forma della dialettica. Alla dialettica disumanizzante del rapporto capitalistico di sfruttamento se ne opponeva un’altra, etica e soggettivata, che apriva il contesto sociale, nella sua totalità, alla espressione di nuove resistenze. Si affermava virtualmente il principio di una nuova figura di soggettività, meglio, di produzione di soggettività. Una dialettica aperta dalla “critica” contro la dialettica chiusa della “critica-critica”. Un punto di vista di rottura contro la placida, o sofferta, accettazione della prepotenza totalitaria del capitale nelle due forme della sua gestione, liberale (e fascista) e/o socialista (e stalinista).
E’ così che in Francia Merleau-Ponty rompe con la fenomenologia francofortese; è così che, sui margini dell’impero britannico insorge, nel rovesciamento della storiografia coloniale, quello che un po’ più tardi chiameremo il punto di vista postcoloniale; è così che, rovesciando l’ingiunzione a considerare la tecnologia un esclusivo terreno di alienazione, nasce l’ipotesi di un uso sovversivo delle macchine da parte operaia e dunque le correnti operaiste in Italia, in Francia, in Germania. La dialettica è per così dire interrotta. Ed è sullo spazio di questa interruzione, sull’ipotesi di crisi della capacità capitalistica di investire la totalità sociale, che la ricomparsa del soggetto rivoluzionario, meglio, di una libera soggettività, si propone come produzione, ovvero come espressione.
La dialettica, da astratta, si faceva concreta. La determinazione dello sviluppo dialettico si dava sulla curva storica del compimento dello sviluppo capitalistico.
C’era una preistoria a tutto questo, una breve preistoria, non del tutto inutile da ripercorrere. Essa ci riporta al rinnovamento dell’analisi che, non tanto della dialettica in generale, quanto dell’uso della dialettica nel “marxismo reale”, nella dialettica materialista codificata, si era tuttavia realizzato. Assumiamo, a proposito di questo rovesciamento e delle conseguenti istanze operative, la definizione che della dialettica era data da alcuni dei maggiori interpreti di quel periodo, nel caso che ricordiamo da Lucio Colletti, commentando Eval’d Vasil’evic Il’enkov:
“Nei suoi termini più generali, la teoria marxista della dialettica può essere enunciata come una teoria, insieme, dell’”unità” e dell’”esclusione” degli opposti, cioè come una teoria che cerca di fornire al tempo stesso, sia il momento della conoscenza (vale a dire la possibilità che i termini della opposizione o contraddizione siano presi insieme e com-presi), sia il momento della realtà o oggettività della contraddizione stessa. La teoria può riassumersi, quindi, in due esigenze o istanze fondamentali. La prima: che la specificità o differenza di un oggetto da tutti gli altri risulti com-prensibile, cioè relazionabile mentalmente a quel diverso che l’oggetto non è, ovvero a tutto quel rimanente da cui l’oggetto è diverso. La seconda: che questa comprensione non abolisca, a sua volta, la “differenza”, che la conoscenza non esaurisca in sé la realtà, cioè che la compresenza o la risoluzione degli opposti nella ragione non venga presa per la risoluzione e abolizione della loro opposizione reale.” (L. Colletti, “Prefazione” a E. V. Ilienkov, La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx, Feltrinelli, Milano, 1961, p. VII).
Non basta, nel terzo capitolo, intitolato “Il passaggio dall’astratto al concreto”, Ilienkov giunge alla conclusione: “La scienza deve muovere da ciò da cui muove la storia reale. Lo sviluppo logico delle determinazioni teoriche deve quindi esprimere il processo storico concreto del divenire e dello sviluppo dell’oggetto. La deduzione logica non è che l’espressione teorica del divenire storico reale della concretezza indagata” (pp. 155-156).
Ma non basta ancora, il Capitale è direttamente tirato dentro all’esposizione:
“Il metodo del passaggio dall’astratto al concreto consente di individuare con precisione e di esprimere astrattamente le condizioni assolutamente necessarie della possibilità dell’oggetto dato nell’intuizione. Il Capitale mostra in modo particolareggiato la necessità con cui si realizza il plusvalore, quando si abbiano una circolazione evoluta delle merci e del denaro e una libera forza-lavoro” (p. 235).
Nello stesso anno in cui era stato tradotto Ilienkov, fu tradotto in italiano un altro libro (J. C. Michaud, Teoria e storia nel Capitale di Marx, Feltrinelli, Milano, 1960) le cui proposizioni fondamentali coincidevano, talora rafforzandole, con le ipotesi di Ilienkov: “La dialettica sola non è niente, essa consente lo studio di un movimento, ma non pregiudica niente su questo stesso movimento, essa non saprebbe, da sola, costituire tutto il metodo, almeno in Marx… Non ci sembra che la dialettica sola consenta di giungere ad una conciliazione qualsiasi della teoria e della storia.” (p. 140) Subito dopo la tesi si precisa ancora: “L’economia politica diviene scienza solo all’epoca di Marx, perché solo l’universalità della produzione capitalistica è in grado di realizzare quelle categorie astratte che permettono di comprendere non solo la stessa produzione capitalistica, ma tutti i sistemi storici che l’hanno preceduta… La caratteristica del capitalismo è di realizzare l’astrazione di tutte le categorie economiche.” (p. 189). Ed essa viene poi svolgendosi in termini di estrema attualità (vi ritorneremo quando faremo l’esempio interpretando più sotto la crisi globale attuale): “La teoria del valore, se viene separata da quella del plusvalore (ciò che è impensabile per il capitalismo), si presenta come una dialettica astratta che esprime le condizioni di esistenza di ogni società abbastanza sviluppata per entrare in contatto con altre: essa non è legata a nessuna forma storica particolare della società” ma “la forma valore nella sua espressione più generale è precisamente la forma specifica che assume, in un momento preciso, il modo di produzione capitalistico” (p. 197).
Questo linguaggio è oggi quasi incomprensibile. Eppure, con qualche attenzione, si può ben comprendere cosa qui sia in gioco: nulla di meno che la ripresa di contatto con la realtà, la rottura dell’ostacolo che una dialettica materialista fossilizzata rappresentava per la lettura e la trasformazione del reale. Il grande sforzo qui presente è rappresentato dunque dal tentativo di ricondurre le categorie astratte verso la determinazione del concreto, di piegare l’universale alle determinazioni dello sviluppo storico. E’ un cammino filosofico che va di pari passo con la “destalinizzazione”. Le grandi categorie dell’analisi marxista (lavoro astratto, valore, denaro, rendita, profitto, etc.) vengono così spostate con una certa forza dal contesto teorico del materialismo ottocentesco – nel quale queste categorie erano state formulate – verso una pratica di ricerca sostanzialmente nuova. L’astrazione verrà, di qui innanzi, giustificata solo in quanto “astrazione determinata”. Determinata da che cosa? Dal fatto di essersi di volta in volta sottoposta non solo all’analisi delle contraddizioni generiche che attraversano ogni categoria, ma anche all’analisi delle determinazioni concrete, scientifiche, pratiche, dell’agire politico. Da questo punto di vista, non v’è dubbio che l’ultima fase del discorso teorico marxista (nella Russia della destalinizzazione ma anche in occidente dentro e fuori dai partiti comunisti) conducevano l’analisi dello sviluppo capitalistico più avanti di quello che la scuola di Francoforte, o il perdurante lukacsismo producevano.
Nel ’68 lo scontro tra queste tendenze fu tuttavia fatale: invece di rasserenarsi, in questa occasione rivoluzionaria, l’orizzonte teorico si separò definitivamente ed alla sconfitta dei movimenti seguirono da un lato l’assolutizzazione delle dialettiche della sussunzione reale, dell’alienazione, dell’unilateralità del dominio capitalistico, e l’utopia dell’esplodere dell’”evento”, da Debord fino alle risultanze finali dell’althusserismo, a Badiou; dall’altro si aprì invece quella battaglia sulle tematiche della differenza, della resistenza e della soggettivazione che, se trasformarono e spinsero avanti l’approfondimento teorico dello sviluppo del capitalismo ed i dispositivi della resistenza politico, non riuscirono tuttavia a ricomporre e a dispiegare una prospettiva comunista. Nel tentativo di avanzare su questo terreno, noi ci collochiamo tuttavia su quest’ultimo fronte del materialismo. Sembra infatti che qui una dialettica dell’antagonismo la si possa in qualche maniera rifondare.
2. Materialismo come biopolitica
Nella fase cui abbiamo fatto riferimento, la dialettica dunque si riapre: se da un lato si affida ad un orizzonte sul quale l’evento rivoluzionario è un Aufhebung, dall’altro essa, rifiutando ogni aura evenemenziale o mistica, si presenta come esperienza costituente. Fino a che punto si potrà ancora chiamare “dialettica” quel metodo che rendeva l’astrazione sempre più concreta, singolare appunto; e l’antagonismo di forze produttive e rapporti di produzione, ormai insolubile nel pensiero ed insuperabile nella storia; e la tendenza storica, aleatoria, e la verità definitivamente affidata alla pratica; ed infine l’effettività della produzione di soggettività, sempre più virtuale? E’ difficile rispondere a questa domanda.
Tanto più difficile quando si consideri che l’astrazione categoriale, fissandosi ora nelle nuove figure della determinazione storica, proponeva al metodo (in quest’ultima fase, di fronte alla sperimentazione di una trasformazione epocale dello sviluppo capitalistico) una serie di concetti che traducevano la fenomenologia dello sviluppo capitalistico entro figure e dispositivi del tutto nuovi. La sequenza, per esempio, lavoro astratto-valore-denaro-etc. si trovava contratta in una figura del capitale finanziario del tutto nuova; il processo di sussunzione reale, ovvero il passaggio dalla produzione di merci al controllo sulla vita messa al lavoro, la costruzione del Welfare State da un lato e dall’altro la consistenza istituzionale del “socialismo reale” presentavano il capitale come biopotere; infine la trasformazione della legge del valore (quando cioè alla misura temporale del lavoro si sostituivano la potenza della cooperazione, e i dispositivi della circolazione, dei servizi produttivi e della comunicazione, etc. come agenti della valorizzazione capitalistica) dava luogo ad una sorta di “comunismo del capitale”.
Ora, l’analisi segue le trasformazioni del lavoro vivo: sembra tuttavia che le categorie del potere con le quali essa si scontra, non abbiano più quella duttilità dialettica, a fronte dell’antagonismo sociale, che il vecchio materialismo sempre loro offriva. La compattezza delle categorie del biopotere sembra escludere ogni rottura. A questo punto, in questo caso, la dialettica (quella vecchia dialettica rispetto alla quale già le resistenze che abbiamo descritto, si erano sviluppate) sembra piuttosto essere ridotta ad apologia del capitale. Che cosa resta più allora della dialettica? E’ sufficiente quella riforma interna che abbiamo più sopra sottolineato (e cioè l’insistenza sulla determinazione dell’astrazione, l’assunzione di un punto di vista particolare contro la sussunzione reale della società nel capitale, etc.) – sono sufficienti quella riforma interna, quello spostamento d’accento, a ricostruire la dialettica come efficace metodo di ricerca? Probabilmente no. Perché, se sicuramente la dialettica non riusciva più a presentarsi come “metodo di esposizione”, ciò non avveniva solo perché essa era entrata in crisi come “metodo di ricerca”, ma perché l’ontologia stessa del materialismo era mutata. Il materialismo oggi è il contesto biopolitico.
Bisognava non più semplicemente inseguire il passaggio dall’astrazione alla determinazione ma muoversi all’interno della determinazione. E’ quanto avviene soprattutto quando la legge del valore/lavoro viene messa in crisi. La legge del valore funzionava come definizione di misura dello sfruttamento, vale a dire dell’appropriazione capitalistica del pluslavoro. Ma ora si comincia a intendere, sviluppando l’analisi sulle trasformazioni che lo sfruttamento del lavoro aveva subito, sul nuovo rapporto tra produzione e riproduzione – insomma, penetrando in quel complesso che il capitale aveva formato chiudendo su se stesso man mano le leggi della dialettica, imponendo la compresenza degli opposti, realizzandoAufhebungen successive – si comincia dunque ad intendere come dentro questo contesto (che ripete in maniera selvaggia modi dell’accumulazione primitiva) si realizzi ormai una potenza di sfruttamento che non riguarda più le figure dell’espropriazione del lavoro singolo (quand’anche massificato) ma l’espropriazione del comune.
La scoperta del comune, come base a partire dalla quale riqualificare un’eventuale proposta politica comunista, ha un percorso frastagliato ma continuo – a partire dalle analisi che studiano le riforme capitalistiche dell’accumulazione dopo il ’68. Il progressivo passaggio del comando capitalistico dalla fabbrica (l’organizzazione fordista dell’industria e la disciplina sulla massa operaia taylorizzata) allo sfruttamento della società intera (attraverso l’egemonia sul lavoro immateriale, l’organizzazione del lavoro cognitivo ed il controllo finanziario) determina nella cooperazione, nei linguaggi, nelle relazioni comuni (che rilevano dalle cosiddette “esternalità sociali”) la nuova base su cui opera lo sfruttamento.
Se questo è vero, non si tratta più, a questo punto, di inseguire la dialettica nella sua capacità di ricostruire l’unità dello sviluppo, quali che fossero i suoi contenuti. Se il “comune” qualifica il lavoro vivo come base tendenza del suo presentarsi sulla scena della produzione, di conseguenza, l’antagonismo si darà ormai esso stesso come base e come tendenza insuperabili. Quindi come indebolimento radicale di ogni dialettica di “compresenza degli opposti” o forse, molto più probabilmente, come impossibilità di ogni soluzione “universale” degli opposti. E, cioè, il capitale non ha più la possibilità di riforma interna, è ormai confrontato a nuove figure di lotta di classe. Di fatto, nelle nuove condizioni dell’accumulazione, il comune si oppone ad ogni appropriazione universale, ad ogni mediazione dialettica, ad ogni definitiva inclusione istituzionale. La crisi è dappertutto. L’antagonismo non è più un metodo ma un dato: l’uno, in realtà, si è diviso in due.
Facciamo un solo esempio, cercando di interpretare la crisi economica globale attuale. Molte sono le letture che se ne sono fatte. In ogni caso, venissero da destra o da sinistra, le ragioni della crisi, erano riportate al distacco tra finanza e “produzione reale”. Se si assumono quei nuovi presupposti di cui fin qui abbiamo parlato, che fanno capo alla constatazione di crisi della teoria del valore-lavoro, ed all’emergenza di una nuova qualità “comune” del lavoro vivo, qui s’insisterà allora sul fatto che la finanziarizzazione dell’economia globale non è una deviazione improduttiva o parassitaria di quote crescenti di plusvalore e di risparmio collettivo, bensì la nuova forma di accumulazione del capitale, simmetrica ai nuovi processi di produzione sociale e cognitiva del valore. La crisi finanziaria odierna va quindi interpretata come “blocco” dell’accumulazione di capitale piuttosto che come esito implosivo di mancata accumulazione di capitale.
Come si esce dalla crisi? Questa è la questione attorno alla quale si afferma ancora la nuova scienza non più “dialettica” ma semplicemente antagonista. Dalla crisi economica si può uscire solo attraverso una rivoluzione sociale. Oggi infatti ogni New Deal proponibile non può consistere che nel costruire nuovi diritti di proprietà sociale di beni comuni, un diritto che con tutta evidenza si sta contrapponendo al diritto di proprietà privata. In altre parole, se fino ad oggi l’accesso a un bene comune ha preso la forma del “debito privato” (ed è proprio sull’accumulazione di questo debito che la crisi è esplosa), da oggi in poi è legittimo rivendicare il medesimo diritto nella forma della “rendita sociale”. Far riconoscere questi diritti comuni è insieme l’unica e la giusta via per uscire dalla crisi.
3. Dalla rappresentazione all’espressione
Ritorniamo ora all’affermazione che “l’uno si è diviso in due”. Abbiamo già visto le conseguenze che se ne possono tirare quando si interpreti la crisi attuale. Ma cerchiamo di vedere più da vicino l’intera faccenda.
Se affrontiamo la spiegazione dell’”uno si è diviso in due” da un punto di vista induttivo, genealogico, potremmo infatti prima di tutto notare che questa apertura della relazione dialettica di capitale è innanzitutto dovuta all’eccedenza biopolitica del lavoro vivo, quando esso si esprima nelle figure della produttività cognitiva ed immateriale. In questo caso, la chiusura del rapporto tra capitale costante e capitale variabile risulta inoperabile dal punto di vista capitalistico. Il lavoro cognitivo, ed in generale ogni lavoro immateriale (comunicativo, terziario, affettivo, etc.) che si realizzi nella sfera biopolitica, non può essere completamente consumato, nei processi dello sfruttamento capitalistico: esso non costituisce solo, davanti allo sfruttamento, cumuli di residui valorizzanti (di capitale costante) ma alternative di espressione, di sviluppo, insomma dispositivi di esodo. E’ qui che si rivelano le caratteristiche della nuova epoca della produzione capitalistica, come epoca di crisi, come epoca di transizione fuori dalla continuità dello sviluppo capitalistico.
Caratteristiche di questa fuoriuscita dallo sviluppo capitalistico non sono solo le difficoltà che i dispositivi dialettici (ormai definitivamente affidati al capitale) trovano nel chiudere i processi produttivi; lo sono anche le difficoltà che trovano i movimenti ciclici dello sviluppo capitalistico a ripetersi, a nutrirsi l’un l’altro tra le fasi di sviluppo e quelle di recessione, ad inserire dentro questo passaggio momenti di innovazione tecnologica e nuova organizzazione dei rapporti sociali. Si potrà dunque qui aggiungere, che ogni omologia fra assetti e configurazioni istituzionali del potere capitalistico e, di contro, movimenti proletari o multitudinari, nella loro specifica potenza, sta venendo meno. E se taluni filosofi (comunisti) ritengono che nella spontaneità e nelle libere dinamiche dei movimenti non si diano elementi di rottura sostanziale rispetto alle istituzioni e che permangano comunque le gabbie (economiche e politiche) del potere capitalistico, si sbagliano (e sono miopi nelle loro considerazioni) perché essi non comprendono che ogni isomorfismo di potere e potenza, di comando e di resistenza è ormai venuto meno. Non tanto e non solo perché fenomenologicamente queste relazioni non possono essere logicamente descritte, ma perché, anche quando lo fossero, queste relazioni sono sottratte all’egemonia dell’Uno e piuttosto legate alle dinamiche alternative ed all’esodo della moltitudine.
Resta di dire che spesso le dinamiche dell’esodo della moltitudine rispetto al comando capitalistico (e dalle sue strutture in crisi nella sussunzione reale) non sono riconosciute perché ci si illude di poter purificare e di immaginare i movimenti proletari “fuori” dalle connessioni reali del processo storico. Come se la liberazione, la rottura, le trasformazioni biopolitiche, pur sviluppandosi all’interno della sussunzione della società nei biopoteri istituzionali e politici, potessero insorgere come eventi incontaminati dalla materialità nella quale sono immersi. No, la rottura con il capitalismo, con il comando, con i biopoteri avviene “dentro” il mondo dei valori di scambio, dentro il mondo delle merci… non è immaginabile un fuori che non sia costruito sulla base di questa rottura. E poiché fin qui siamo venuti parlando del “comune” come dell’ambito nel quale si costruisce valore e che, proprio per questo, viene direttamente sfruttato dal capitale, diciamo allora che l’unico evento, l’unico “valore d’uso” che possa essere recuperato all’interno dei processi di liberazione come potenza contrapposta al potere, come potere costituente alternativo al potere costituito, è proprio quel “comune” da cui ci si muove, di cui si è insieme gli agenti ed il prodotto.
Per finire. E’ dunque fuori dubbio che la contaminazione fra le determinazioni di resistenza che sono state prodotte nel pensiero e nell’esperienza politica di Deleuze-Guattari e il senso storico di produzione di soggettività che è soprattutto leggibile nell’ultima fase del pensiero di Foucault, non possa neppure essere riportato a questa nuova “dialettica”: esso non ha più nulla a che fare con la cosiddetta “dialettica materialista” (Diamat) ma ha tutto a che fare con l’eccedenza biopolitica, cognitiva, immateriale, e con una produzione che è interna al processo biopolitico di costituzione del reale. Mi sia permesso qui ricordare quello che Deleuze risponde ad una mia domanda, su cosa voglia dire essere materialisti e comunisti (si può leggere nei Pourparler): “che il comunismo è la produzione di un popolo a venire…” Ciò detto, ed avendo insistito quanto si deve sull’“a-venire”, ascoltiamo tuttavia nel dispositivo deleuziano, quel medesimo ritmo (potremmo chiamarlo dialettico) che è proprio di Marx e di Engels quando scrivono il Manifesto dei comunisti, o di Marx quando riprende nei suoi scritti di storia della lotta di classe, quella storicità che ha fondamento nell’opera di Machiavelli e di Spinoza.
Recentemente si è cercato di recuperare Hegel, soprattutto l’Hegel giovane, da Jena fino allaFenomenologia dello Spirito, ed alle Aggiunte della Rechtsphilosophie (Honneth) per ricostruire una dialettica aperta, che sorgesse dal basso, che si strutturasse in termini di interattività e di intersoggettività, e che avesse comunque la capacità di configurare una teoria normativa, storicamente solida della giustizia. Si tratta della ripetizione d’infiniti tentativi di recuperare la dialettica, insieme, come metodo di ricerca e come forma di esposizione. Ma qui sta la difficoltà: ed è che la dialettica non può evitare di costituirsi come “rappresentazione” dell’insieme del processo che conduce all’affermazione di verità, laddove nella situazione attuale di crisi dello sviluppo capitalistico e delle sue forme culturali e istituzionali, la parola non può che essere rinviata alla capacità di “espressione” dei soggetti. Il comune non si costituisce come rappresentazione ma come espressione. E qui la dialettica termina.
Non dimentichiamo tuttavia che se la dialettica, come ben ci ha insegnato G. Lukàcs, è l’arma teorica del capitale per lo sviluppo e l’organizzazione della società, se quindi la sua crisi apre all’espressione di nuove esigenze teoriche nella costruzione di una filosofia del presente – queste ultime debbano comunque assumere l’attività produttiva come sorgente di ogni configurazione sociale. Il lavoro vivo e l’attività umana sul terreno biopolitico stanno alla base di ogni soggettivazione. La nuova costituzione del comune, non più dialettica ma materialista, è articolata da dispositivi soggettivi, dal desiderio di sfuggire la solitudine e di realizzare moltitudini.
* Mosca giugno 2009