di FANT PRECARIO.
Se volessimo dare un nome alla celebrazione di questo Primo maggio, dovremmo forse dire “allarme lavoro”
-I-
LA CARNE ASSURDA DEL PRECARIO IMPRESA
1. La rivoluzione è cominciata nel ’68
Prima, il mondo della produzione rientrava nel valore di scambio, e quello della riproduzione nel valore d’uso. Poi tutto questo ebbe termine. Da questo punto di vista, si possono considerare i movimenti di questo periodo come un risultato necessario. La famiglia, la vita personale, il tempo libero e forse anche i fantasmi e il sogno, tutto appariva ormai assoggetto alle semiotiche del capitale, secondo regimi di funzionamento più o meno democratici, più o meno fascisti, più o meno socialisti. La produzione socializzata è arrivata a imporre la sua legge nel dominio della riproduzione quasi su tutta la superficie del pianeta e il tempo della vita umana è stato completamente risucchiato da quella della produzione sociale. […] Nel ’68 questa nuova reattività si è espressa sotto la forma di un gigantesco cortocircuito. Inutile cercare di mistificare questi avvenimenti, come hanno tentato di fare le teste molli del recupero, inutile stigmatizzare in questo caso il ritorno dei grandi venti dell’irrazionalità! Che cosa possono significare d’altra parte i riferimenti alla razionalità in un modo in cui la funzionalità è astrattamente finalizzata al capitale che conserva come suo elemento costitutivo un punto di massimizzazione dell’irrazionalità? L’interrogativo posto dal ’68 e che rimane attuale riguarda piuttosto il modo di costituire un rapporto liberatorio e creativo tra la felicità e la ragione strumentale. […] I movimenti sorgevano a un livello di globalità che solo poteva assumere un tipo di presa di coscienza corrispondente all’impegno dentro un processo storico di singolarizzazione. Per la prima volta, a questo grado di intensità hanno cominciato a coincidere dentro lo stesso turbine sovversivo i macrocosmi molari e i microcosmi molecolari (Antonio Negri – Félix Guattari, Le verità nomadi, pgg. 41 ss ).
2. “carne assurda”
Febbraio 1971. Il posto è sempre lo stesso, Stalinopoli, paradiso del socialismo in un solo quartiere.
Ugo, superipetente in terza media, mi promette la cassetta di Aqualung.
Ho 11 anni, ogni cognizione musicale l’ho mutuata dalla RAI ovvero da cugina di tre anni più grande, afflitta dal germe mogolbattistiano; è la prima volta che mi viene proposto di ascoltare musica “alternativa” (si diceva progressive? In Italia assumerà il nome di “progressiva” con sintomatica confusione tra prog e muzak da festa dell’Unità, salvo gli Area), e poi, da uno strano soggetto, mezzo Francesco di Giacomo (a proposito, RIP) mezzo Mitch Mitchell.
Di lui si sa solo che strugge la chitarra e aiuta il padre (si dice un tempo valente pianista nel transumare jazz annacquato alla Natalino Otto da Saint Louis a Genova, con tutte le tristezze del caso) in un bar “mal” frequentato (così, mia mamma e le sue amiche).
Fremo nell’attesa. Alle 7,50 Ugo arriva puntuale. Mi porge la cassetta: la confezione è ancora del tutto bianca, non scritta come si usa, disegnata o perlomeno indicativa dei titoli delle songs.
Solo una parola SEX, rosso in campo bianco.
Parliamo, mi spiega che è stata vergata con il sangue. Mi racconta di un Ozzy ancora magro, di Villa Pamphili, di Tito Schipa Jr (che sua madre – secondo la leggenda – era di Teglia) , e del suo nuovo gruppo: i carne assurda.
Minchia, dico (non è vero, lo faccio per darmi importanza, allora non ancora usavo il fine intercalare, forse avrò detto gasp come Paperoga) che nome (appunto) “assurdo”.
“No vedi”, mi spiega, “è che siamo mutati, non c’è più niente in noi del corpo dei nostri padri, che si rompono le ossa all’Ansaldo” (lui, già svezzato, non disse così), ed è vero.
Noto, come come il nostro corpo sia diverso da quello dei pur giovani figiciotti (ma sono mai stati giovani D’Alema e Berlinguer?) che ci portano (non più audaci come voleva Guccini) l’Unità in casa la domenica.
Riprende, “probabilmente i gas di Garrone e i fumi dell’Italsider ci hanno trasformati” (qualche anno dopo capirò che era la merce che c’è entrata nei polmoni), ma il fatto che il proletariato giovanile fosse un agglomerato spaventoso di Ziggy e David Johansen in salsa M-L, mi piacque subito.
2 bis. Mai più senza stroboscopica
Il teatro della diversità più che Parco Lambro era l’Odissea 2001 (più o meno una in ogni quartiere). Era lì che la carne assurda si rivelava al suono di Maggot Brain (Ho assaggiato i vermi nella mente dell’universo. Non ero offeso poiché sapevo che dovevo salire di sopra di tutto o annegare nella mia merda).
L’operaio che si vestiva elegante per la sala da ballo, il sabato sera o la domenica pomeriggio, aveva contrastato (proficuamente direi) il fascio ballando musica rubata ai neri e sbiancata (che più bianco non si può, e non è un caso che Franco Cerri sia vissuto dentro a una vasca di bio presto) sognando Alan Ladd e la Blue Dalhia, poi – smarrito nel crocio-gramscismo degli anni ’50 – assaporato l’esotica rumba o il mambo (rigorosamente italiano), ma sempre da buon socialista realizzato, tanto più bello tanto più bravo del proprio padrone ma del quale ripeteva le movenze e le intuizioni.
Era la catena che univa l’operaio al padrone nei modi e nei termini della riproduzione capitalistica.
C’era da produrre e lo si faceva. Anche il SIFAR era solo un piccolo ostacolo da superare.
La carne assurda procedeva da questo superamento assumendolo e rinnegandolo.
Essere ricchi senza denaro (dall’esproprio proletario al contrabbando, dall’occupazione di case allo “scrocco di benzina”, all’autoriduzione delle bollette, l’importante era negare il capitale rigenerando la ricchezza materiale in una vita altrove).
Anche i nomi cambiavano: non più Giardino dei sogni, Trocadero, Ferroviario ma Divina, Pirhana, Kaladium, Galaxy).
La sfida che si poneva alla carne assurda? Come potranno le nuove componenti soggettive conquistare spazi supplementari di vita e di libertà? Come svuotare la sostanza della potenza del nemico con la nascita di altri tipi di forze, di intelligenza e di sensibilità? (Negri – Guattari, cit., pg. 71).
3. “carne mostruosa”
Anni ne erano passati sotto i ponti. La ristrutturazione industriale, il “terziario avanzato”, la finanziarizzazione del vita (a procedere dal “mattone “ per arrivare ai corpi massacrati) avevano concluso la mutazione della carne (non più) operaia.
La carne della moltitudine è pura potenza, una forza vitale senza nessuna forma particolare, un essere sociale costantemente volto a realizzare la pienezza della vita. Da questa prospettiva ontologica, la carne della moltitudine è un’energia elementare che espande continuamente l’essere sociale e che produce in eccesso rispetto a qualsiasi normale misura del valore. Per quanto si cerchi di imbrigliarli, il vento, i mari e la terra sfuggiranno sempre alla presa. Dal punto di vista dell’ordine e del controllo politico la carne elementare della moltitudine è intollerabilmente elusiva, dato che non può essere compiutamente sussunta negli organi gerarchici di un corpo politico.
La carne sociale vivente della moltitudine non è un corpo e dunque può facilmente apparire mostruosa. Per molti osservatori, queste moltitudini – che non sono popoli o nazioni e neanche comunità – costituiscono soltanto un altro esempio dell’insicurezza e del caos derivati dal crollo dell’ordine sociale della modernità: sono catastrofi sociali postmoderne, che ai loro occhi assomigliano alla mostruosità di un esperimento genetico finito male […].Tutto ciò che non ha forma ed è privo di ordine genera orrore. La mostruosità della carne non è un ritorno allo stato di natura: è un effetto sociale, una vita artificiale (Antonio Negri – Michael Hardt, Moltitudine, pg. 225).
Per ora ci basti dire che la carne della moltitudine, che espande continuamente l’essere sociale e che produce in eccesso rispetto a qualsiasi normale misura del valore, è ghiotto pasto per il capitale finanziario, anzi unica energia compensativa della fine delle legge del valore.
4. Il precario-impresa
La crisi del 2008 vede la carne assurda (e mostruosa) annegata nel capitalismo, integralmente finanziario; unico in grado di narcotizzare la costruzione di reti sociali, deviandole verso una comoda alienazione.
Lo strumento utilizzato (i) dal capitale per la captazione, (ii) dal precario per la sopravvivenza e il superamento di sé è lo statuto dell’impresa, quale concreto spiegarsi della produzione capitalistica (ma anche moltitudinaria).
Le linee operative della progressiva impresisazione del corpo precario sono: a) il modificarsi sistema, pur finanziario, quale già fondato sul credito a cannibale vivificato dal debito; b) il passaggio della modalità di riconoscimento tra soggetti “di diritto” dal possesso di merci a quello di (continuamente promessa ma inattuabile) elisione del debito attraverso la concorrenza; c) l’assunzione dello statuto dell’impresa a regola di vita.
Sommarissimamente (e somarissimamente) l’assimilazione tra governance della corporation e quella di amministrazione del corpo attraverso la regola dell’essere insieme di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.
Ora, la questione si fa spessa, in quanto il precario-impresa è “imprenditore di sé stesso” (come richiestoci perlomeno dagli anni ’80 da pubblicità e socialisti rampanti) ma in tale qualità (unica riconosciuta dal diritto costituente del capitale finanziario) detentore solo della propria vita, non più (o non solo) dedita alla produzione di merce ma allo spiegarsi di un’attività immateriale che esiste solo in quanto il precario impresa agisce in rete con altri simili (imprese).
L’esercito (non più di riserva) dei precari-impresa rileva come cumulo (informe e necessariamente ignorante delle differenze che debbono essere obliterate per consentire la sussunzione ed evitare l’istituzione di forme di vita “comuni”) diretto dallo statuto che si erge stato.
Ogni diversità – derelitta nel dominio del capitale – si produce nel dispiegarsi dell’attività che ogni precario svolge ed esplica attraverso la propria vita.
La produzione non è di merce ma di vita coattivamente distorta dal capitale attraverso l’istituzione continua di una falsa registrazione meritocratica (merito creditizio) della flessibilità del corpo del precario secondo criteri tipici dell’impresa.
Procedendo da una, anch’essa falsa, omogeneizzazione delle imprese all’interno del loro reciproco riconoscimento poiché tali, esclude l’affermazione (immediatamente costituente) della socialità del lavoro.
È evidente che la carne precaria è effettivamente assurda e la creatura mostruosa, ingobbita com’è tra “uomo nuovo”, capacità creativa e compressione del capitale.
È altrettanto evidente che il “comune” non è “bene”, cosa oggetto appropriazione da regolamentarsi secondo lo statuto della proprietà ma flusso continuo che deve essere interrotto dal debito, dalla colpa, dalla povertà sovradeterminata per consentirne una altrimenti impossibile captazione.
E qui si inserisce la lezione che il caro leader impartisce alle masse.
-II-
LA LEZIONE DI NAPOLITANO BONAPARTE
1. Il sindacato visto dall’ex uomo di marmo
Poi, rivolgendosi ai sindacati, il presidente li ha invitati “a concorrere alla ricerca di soluzioni solidaristiche e innovative coraggiose e determinate” perché, ha sottolineato il presidente, per raggiungere gli obiettivi europei per il mercato del lavoro bisogna porre in atto, “anche in Italia, a ripensamenti non da poco nei nostri sistemi di garanzia del benessere della protezione sociale”. È fondamentale, ha insistito Napolitano, non abbandonarsi alla rassegnazione, al fatalismo e alla lenta routine burocratica (da repubblica.it, la nuova Iskra del servo consapevole).
La constatazione di una sostanziale burocratizzazione del sindacato è perlomeno tralaticia, ma perché prendersela con la triplice? Come sparare sulla Croce Rossa; peggio, come mozzare la mano che ti ha servito.
Anche il ripensamento (i) dei sistemi di garanzia (ma quali?, forse ci facciamo rilasciare delle fideiussioni, magari tarocche come quelle di Tanzi?), (ii) del benessere (quello che ci regala l’Ilva?), (iii) della protezione sociale (una rete come agli acrobati del circo Togni?) non è che sia novità nell’agenda (come dicono i più raffinati) dei governi perlomeno da trent’anni; ma neppure nei “tavoli” (come dicono i Moretti in fieri) dei sindacati, si potrebbe opinare.
E allora?
Il Vate della concertazione contro i suoi interpreti più recenti?
Di seguito la risposta.
2. Il richiamo all’unitarietà dell’ordinamento in quanto fondato sull’impresa
Giorgio Napolitano ha tenuto il suo tradizionale discorso e si è soffermato su una lettera che ha ricevuto da Francesco Ferrari, presidente dell’Associazione piccole e medie industrie di Mantova. Ferrari era rimasto impressionato dal numero sempre maggiore di imprenditori e lavoratori morti, suicidi per la crisi, vittime di un lavoro che non avevano più.
Napolitano ha detto: “Di sordità (ma perché non rivolgersi ad Amplifon?) della nostra società come possibile causa di gesti perfino estremi (la morte come estremismo; il suicidio malattia infantile del comunismo, bello, perché non dirlo a Luciano Gruppi?) mi ha scritto – in vista del nostro incontro di oggi – il Presidente dell’Associazione Piccole e Medie Industrie di Mantova, riferendosi a casi di suicidio tra gli imprenditori e suggerendo che essi siano ricordati come vittime di situazioni che distruggono piccole aziende travolgendole insieme al lavoro che esse davano e provocando perfino suicidi assimilabili agli incidenti mortali sul lavoro”.
E ancora: “È una suggestione che ho voluto raccogliere a testimonianza di una drammatica condivisione – da parte di titolari di imprese a conduzione famigliare soprattutto, e di lavoratori dipendenti – dei colpi di una crisi che spesso lascia soli gli uni e gli altri. Anch’io, in questo mio breve intervento, ho avuto in mente – come avete potuto constatare – più “il diritto al lavoro”, caposaldo della nostra Costituzione, che “i diritti del lavoro”, pur fortemente affermati anch’essi nella stessa Carta del 1948. La priorità che per ovvi motivi abbiamo dato al primo tema, nulla toglie all’importanza dell’altro. A cominciare da quel diritto alla sicurezza nei luoghi di lavoro, come dissi parlando nel giugno 2012 alla Conferenza dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro a Ginevra – “una forte, convinta, appassionata riproposizione del valore del lavoro”.
Non è un caso che l’appello parta da Mantova, provincia di piccole e micro imprese, in cui lavoratori e datori di lavoro sono spesso nella stessa situazione. Le aziende di piccole e medie dimensioni rappresentano più dell’80% del totale delle aziende e sono poco più di 200 le imprese che impiegano oltre cento dipendenti. Ferrari scrive infatti nella lettera: “Noi imprenditori italiani siamo abituati alle crisi e non ci siamo mai fatti scoraggiare dalle difficoltà. Oggi quello che è cambiato è che lavoriamo in un Paese che lascia le aziende in balia di una burocrazia sorda alle istanze degli imprenditori e dei cittadini, di una tassazione ingorda, di una politica che pensa solo a se stessa” (da ilgiorno.it).
Il combinato disposto di quanto dichiarato e sinteticamente riportato sub 1) e 2) è il riconoscimento che “diritto al lavoro” e “diritti del lavoro” siano due aspetti della stessa realtà che involge prestatori e datori di lavoro.
Se però il punto di partenza è l’impresa (i prestatori sono nella maggioranza dei casi “autonomi”) , i due aspetti coincidono e risultano volti all’assoggettamento capitalistico della produttività di comune data dalla “vita messa al lavoro”.
“Diritto al lavoro” significa unicamente che l’azienda (precario-impresa) deve lavorare (che in un mondo senza produzione significa soltanto affermare se stessa).
Considerare i “diritti del lavoro” (e non dei lavoratori, tantomeno delle singolarità che agiscono all’interno delle varie forme in cui si da l’impresa) significa riconoscere che tale attività (“il lavoro”, appunto) deve trovare nel diritto il riconoscimento.
Il fatto è che il lavoro (di impresa e nell’impresa) è un diritto dato, forzatamente applicato al corpo precario, vera e propria istituzione del comune cattivo, tanto che parafrasando Ulpiano si potrebbe affermare trattarsi di diritto cui il soggetto soggiace e non è parte “attiva “.
La rivendicazione presidenziale dell’impresa quale elemento che dà lavoro autotutelantesi è la constatazione che solo la ricostruzione in termini di “codice del commercio “ del lavoratore, potrà perpetuare la creazione di vita e la captazione della stessa, debitamente edulcorata e resa tangibile alla legge del valore.
3. Il “vero” Jobs Act (Jumpstart Our Business Startups Act)
La recente crisi ha accentuato la difficoltà di reperire risorse finanziarie in grado di fare fronte alle richiesta di credito delle aziende con ovvi riflessi negativi sulle loro prospettive di crescita. Tale realtà si presenta con toni particolarmente accentuati – e dunque è foriera di implicazioni significative – con riguardo alle imprese la cui operatività è ridotta, vuoi per l’ambito soggettivo di riferimento, vuoi per limiti intrinseci della relativa capacità produttiva.
Si giustifica in questo contesto la ricerca di nuovi meccanismi in grado di veicolare efficacemente risorse verso il sistema imprenditoriale, favorendo la creazione di canali di finanziamento alternativi a quello bancario tradizionale. Di qui la realizzazione di particolari forme di raccolta del capitale supportate da tecnologie avanzate, tali cioè da consentire la fruizione di peculiari modalità di utilizzo dei portali web. La descritta realtà trova il proprio epicentro nel fenomeno del crowdfunding, tecnica di acquisizione di fondi monetari nella quale viene meno l’essenzialità della funzione intermediatrice della banca, in presenza di un rapporto diretto tra i titolari della domanda e dell’offerta di credito.
A ben considerare, sulla base di tale meccanismo procedurale l’utente informatico supporta attivamente il progetto di una specifica azienda mediante il conferimento di apporti monetari di diverse entità, si dà luogo, quindi, ad una sorta di commistione tra gli interessi di cui si fanno ordinariamente portatori i diversi stakeholders d’impresa. Ne consegue che i soggetti partecipanti al progetto, assumono il duplice ruolo di finanziatori e di potenziali consumatori del prodotto e/o servizio promosso tramite web; con ciò dando luogo all’emersione di una particolare forma di individuo prosumer, tramite il quale si fa riferimento all’aggregazione in capo ad un unico operatore delle esigenze – per solito contrapposte tra loro – del consumer e del producer che operano sul mercato.
In linea con tale riflessione appare l’intervento del legislatore nazionale, il quale ha di recente emanato talune disposizioni volte a regolamentare le fattispecie in esam, sulla scia di quanto già realizzato negli Stati Uniti con l’introduzione del Jobs Act dell’aprile 2012. Ci si riferisce, in particolare, al d.l. 18 ottobre 2012 n. 179, denominato “crescita bis” e convertito con modificazioni dalla legge 17.12.12 n. 221 che ha provveduto ad inserire la disciplina dell’equity crowdfunding (nonché la relativa applicazione ai processi di finanziamento destinati alle startup innovative) nell’ambito di specifiche misure volte a rilanciare la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture nazionali e la competitività del mercato interno. (Angela Troisi, Crowdfunding e mercato creditizio“, In “Contratto e Impresa”, 2/2014, pg. 526 ).
Si è utilizzato un linguaggio volutamente tecnico, mutuato integralmente da articolo parimenti tecnico, per evidenziare la sostanziale affinità del discorso presidenziale agli attuali orientamenti del capitale.
Quello che conta nel provvedimento assunto, al di là della reale incidenza (come rettamente rileva la commentatrice citata) della misura e del riferimento all’abusata figura del prosumer, è lo scenario approssimato, laddove la banca tradizionale – con i propri problemi di scarsa liquidità (rinvenente peraltro in larga parte dalla crisi che affligge le imprese finanziate che fa lievitare le sofferenze) – è lasciata al capitale al suo destino, risultando ben più accogliente il ventre delle moltitudini.
Non soltanto si socializza il (poco e sempre più magro) risparmio, ma si impone una partecipazione attiva alla spoliazione alla soggettività derelitta.
4. La (cripto-) moneta
Nel proprio rapporto sulla stabilità finanziaria appena pubblicato, la Banca d’Italia evidenzia come non sono noti casi in cui la criptomoneta sia stata utilizzata in modo significativo da intermediari finanziari regolamentati; non sono state quindi sinora riscontrate conseguenze per la stabilità del sistema finanziario o per il meccanismo di trasmissione della politica monetaria.
Al momento i rischi maggiori, oltre a quelli di un impiego a fini illeciti, sono riconducibili a profili di tutela del consumatore.
Bitcoin è la moneta virtuale che ha acquistato più rilevanza nell’ultimo anno, pur risultando limitata la sua diffusione in Italia.
La Banca d’Italia, dopo l’avvertenza pubblicata dall’ Autorità bancaria europea (European Banking Authority, EBA) nello scorso mese di dicembre, per la prima volta si occupa dei bitcoin.
I Bitcoin sono l’esempio più noto e quantitativamente più rilevante di “criptomoneta”, cioè di una moneta virtuale vigilata non da un’autorità terza, ma dagli utenti stessi riuniti in network.
Una moneta virtuale è un tipo di moneta digitale non regolamentata, emessa e controllata in base ad algoritmi informatici, che può essere accettata su base volontaria dalle parti di una transazione come mezzo di pagamento alternativo alla moneta legale.
Nati nel 2009 per iniziativa di Satoshi Nakamoto, ritenuto generalmente come con ogni probabilità un nome collettivo, i Bitcoin sono la moneta virtuale che ha acquistato più rilevanza nell’ultimo anno.
Le unità di Bitcoin possono essere acquisite partecipando con proprie risorse informatiche alla creazione di nuova moneta o acquistandole con valuta legale su mercati telematici generalmente non regolamentati.
Al momento si stima ci siano circa 12,5 milioni di unità di Bitcoin in circolazione, per un controvalore in euro pari a circa 6 miliardi al cambio medio di marzo 2014.
Tra le motivazioni della espansione accelerata gli osservatori adducono il fascino psicologico di una nuova moneta che quasi misteriosamente diventa mezzo di pagamento accettabile e riserva di valore per il fatto stesso che un numero sufficiente di altri individui è disposto ad accettarla per le medesime funzioni.
Considerando la sua circolazione in progressivo aumento sta aumentando in maniera esponenziale l’attenzione da parte delle Autorità di Vigilanza internazionali.
Trattandosi di moneta virtuale, cioè priva di un suo corrispettivo fisico nella tipica forma di banconote e monete metalliche, la vigilanza consiste nel verificare che nessun utente faccia “double spending”, cioè spenda un certo ammontare di Bitcoin (aumentando i depositi del venditore) senza che il suo deposito diminuisca dello stesso ammontare.
Tra le iniziative poste in essere in ambito internazionale va ricordato come lo scorso anno la Banca centrale cinese ha proibito al settore finanziario del Paese di utilizzare la moneta elettronica Bitcoin oppure di realizzare attività in questa valuta virtuale.
È stato anche vietato agli istituti di credito cinesi di garantire investimenti in Bitcoins o di investire in prodotti che hanno a che fare con questa valuta a fronte dei rischi collegati all’utilizzo della moneta.
Sono invece esclusi da questo divieto i privati, così come condiviso anche da altre autorità di vigilanza del settore assicurativo e monetario e dal ministero dell’Industria cinese Anche in Brasile esistono regole specifiche applicabili all’uso del Bitcoin .
Le Autorità del Giappone hanno poi puntato i riflettori sulla misteriosa chiusura del Mt Gox, il principale portale di trading sulla moneta virtuale.
Gli Stati Uniti hanno allo studio la diffusione dei Bitcoin per approntare una specifica normativa. Germania, Finlandia, Singapore e Canada sono pi tra i paesi che hanno fornito indicazioni sulla tassazione del Bitcoin, mentre l’Irlanda, Israele e la Slovenia hanno solo fatto capire di avere l’intenzione di fare qualcosa in merito.
A livello europeo si osserva poi un diffuso consenso sull’opportunità di definire una disciplina armonizzata in materia di moneta virtuale.
L’European Banking Assocation nello scorso mese di dicembre ha poi predisposto un avvertimento su una serie di rischi derivanti da acquisto, la detenzione o trading di valute virtuali come i Bitcoin.
Secondo l’EBA, mentre le valute virtuali continuano a colpire i titoli e godono di crescente popolarità, i consumatori devono essere consapevoli dei rischi ad essi associati. .
Attualmente, non esistono infatti specifiche tutele normative dell’UE che proteggere i consumatori da perdite finanziarie se una piattaforma che gli scambi o detiene monete virtuali non riesce o cessi l’attività.
Viene ancora sottolineato come la moneta virtuale che contengono i “portafogli digitali” memorizzati su computer, computer portatili o smartphone, non sono impermeabili agli hacker.
Inoltre, quando si utilizzano i Bitcoin per le transazioni commerciali, i consumatori non sono protetti da alcun diritto di rimborso ai sensi del diritto comunitario. Con riferimento poi ai problemi di ordine pubblico non va poi sottovalutato un ulteriore rischio.
Godendo infatti le transazioni in moneta virtuale di un elevato livello di anonimato, possono essere oggetto di abuso per le attività criminali, tra cui il riciclaggio di denaro.
Questo uso improprio potrebbe portare le forze dell’ordine a chiudere piattaforme di scambio con breve preavviso e impedire ai consumatori di accedere o di recupero di eventuali fondi che le piattaforme possono essere tenevano per loro.
Per quel che riguarda ancora i profili fiscali è necessario acquisire la consapevolezza che il possesso di monete virtuali può avere implicazioni di carattere tributario ragion per cui va accertato se le passività fiscali si applicano nel loro Paese quando si utilizzano le valute virtuali.
Le osservazioni della Banca d’Italia
Ma quali sono le considerazioni sviluppate dalla Banca d’Italia ?
Bitcoin, come le altre monete virtuali, ha un valore puramente fiduciario, che non è controllato o garantito da alcun istituto di emissione centrale.
Anche per questa ragione è molto variabile, prosegue il Rapporto, con rischi non trascurabili per i detentori.
Sulla base delle informazioni disponibili, alla fine di marzo del 2014 il controvalore in euro di una unità di Bitcoin si era dimezzato rispetto al picco raggiunto nei primi giorni di dicembre del 2013, registrando nel periodo oscillazioni medie giornaliere pari a circa il 4 per cento, con punte di oltre il 10.
Da ricerche condotte a livello internazionale emerge che la maggior parte delle unità di Bitcoin sarebbe detenuta per fini speculativi; l’anonimato che caratterizza le transazioni, facilitando la possibile elusione dei vincoli normativi al trasferimento di fondi, rende inoltre questa valuta virtuale utilizzabile per finalità illecite.
Non sono noti casi in cui Bitcoin sia stato utilizzato in modo significativo da intermediari finanziari regolamentati; non sono state quindi sinora riscontrate, osserva la Banca d’Italia, conseguenze per la stabilità del sistema finanziario o per il meccanismo di trasmissione della politica monetaria.
Al momento i rischi maggiori legati all’utilizzo di Bitcoin, oltre a quelli di un impiego a fini illeciti sono riconducibili allora a profili di tutela del consumatore; un’importante piattaforma giapponese di deposito e scambio di Bitcoin ha di recente cessato di funzionare, viene ricordato,determinando perdite rilevanti per i suoi utilizzatori.
Attualmente infatti, in caso di perdita di unità di Bitcoin (ad esempio furto da parte di hacker, chiusura delle piattaforme di scambio presso cui sono detenute), gli utenti sono privi di forme di tutela (Bankitalia, Bitcoin sotto osservazione, “IPSOA Quotidiano”, 6 maggio 2014, qui).
Anche qui, non rileva l’origine del fenomeno, tantomeno il rischio per il consumatore o per gli scambi regolamentati, unicamente dovendosi aver riguardo a quanto di vita possa essere captata con l’utilizzo della criptomoneta, come di qualsiasi altra moneta (rubli, sesterzi, marenghi…).
È il sistema finanziario che attiva l’intuizione e la valorizza. Che “dietro” ci sia la terra promessa o il nulla o un bidone per sprovveduti consumatori poco importa.
Quello che mi preme segnalare è la presenza di ripetuti tentativi (i più vari) di ovviare, in qualche modo, la crisi della legge del valore.
Eccone un altro.
5. Raccomandazione della Commissione Europea su un nuovo approccio alla crisi d’impresa e all’insolvenza (2014/135/UE)
La Commissione Europea ha emanato il 12 marzo scorso una Raccomandazione su un nuovo approccio all’insolvenza comunitaria: l’obiettivo è quello di privilegiare, anziché la liquidazione, la ristrutturazione precoce di imprese sane ma in difficoltà, in modo da impedirne l’insolvenza.
Le finalità della Raccomandazione. È auspicabile, a tal fine, una riforma delle norme concorsuali nazionali: la Raccomandazione, proprio allo scopo di creare un quadro coerente delle norme nazionali in materia di insolvenza, invita gli Stati membri ad agevolare la ristrutturazione delle imprese in difficoltà in una fase anteriore all’emersione della crisi, a consentire ai debitori di ristrutturare l’impresa senza dover avviare un’azione formale in giudizio, a prevedere misure di favore per le imprese in difficoltà finanziare, quali la sospensione temporanea delle azioni esecutive dei creditori, durante la fase di adozione del piano di ristrutturazione; viene, infine, incentivata una riduzione degli effetti negativi del fallimento sulle prospettive future dell’imprenditore, prevedendo la liberazione dai debiti entro un periodo di tre anni.
La Raccomandazione invita, insomma, gli Stati membri ad attuare misure appropriate entro un anno. Tra 18 mesi, la Commissione valuterà la situazione e deciderà se sono necessarie ulteriori misure per rafforzare l’approccio orizzontale in materia di insolvenza.
Lo studio di Insol Europe. A supporto della Raccomandazione, la Commissione europea ha commissionato uno studio per ottenere informazioni sui meccanismi di ristrutturazione già esistenti negli Stati membri, sul loro utilizzo e l’effettivo successo e sui costi di tali strumenti.
L’Associazione Insol Europe ha costituito, a tale scopo, un team di esperti provenienti da tutti i 28 Stati dell’Ue, da cui è stato redatto un report contenente dettagliate informazioni sulle misure previste dalle diverse legislazioni a sostegno delle imprese in difficoltà.
La revisione del quadro normativo comunitario. Anche la Raccomandazione fa parte di un complessivo progetto di revisione della normativa Ue. Il Regolamento CE n. 1346/2000, che in ambito comunitario costituisce la norma di riferimento in materia d’insolvenza transfrontaliera, è già stato oggetto, negli ultimi tempi, di proposte di revisione: nel 2012 la Commissione ha presentato un pacchetto di misure per modernizzare le norme del Regolamento, e nel febbraio 2014 il Parlamento ha votato a favore di tale proposta, che ora deve essere votata dal Consiglio; contestualmente è stata lanciata una consultazione pubblica su un nuovo approccio europeo al fallimento e all’insolvenza (già nelle news de IlFallimentarista.it).
I fini predicati:
a) consentire ai debitori di ristrutturare l’impresa senza dover avviare un’azione formale in giudizio;
b) prevedere misure di favore per le imprese in difficoltà finanziarie, quali la sospensione temporanea delle azioni esecutive dei creditori, durante la fase di adozione del piano di ristrutturazione;
c) incentivare una riduzione degli effetti negativi del fallimento sulle prospettive future dell’imprenditore.
Il fine: scoraggiare qualsiasi socializzazione del lavoro elevando l’impresa a unico centro di imputazione dei diritti (ecco “i diritti del lavoro” di cui parlava il presidente).
È tralasciata la sacralità del Giudizio e la necessità dell’azione della magistratura (bollata quale formalità), si attua la gestione della crisi d’impresa quale liquida comparazione tra gli interessi delle aziende, si rimuove la censura di imbelle dal corpo dell’impresa insolvente.
L’unico diritto riconosciuto (del lavoro) si attua attraverso il diritto (al lavoro) che procede dall’evirazione dei diritti (cosiccome consolidati nella tradizione commerciale).
-III-
UNA PRETESA ASSURDA PER UNA CARNE ASSURDA
I SORDI… SGHEI, PALANCHE, CASH…
PER UN MOVIMENTO DEL VALORE D’USO
Con un diritto derelitto, assumendosi uno statuto dell’impresa in sé, autoreferenziale che si pone in perfetta autonomia da ogni potere (a torto ritenuto) “forte” (pensa ai poteri deboli…), con lo stato degradato a semplici esecutori di prescrizioni esterne o a commissariati locali di polizia (Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, 2001, ma anche e meglio, Natalino Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, 2006), cosa resta al precario impresa?
La crisi della legge del valore, ci lascia davanti l’emergenza massiccia ed irresolubile presenza del movimento del valore d’uso. Il carattere eversivo del movimento del valore d’uso non deriva certo da un’analisi della sua essenza: come tale esso ha sempre nutrito la sintesi di capitale. Il suo carattere eversivo è esistenziale, ontologico consiste nella sua separazione storica, nella sua indipendenza data, nel suo rifiutarsi determinato alla sintesi del capitale. Di qui gli effetti distruttivi che il movimento del valore d’uso determina: immediatamente, contro ogni approccio del capitale inteso, lungo tutti gli attimi della giornata lavorativa, a ricomporre il processo della valorizzazione, mediatamente contro la permanenza e la stabilità della struttura sociale della valorizzazione capitalistica, nella quale la forza operaia può essere vista […] Profondità irraggiungibile del capitale, nella quale vive la libertà differenziata dell’autovalorizzazione (Antonio Negri, Il comunismo e la guerra, pg 93 ).
E ancora, la principale difficoltà della rivoluzione proletaria è l’applicazione più minuziosa e scrupolosa, su scala nazionale, del censimento e del controllo, del controllo operaio della produzione e della distribuzione dei prodotti (e ciò non muta anche se qui siamo ormai al paradosso, laddove al controllo della produzione va sostituita la sottrazione di noi stessi, quali soggetti immediatamente produttivi, alla captazione capitalistica).
…E qui passiamo a un altro aspetto della questione dell’apparato statale. Oltre all’apparato essenzialmente “oppressivo”, che consiste nell’esercito permanente, nella polizia, nella burocrazia, esiste nello Stato moderno un apparato, legato in modo particolarmente saldo alle banche ed ai trust, che svolge, se così si può dire, un vasto lavoro di statistica e di registrazione. Non è necessario spezzare quest’apparato e non si deve spezzarlo. Bisogna strapparlo al dominio dei capitalisti, bisogna staccare, tagliare, strappare da esso i capitalisti e i fili della loro influenza, bisogna subordinarlo ai soviet proletari, estenderlo, svilupparlo, farne una cosa di tutto il popolo. E si può giungere a questo basandosi sulle conquiste già compiute dal grande capitalismo (e, in generale, soltanto appoggiandosi a queste conquiste, la rivoluzione proletaria sarà in grado di raggiungere il proprio scopo).
Il capitalismo ha creato apparati di controllo come le banche, i cartelli, la posta, le cooperative di consumo, le associazioni di impiegati. Senza le grandi banche, il socialismo sarebbe irrealizzabile.
Le grandi banche sono l’“apparato statale” che ci è necessario per la realizzazione del socialismo e che noi prendiamo già pronto dal capitalismo (Lenin, I bolscevichi conserveranno il potere statale): ma che succede se ora le banche sono aria fritta, incapaci di garantire il perpetuarsi del capitale finanziario, laddove l’unica rendita è data dalla appropriazione di vita, da esigersi attraverso la rottura del fluire della cooperazione sociale?
Ancora una volta, non è necessario spezzare quest’apparato e non si deve spezzarlo. Bisogna strapparlo al dominio dei capitalisti, bisogna staccare, tagliare, strappare da esso i capitalisti e i fili della loro influenza […] E si può giungere a questo basandosi sulle conquiste già compiute dal grande capitalismo…
Le singolarità debbono appropriarsi dello statuto dell’impresa, superandolo, attraverso la negazione del diritto e delle tutele che questo riserva all’impresa, invocando, in senso “rivoluzionario” l’accesso al credito e una rendita garantita incondizionata.
Si pensi alla disciplina della crisi d’impresa prospettata sub II, 5.
Si è tanto parlato di debito come senso di colpa che affligge la singolarità, l’impresa, lo stato nazione.
Ma quale colpa ha il precario impresa?
Nessuna a sentire la Commissione Europea, come nessuna altra impresa. La crisi (e quindi il debito) è evento fisiologico nell’intrapresa imprenditoriale, come la febbre, il restare incinta, il cancro….
Al precario-impresa come da ogni altra impresa in difficoltà, deve riconoscersi la possibilità di auto-ristrutturarsi senza dover avviare un’azione formale in giudizio, con la previsione di misure di favore, quali la sospensione temporanea delle azioni esecutive dei creditori, durante la fase di adozione del piano di ristrutturazione; e soprattutto incentivarsi una riduzione degli effetti negativi del fallimento sulle prospettive future dell’imprenditore (alla faccia del senso di colpa).
La carne assurda e mostruosa del precario-impresa deve essere capace di riconoscersi altrimenti rispetto allo statuto d’impresa, ma da questo procedendo, consentendo alla produzione sociale di esorbitare dalla legge del valore.