di ALISA DEL RE
(versione italiana del saggio “CollectiveSpaces” che appare in Viewpoint Magazine Issue 5: Social Reproduction)
Attraverso alcuni “appunti” vorrei connettere la necessità di riformulare e chiarire il concetto di riproduzione sociale degli individui associandolo alla necessità di produrre nelle città dello spazio comune perché questo si possa realizzare. Pensare ad uno spazio veramente pubblico e veramente relazionale in cui si possa attivare una visione di genere dei rapporti sociali, associando i saperi “alti” alle pratiche di resistenza sperimentate nella crisi.
1) Cosa si intende per “riproduzione sociale”? La riproduzione degli individui è sociale perché comandata o controllata, in un continuo scivolamento tra pubblico e privato.
Intendo parlare della riproduzione degli individui in una società data. Riproduzione sociale contrapposta a individuale, pubblica contrapposta a privata, comandata e sottoposta a regole piuttosto che libera nelle scelte, produttrice di solitudini e frustrazioni al posto di gioiose cooperazioni.
Nelle società occidentali1 la riproduzione degli individui è sottoposta ad un’oscillazione costante tra il sociale e il privato, con il sociale che si presenta sotto forma di comando diretto, organizzato da leggi, dalla spesa pubblica, da costumi, da regole morali, che appiattiscono i desideri e un privato volgarmente idealizzato come spazio di libertà, ma che si svela essere nella gran parte dei casi abbandono, miseria, frustrazione, impotenza, solitudine.
La forma sociale della riproduzione degli individui non è solo il welfare (che nella fase fordista ha funzionato come controllo sulla riproduzione della forza lavoro e oggi è solo l’ombra di una spesa statale ormai ridotta a poca cosa) ma è anche l’insieme delle visioni che le società hanno del rapporto sociale tra i sessi e dello sviluppo, della crescita e della formazione delle persone. Nella narrazione neo-liberista gli individui sono senza legami né dipendenze, liberi nelle scelte di vita, capaci di trovare da soli equilibri riproduttivi, entro quadri normativi comunque rigidi. Ovviamente tutto ciò nasconde un ripiegamento nel privato che stabilisce nuove gerarchie tra i sessi, e non solo, anche tra nativi e immigrati, oltre che tra le classi.
Il mio punto di vista, un punto di vista femminista, è che la riproduzione degli individui è interamente sociale, perché sottoposta ad un comando o a un controllo della società o dello Stato, anche se non sempre appare come tale. E questo comando-controllo si esercita sul lavoro attribuito storicamente alle donne, retribuito nei lavori servili o gratuito nei lavori “d’amore”.2
Nella crisi che stiamo vivendo in Europa la forma della riproduzione sociale attuale non è più sostenibile e necessita di forti e innovative sperimentazioni, anche se spesso quelle attivate possono sembrare problematiche. A partire da una ri-considerazione della riproduzione come “tutta sociale” da parte di tutti, possiamo immaginare forme di cooperazione con inediti sviluppi e articolazioni tra libertà di scelte e conforto di condivisione, progetti di welfare e lotte per ottenere socializzazioni almeno della parte materiale della riproduzione.
2) La riproduzione biologica è riproduzione sociale
La riproduzione degli individui può avere diverse connotazioni: biologica, materiale, affettiva, culturale, relazionale. E’ ovvio che tutti questi aspetti sono generati da un sociale storicamente determinato e contemporaneamente lo caratterizzano. La connotazione primaria, quella che concerne la riproduzione della specie, che riguarda il fare materialmente figli, il riprodurre fisicamente gli individui, sembra staccarsi, per i suoi fondamenti meramente biologici, dal “sociale” e restare un fatto privato, una scelta d’amore e di libertà, oggi più che mai per le possibilità contraccettive e abortive conquistate dalle donne in molti paesi. Ma sono proprio queste possibilità di scelta che determinano il carattere sociale della riproduzione biologica, resa “libera” da leggi talvolta limitanti, talvolta scarsamente applicate, spesso con clausole restrittive. Perché le scelte che attribuiamo alla volontà individuale sono molto più condizionate di quanto si creda, basta per questo percorrere la strada delle lotte delle donne nella seconda metà del novecento. Anche se interventi demografici premiali nei paesi a regime fortemente conservatore e a difesa della “razza” (come l’Italia, e la Germania, ma anche la Francia, negli anni ’30) non hanno funzionato, o molto poco, ci sono costrizioni meno visibili in situazioni in cui la libera scelta delle donne sembra un fatto acquisito: le leggi sull’interruzione volontaria di gravidanza possono essere disattese dalla diffusione dell’obiezione di coscienza tra i medici e i paramedici o dalla chiusura delle cliniche in cui si praticano aborti; le pressioni culturali da parte degli apparati religiosi verso una generica difesa della vita possono creare ostacoli alle decisioni consapevoli; le condizioni di vita e di lavoro possono essere poco favorevoli a scelte riproduttive; una generale riduzione della spesa pubblica e dei servizi sociali incide fortemente sulla decisione individuale di far nascere dei figli. Non a caso sembra sempre più acquisito e diffuso un riconoscimento di famiglie non tradizionali, dalle famiglie ricomposte fino alle famiglie omosessuali, che garantiscono una riproduzione biologico-sociale moderna ma inquadrata nei parametri conosciuti e rispettati della “famiglia” per garantire alla riproduzione biologica e non biologica un quadro normativo socialmente determinato.
Le pratiche abortive e contraccettive, intese come pratiche di libertà dei corpi femminili, di libertà delle scelte di vita e dei tempi e modi della riproduzione, sono invece controllate e spesso subiscono forti inversioni di legittimità. L’applicazione di un controllo sociale sulla sessualità delle donne, praticata da sempre nella storia dell’umanità, ha generato nell’epoca contemporanea forti scontri a livello internazionale e spesso sentenze giudiziali condannanti la “libertà sessuale” delle donne in caso di stupri e violenze.3
Ecco come la riproduzione biologica viene condizionata da strutture sociali e ne risulta dipendente. E’ molto difficile quindi separarla da ciò che chiamiamo comunemente riproduzione sociale, come risulta difficile separarla dalla politica e dal potere delle classi dominanti.
3) La riproduzione materiale, cioè storicamente il lavoro non pagato delle donne, parzialmente socializzata dal welfare fordista, nella crisi viene privatizzata e ritorna nelle case.
Il capitalismo ha da sempre considerato la “cura” un lavoro. Infatti i capitalisti lo hanno salariato (bonnes, serve, nutrici, maggiordomi, camerieri, ecc.) anche se sottopagato e reso strutturale da legami di dipendenza, affetto, appartenenza.4 Considerato naturale nella divisione sessuale del lavoro e nella sottomissione finanziaria domestica delle donne, non solo dalla borghesia ma anche da larghi strati della classe operaia fordista, ha fortemente determinato nel ‘900 le faticose lotte per l’emancipazione dei movimenti femministi.
Il femminismo marxista degli anni ’70 definendo il lavoro domestico un lavoro ha semplicemente svelato la parte mistificata di questo lavoro, mistificata dall’affetto, dall’amore, dallo status, dalla ricerca sociale di un ruolo codificato e predefinito, includendolo come base delle componenti dell’accumulazione capitalistica.5)
Alcune sezioni di questo lavoro sono state socializzate da un welfare strettamente connesso al lavoro salariato, ma nella crisi la spesa pubblica destinata alle persone dipendenti è drasticamente diminuita in Europa e di conseguenza ci si è avviati verso forme sempre più cogenti di privatizzazione. L’organizzazione sociale, familista, con servizi ridotti al minimo e inadeguati, è affidata alla supplenza alle donne, che sono diventate dei service provider gratuiti, per cui tutte le attività di cura, dei figli, degli anziani, dei malati sono state caricate sulle loro spalle.
Dato per acquisito quindi che la maggior parte del lavoro di riproduzione, gratuito o salariato al ribasso, sia stato e sia ancora tra i fondamenti dell’accumulazione capitalistica, oggi, accanto all’aumento del lavoro gratuito ricacciato nelle case, si opera una nuova organizzazione della riproduzione a salario minimo e a sfruttamento integrale, in maniera selettiva e divisoria, tra native-padrone e migranti-lavoratrici. Non è più il welfare, è la privatizzazione che riguarda anche gli strati meno abbienti della popolazione perché i bisogni delle persone dipendenti sono assoluti e non possono essere accantonati.
Le donne rappresentano circa la metà dei flussi migratori internazionali secondo il rapporto stilato nel 2013 dalla Divisione Popolazione delle Nazioni Unite.6 Esse sono ricercate all’interno di nicchie occupazionali molto specifiche: babysitter, collaboratrici domestiche, assistenti per persone anziane, infermiere o prostitute che accompagnano i migranti nel loro viaggio: tutti lavori che riguardano la riproduzione degli individui.
Anche se in possesso di un titolo professionalmente qualificante, sono considerate specializzate nei lavori del settore della cura alla persona e nei lavori domestici, considerati tipicamente femminili e sottopagati, isolate all’interno delle abitazioni dei loro datori o datrici di lavoro.
A cioè si aggiunge, almeno in Europa, un ulteriore elemento che riguarda le famiglie d’origine delle migranti europee, di solito romene o moldave, donne che si lasciano alle spalle in patria una famiglia in cui la madre è assente e altre lavoratrici, provenienti dall’Ucraina o dalla Bielorussia, vengono a volte a dar loro il cambio nelle attività di cura dei più giovani e dei più anziani. Una catena migratoria internazionale dentro il mercato del lavoro della riproduzione.
Anche questo aspetto riguarda la riproduzione materiale degli individui che, benché privatizzata, ha forti connotazioni sociali di stratificazione di comando e di sfruttamento della povertà
4) Le politiche di conciliazione e di condivisione non coinvolgono in egual misura i due sessi e in ogni caso non risolvono il problema perché indirizzate solo a salariati/e. La crisi genera povertà di beni e di relazioni, ma produce anche forme di cooperazione sociale non dipendenti dallo stato.
Le lotte dei movimenti delle donne continuano a chiedere la socializzazione di alcune sezioni della riproduzione degli individui (come la cura dei figli o delle persone anziane) ma non è all’ordine del giorno in nessuno stato un aumento della spesa sociale in servizi o in organizzazione della cura. A livello europeo ci si è orientati piuttosto verso una privatizzazione della cura attraverso congedi, sempre e solo per i salariati. Questi congedi tradizionalmente tendono a esser visti e analizzati da una prospettiva che considera le donne le principali caregiver, prestando minor attenzione alla situazione dei padri o dei figli adulti di anziani dipendenti. Le risposte più progressiste, come la direttiva 2010/18/UE dell’Unione Europea, vanno al massimo verso una condivisione gender neutral della cura, attivando, in presenza di figli, ma non in presenza di adulti o anziani bisognosi di cura, dei congedi parentali usufruibili da genitori che hanno un lavoro salariato (ma che nel concreto vengono utilizzati nella maggior parte dalle madri, in quanto il loro salario generalmente inferiore a quello dei padri è compatibile con le riduzioni percentuali previste nei singoli stati. Nel sud dell’Europa funziona anche lo stigma culturale contro una paternità “di cura”). Meno fortuna invece sembra avere il più interessante congedo di paternità obbligatorio, parallelo al congedo di maternità obbligatorio per le madri, che viene applicato in diversi stati europei con solo qualche giorno di assenza dal lavoro. Ma ripetiamo, in ogni caso questo ed altri interventi sono rivolti solo a lavoratori/trici salariate/i.
Oggi la situazione può essere sintetizzata così: il lavoro salariato dipendente nelle sue forme tradizionali che garantivano il legame con la spesa pubblica (e per la quale il progetto marshalliano di cittadinanza sociale costruita attraverso la piena occupazione avrebbe dovuto consentire finanziamenti costanti) è in via di estinzione.7 L’impoverimento di vaste aree delle popolazioni europee dovuto a disoccupazione (stimata a 28 milioni di disoccupati europei, in particolare disoccupazione giovanile) vede senza sostegni sociali la vasta area delle persone dipendenti.
La sofferenza è aumentata, e le conseguenze sono state l’incremento considerevole delle spese private – per esempio nella sanità, o per le badanti (che si stimano in 700 mila in Italia, a una media di 920 euro mensili: quasi un decimo della spesa sanitaria!) – e soprattutto l’impegno ancora maggiore delle famiglie (vuol dire per lo più di figlie, madri e nonne) che si prendono cura di anziani e disabili, dei bambini e di tutti coloro che ne hanno bisogno, compresi gli stessi giovani disoccupati o con lavori precari.8)
L’ideologia neoliberale esalta le responsabilità di ciascuno e ciascuna rispetto alle scelte e ai rischi della vita. Oggi un buon cittadino è colui o colei che fa da sé (questo si coniuga con la privatizzazione dei servizi e risorse prima pubblici). Si esalta il primato dell’individuo su qualsiasi forma di aggregazione sociale.
Il cosiddetto neoliberismo, in effetti, vuole “liberare” il capitale da ogni responsabilità nei confronti della riproduzione della forza lavoro, vuole cancellare i residui della politica keynesiana, che tuttora impegnano lo Stato a garantire (anche se sempre meno) certi livelli di riproduzione.
Ma noi donne sappiamo per esperienza che nessuno è mai autonomo nella vita, da bambino, da vecchio, da malato, da maschio, da femmina, da lavoratore, da disoccupato. Infatti la riproduzione degli individui sta alla base dei rapporti sociali, economici e politici e rappresenta l’unico frame sensato della convivenza.
La base concreta da cui partire è pensare gli individui con i loro corpi, pensare noi stessi/stesse come persone dipendenti, fuggendo dall’astrazione liberale dell’individuo autonomo (individuo e non soggetto).
In questi tempi di crisi la povertà dei mezzi produce forme inedite di cooperazione riproduttiva con generosi interventi di volontariato, che però tendono spesso a sostituire gratuitamente le carenze dello stato sociale, a socializzare i costi della riproduzione. Anche la riproduzione materiale, impoverita dalla crisi, spesso si articola in forme cooperative (come i gruppi di acquisto solidale, il co-housing, il car sharing, i mercatini di scambio dell’usato, le banche del tempo, gli orti comunali, le cooperative di badanti di condominio, le cliniche sociali).
Due esempi paradigmatici di stati europei, la Spagna e la Grecia, offrono soluzioni di resistenza alla crisi in termini di riproduzione sociale, come i servizi sanitari offerti da medici volontari o le farmacie con la distribuzione gratuita di farmaci ai non abbienti in Grecia o la PAH (la piattaforma anti-espulsioni immobiliari lanciata nel 2009 in Catalogna) che ha saputo allargare tale esperienza e la sua forza di trasformazione al di là della rete di attivisti. Con la PAH, tocchiamo la questione della casa, dell’habitat, della sopravvivenza, della vulnerabilità del corpo. La PAH ha saputo organizzare la vulnerabilità per trasformarla in azione politica. In Grecia e in Spagna sono state mobilizzate le classi medie impoverite, precarizzate dalle crisi successiva al 2008, i corpi sono usciti per le strade, e le città intere sono state ripoliticizzate dalla loro presenza.
Creando forme di riproduzione alternative al mercato e ai servizi pubblici gestiti dallo Stato, sempre più evanescenti, spesso si risolvono situazioni contingenti, ma ci si può chiedere se questi interventi possono produrre forme di aggregazione sociale di più ampio respiro.
5) Queste forme di socializzazione possono sostituire il welfare? Indubbiamente vi sono delle ambiguità, spesso non sono trasferibili o investono un piccolo settore sia geografico che sociale, spesso sono utilizzate per colmare le carenze dell’intervento pubblico, ma molte progettualità innovative stanno emergendo.
E’ interessante vedere come la centralità dell’autonomia e delle capacità produttive e cooperative presenti nel tessuto sociale vengono spesso esaltate e vanno a sostituire le carenze dell’intervento pubblico. Infatti una forte ambivalenza caratterizza sia il volontariato sociale che le forme cooperative no profit relative alla riproduzione degli individui. Se da un lato costituiscono straordinari dispositivi di soggettivazione, dall’altro sembrano perfettamente compatibili con le politiche di austerità in quanto strumenti di socializzazione dei costi di riproduzione. Non a caso da parte dei governi locali sempre di più si fa ricorso nelle emergenze al volontariato sociale e alla cooperazione. C’è il rischio concreto che le attività di riproduzione messe in comune diventino solo strumenti di gestione della povertà invece che dispositivi di riappropriazione della ricchezza.
A partire dell’evidenza che i movimenti di contestazione, anche quelli più radicali, sempre meno si esprimono solo con un rifiuto, uno sdegno, un’accusa, e che invece diventano sempre più propositivi indicando altre soluzioni ai problemi,9 le forme organizzative sembrano assumere i tratti di organizzazioni del comune, cioè di forme di produzione e riproduzione della vita alternative al mercato e allo Stato, o spesso come soluzione ibrida, tra stato, mercato e innovazione contenutistica. L’elaborazione di strumenti di socializzazione dei costi di riproduzione consente di immaginare un’area intermedia tra pubblico e privato che reinserisce i corpi e le loro necessità, corpi estromessi dalla politica e dalla democrazia formale.
Per quanto riguarda la riproduzione degli individui il “comune” è una realtà in gran parte da costruire, possiamo intravederne solo alcuni elementi, e i progetti sono su scala limitata, spesso motivati da necessità di sopravvivenza. Uno degli obiettivi da perseguire è la possibilità di rompere l’isolamento in cui il lavoro di riproduzione oggi è organizzato, isolamento che riguarda soprattutto le donne e diventa drammatico in presenza di persone dipendenti, bambini, vecchi, malati.
Pur tentando di evitare l’enfasi sulla praticabilità dell’estensione delle nuove forme di socializzazione della riproduzione e pur tenendo presente le difficoltà di inventare nuove forme relazionali nella riproduzione degli individui, si può rilevare come spesso si realizzi e si consolidi in questi primi esperimenti un desiderio di comunità e una rinnovata produzione di rapporti sociali e di cambiamento.
Nancy Fraser afferma che oggi una prospettiva originariamente finalizzata a democratizzare lo stato, responsabilizzando i cittadini, viene impiegata per legittimare la mercificazione e il disgregarsi dello stato sociale. Ma le prospettive rappresentate dal femminismo solidale potrebbero essere ancora utilizzate. La crisi attuale offre la possibilità di ampliare ancora di più quell’impostazione, ricollegando il sogno di liberazione della donna con la visione di una società solidale. In primo luogo, si dovrebbe rompere il falso legame tra la critica al “salario familiare” e ciò che sono diventati gli attuali approdi del capitalismo del lavoro precario, combattendo per una forma di vita che non metta al centro il lavoro di scambio ma valorizzi le attività che producono valore d’uso, tra cui – ma non solo – il lavoro di cura. In secondo luogo, scindere drasticamente il lavoro dalla buona vita, statuendo la fine di qualsiasi modello di Workfare, già preannunciata da alcuni movimenti delle donne.10
In effetti sia le femministe liberali che le femministe socialiste hanno sottoscritto la svalutazione tipicamente capitalistica del lavoro di riproduzione, abbracciando come unica via di emancipazione il lavoro salariato e la partecipazione alla sfera pubblica, proprio nel momento in cui era oggetto di una grande rifiuto da parte di lavoratori maschi e femmine in tutto il mondo. Hanno abbandonato il terreno della riproduzione come terreno di lotta, accettando in pratica la sua svalutazione e la sua invisibilità come lavoro, nell’ipotesi che, una volta pienamente integrate nel mercato del lavoro salariato, le donne avrebbero avuto un maggiore potere sociale.11
Mentre le femministe della differenza hanno considerato il lavoro di riproduzione come se fosse incarnato nelle donne, dimenticandone le condizioni di sfruttamento e facendone una condizione essenzialista.
Definendo il lavoro di riproduzione come lavoro fondamentale per l’accumulazione capitalista il femminismo marxista ha posto le basi per pensare ad un capovolgimento verso una socializzazione che può rivoluzionare le attuali condizioni di sfruttamento neoliberista, centrando la materialità della sopravvivenza. I corpi sessuati per sopravvivere e riprodursi devono mettersi in relazione. Gli individui non si sviluppano né vivono e producono in solitudine. Le relazioni coatte legate a strutture rigide di rapporti sono state stravolte nella seconda metà del novecento dalla forza di movimenti antiautoritari, corrispondevano alla fabbrica con comando rigido e verticistico. La fabbrica diffusa, il lavoro incorporato nella vita, si riappropriano delle libertà dal comando, riassumendolo in un’istanza superiore. Le relazioni si articolano nelle distanze, si fanno eteree, non corporee, la comunicazione anche se gode del suono della voce o della mimica facciale sta diventando incorporea, bidimensionale. Diventa necessario ritrovare elementi di comunità materiale anche nella riproduzione degli individui.
6) La riproduzione degli individui può trovare nuovi parametri intrinseci alla propria trasformazione, con innovazioni radicali in termini di contenuti. Se non terrà conto delle persone dipendenti e della cura necessaria, dei corpi e delle relazioni, si continuerà a produrre forme di socializzazione tragicamente diseguali.
La riproduzione degli individui non è solo materiale, c’è anche un “lavoro d’amore” necessario, un lavoro di relazione che l’individualizzazione del neo liberismo ha azzerato. Mi chiedo se si possano cogliere, nella tendenza della difesa dei beni comuni e della “messa in comune” della riproduzione materiale, alcune possibilità che oltrepassino la valenza resistenziale arricchendola di nuove potenzialità relazionali. Questo renderebbe più problematica e meno meccanica una pratica di riproduzione sociale. E soprattutto richiederebbe modificazioni sostanziali nella formazione dei saperi che investono le trasformazioni, il rapporto con la politica e l’articolazione delle pratiche.
L’attenzione maggiore deve essere posta alla dipendenza, a chi è bambino, vecchio, malato, povero, relazioni che non possono essere gestite sull’emergenza né con la buona volontà. A partire dalla presa in conto di questi soggetti diventa più attuabile un reale cambiamento della riproduzione sociale degli individui.
Si tratta di costruire progetti ambiziosi, mettendo in relazione i saperi alti con gli utilizzatori di questi saperi, per un cambiamento. Cambiamento delle relazioni, ma anche cambiamento dei contenuti nel rapporto potere-sapere.
Vi sono esempi di riflessioni e di proposte che possono articolare la progettualità di una nuova riproduzione sociale rispettosa dei rapporti tra i sessi, della presenza dei corpi deboli e dipendenti, della congiunzione tra saperi forti e bisogni degli individui: la casa, la città (l’urbanistica), i beni comuni, la salute.
Si tratta di attivare uno sforzo teorico e pratico per pensare e realizzare forme di welfare comune, misurando le possibilità di promozione della ricomposizione sociale, l’aumento degli scambi solidali e soprattutto, oltre l’appropriazione di forme di ricchezza, la solidarietà per i soggetti dipendenti. Operare per un tentativo di alleanza tra cultura giuridica e movimenti sociali, tra pratiche di salvaguardia di sé e riflessioni mediche sulla professione, tra il vivere negli spazi urbani e il sognare il disegno di una città per i corpi che vi vivono.
Ci si può chiedere se è possibile congiungere pubblico e comune, riproduzione materiale e legami affettivi, dipendenza e affermazione di libere soggettività, riconoscimento delle differenze e tensione verso l’uguaglianza.
Un primo esempio di una possibile strutturazione della riproduzione sociale in questo senso riguarda la salute, il cui filtro primo è il lavoro di cura, ma che, a partire da questo, deve poter superare il concetto di benessere normativo dipendente da protocolli e diktat delle case farmaceutiche, creando interazioni tra pazienti e operatori che si occupano di sanità, con un’idea della salute non solo medicalizzata e dipendente da farmaci, di routine, fuori da un rapporto patologizzante, emergenziale, ma come ambito di resistenza e trasformazione delle condizioni di vita.12 Già le donne hanno aperto dei discorsi critici rispetto al concetto di salute e all’uso e la configurazione delle strutture sanitarie pubbliche. Per l’aborto, i movimenti europei si sono recentemente ricompattati sotto lo slogan “Io decido”, che sottintende l’autodeterminazione dei corpi e il diritto a una salute riproduttiva laica. I medici donna hanno imposto l’attenzione ai corpi sessuati, attivando una medicina di genere, con una specifica attenzione alle differenze. Anche se il rapporto tra saperi esperti, servizi e movimenti presenta limiti istituzionali e operativi difficili da comporre, questa sembra una strada aperta sul terreno della riproduzione sociale.
Un secondo esempio potrebbe riguardare le città, le metropoli. Toni Negri, in una recente intervista13 descrive la metropoli come la fabbrica di un tempo e la casa come la macchina abitativa per vivere e lavorare in una città informatizzata in cui la produzione è interamente legata a forme di vita. Vengono messe in relazione la vita e la sopravvivenza, con alcuni ambiti di libertà rispetto al lavoro controllato nella fabbrica.
In questa abitazione macchinica coesisterebbero lo sfruttamento e alcune possibilità di liberazione-emancipazione per uomini e donne che consentirebbero la rivendicazione di un reddito generalizzato come riconoscimento sia del lavoro sociale che – tanto più – di quello domestico.
E’ ben vero che la struttura delle città per quanto riguarda il lavoro, la produzione, e la collocazione dei corpi dei lavoratori è ormai cambiata rispetto al modello “Revolutionary Road”,14 in cui agglomerati monofunzionali definivano i luoghi della riproduzione e i luoghi della produzione come separati e distinti, seguendo linee di genere e di classe.
Se questa separazione (spazio per gli uomini al lavoro, spazio per la riproduzione confinato per le donne) oggi secondo Negri si è dissolto nella macchinizzazione delle case per il lavoro produttivo e nell’emancipazione delle donne dal lavoro domestico grazie alle macchine (ma questo è tutto da dimostrare, si dimostra solo che il lavoro domestico –il lavoro elementare di riproduzione – è cambiato), che ne è degli spazi “comuni”, gli spazi per la riproduzione della socialità?
La categoria di edifici più ampia in una città dovrebbe essere quella che comprende edifici sanitari, biblioteche, asili, edifici scolastici, gallerie, musei e aree per la comunità. Edifici e spazi dove gli scambi che si verificano non sono monetari e dove nel presente la maggior parte delle persone che vi lavorano sono donne. La sfera pubblica urbana è il luogo per eccellenza di scambio non monetario, un luogo di protezione e di esplorazione, di apprendimento e di riposo. La sfera pubblica urbana è il luogo dove sperimentare la democrazia. Bisogna rendere gli spazi luoghi in cui più elementi fragili possono coesistere nello stesso momento; spazi veramente pubblici dove si possa trascorrere il tempo senza dover acquistare nulla; spazi per il gioco, che non sono campi da gioco, dove c’è spazio per il sogno e l’esplorazione. La città è un bene comune, è il luogo della riproduzione sociale. Perché il territorio urbanizzato comunica il modello di vita degli abitanti e nello stesso tempo è contenitore delle forme di comunicazione possibili e accettate dalla comunità. Piazze e luoghi di socialità contro quartieri dormitorio, servizi della riproduzione sociale presenti e fruibili, apertura di nuove aggregazioni, costruzione sociale di sopravvivenza in spazi comuni.
Nei luoghi della socialità si incontrano i corpi, con i loro limiti, i loro diversi bisogni; nei luoghi della socialità si possono costruire forme di vita mutualistiche, inventare cooperazione nella riproduzione. Produrre spazio urbano può permettere di trovare soluzioni collettive all’individualismo neoliberista, a partire dalla libera espressione delle diverse soggettività e alla consapevolezza delle reciproche dipendenze.
Il corpo sessuato critica il soggetto standard dei diritti e della politica del liberalismo e contrattualismo (un soggetto supposto neutro, autonomo, privo di vincoli e di relazioni, connotato soltanto dalla sua capacità di scegliere razionalmente sulla base di un calcolo utilitaristico costi-benefici) e apre al riconoscimento delle singolarità sessuate, dei corpi limitati, dei bisogni di relazione e cooperazione. Se questo si trasforma in forme di socializzazione, poiché riguarda la riproduzione degli individui, non può limitarsi ad affermazioni astratte, deve avere spazi di praticabilità e invenzioni adeguate alla produzione di nuove forme di riproduzione sociale. Riguarda una trasformazione radicale del vivere, riguarda sperimentazioni concrete sul territorio, riguarda la conquista di spazi di libertà nella pratica di un’uguaglianza che ammetta l’espressione delle diverse soggettività e il riconoscimento delle diverse e universali dipendenze.
La mia analisi è basata su dati europei, sia dell’Unione Europea che provenienti da singoli stati dell’Unione. ↩
Per un’analisi della struttura del lavoro di riproduzione degli individui cfr. Del Re A. (2013) “Workers’ Inquiry and Reproductive Labor” in Viewpoint magazine.com/2013/09/30/issue -3- workers-inquiry; Del Re A. (2013) “Care and Common” in Murphy T. S. (ed.) Genre, Homo Liber, volume 46 number 2, Summer 2013, Duke University, Oklahoma. ↩
Nel settembre1994 la Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo organizzata dall’ONU al Cairo segnala un forte scontro tra le posizioni delle Chiese e vari stati laici sul controllo della sessualità e del corpo delle donne. Per quanto riguarda l’aborto, emerge negli ultimi anni una recrudescenza dei movimenti pro life, cfr. Jacqueline Heinen (2014) “Onslaughts on the Right to Choose. A transcontinental panorama” in Del Re A., Perini L. (eds) Il corpo delle donne, l’aborto, i diritti riproduttivi. Bilanci e prospettive, AG-About Gender vol. 3 n.5, www.aboutgender.unige.it; Yasmine Nair “Omonormatività” in www.queernotes.wordpress.com, 26 giugno 2015. ↩
La serie televisiva inglese Downtown Abbey ben esemplifica questo tipo di rapporti. ↩
Dalla Costa M.R. ( 1971?) Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio (?); Chisté L., Del Re A, Forti E. (1978) Oltre il lavoro domestico, Milano, Feltrinelli; Mariarosa Dalla Costa Famiglia, Welfare e Stato (1983 ↩
United Nations Department of Economic and Social Affairs. Population Division. “International Migration Report 2013” in www.un.org ↩
Franco Berardi Bifo, “Di lavoro non ce n’è più bisogno”16 luglio 2015 in www.commonware.org ↩
La disoccupazione è oggi in crescita in ogni paese d’Europa. Metà della popolazione giovanile non ha un salario, o ha un salario miserabile e precario (Bifo cit. ↩
Un esempio di lotta “propositiva” può essere dato da ZAD –zone à défendre – in Francia, con lotte anche violente, oppure i NO-TAV in Italia, con proposte alternative all’alta velocità. Negli ultimi tempi, a Milano sono state sperimentate forme e opzioni di lavoro critico inerenti il precariato, la comunicazione, le forme di autogestione sui territori che hanno visto la collaborazione, non sempre facile, di istanze plurali con l’aspetto positivo, in ogni caso, di essere riuscite a restare in rete (manifestazione NO Expo contro il lavoro precario e gratuito). ↩
Nancy Fraser “How feminism became capitalism’s handmaiden-and how to reclaim it” in The Guardian, 14 ottobre 2013 criticando forse ingiustamente le derive neoliberali di alcuni movimenti femministi dice che in molti casi, l’ambivalenza del femminismo si è risolta a favore di un (neo)individualismo liberista. Per un maggiore sviluppo: Nancy Fraser (2013) Fortunes of Feminism from State Managed Capitalism to Neoliberal Crisis, London-New York, Verso. ↩
Antonio Alia, “Tra crisi della riproduzione sociale e welfare comune. Intervista a Silvia Federici”, 31 Dicembre 2013 15:01, in www.commonware.org ↩
Fuxia Block “ Qeersultoria: esperimenti di welfare dal basso per un nuovo diritto alla salute e alla vivibilità” in DWF, Tutta salute! Resistenze (trans) femministe e queer, n. 3-4, luglio-dicembre 2014, pp. 37-49 ↩
Toni Negri “L’abitazione del general intellect. Dialogo di Federico Tommasello con Toni Negri sull’abitare nella metropoli contemporanea” in www.euronomade.info ↩
La situazione descritta da Revolutionary Road – il romanzo di Richard Yates del 1961 – mostrava una strategia per confinare le donne nello spazio suburbano e nella loro definitiva collocazione domestica. ↩