di SANDRO MEZZADRA.1

02/12/2012

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1. Non siamo certo stati gli unici, negli ultimi dieci anni, a considerare l’America latina un formidabile laboratorio politico. A differenza di altri, tuttavia, a interessarci in modo particolare non sono state tanto la retorica del “socialismo del XXI secolo”, il ritorno del “populismo” o la celebrazione delle “nazionalizzazioni”. Il punto di vista che ha guidato il nostro interesse per l’America latina, nella fitta rete di relazioni che abbiamo instaurato in quell’area del mondo, è stato piuttosto quello delle lotte e dei movimenti che hanno accompagnato l’età neo-liberale (gli anni del “Consenso di Washington”) fino a decretarne la fine. Tra la grande insurrezione dei poveri di Caracas nel 1989 (il “Caracazo”) e lo “sciopero di cittadinanza” che nel 2005 destituisce il Presidente Gutierrez in Ecuador, uno straordinario ciclo di lotte percorre sotterraneamente l’intera America latina. Il protagonismo degli indigeni (simbolicamente rilanciato dagli zapatisti a partire dal 1994) riapre una storia – quella della conquista coloniale – la cui continuità si era riprodotta attraverso i secoli. Una nuova questione agraria, dopo la grande trasformazione dell’agricoltura determinata dalla “rivoluzione verde”, viene prepotentemente posta all’ordine del giorno dalle mobilitazioni dei contadini “senza terra”. La tumultuosa conquista di spazi di azione e parola da parte di moltitudini di poveri urbani rimette in discussione i codici esclusivi dei sistemi sociali e politici. Lotte operaie di tipo nuovo (ad esempio nell’ABC paulista) si incontrano con l’occupazione e l’autogestione di imprese dismesse e con grandi mobilitazioni di lavoratori disoccupati.

Quando questo insieme profondamente eterogeneo di soggetti – qui richiamato soltanto per sommi capi – si incontra (ad esempio a Cochabamba nel 2000, il 19 e 20 dicembre del 2001 in Argentina), ne deriva un’azione insurrezionale di tipo nuovo. Quel che la caratterizza è l’esercizio di un radicale potere destituente, che determina non soltanto la caduta di singoli governi, ma – moltiplicato su scala regionale – la fine della legittimità del neo-liberalismo. I nuovi spazi politici che così si aprono vengono occupati da soggetti e governi che solo in parte (ad esempio con Morales in Bolivia e con Lula in Brasile) possono vantare un rapporto diretto con i movimenti e con le lotte, mentre in altri casi (ad esempio con Correa in Ecuador e Kirchner in Argentina) questo rapporto è al più costruito a posteriori, nella prospettiva di consolidare le basi di legittimità dei governi. L’azione destituente dei movimenti è certo seguita in alcuni Paesi dall’apertura di veri processi costituenti, al cui interno (in particolare in Bolivia e in Ecuador) i movimenti stessi si esprimono con forza. Ma anche laddove questo non accade (ad esempio in Brasile e in Argentina), l’innovazione che si produce sul terreno della costituzione materiale e della stessa strutturazione dello spazio politico nella stagione dei cosiddetti governi “popolari e progressisti” è estremamente profonda.

É importante tuttavia sottolineare lo scarto che esiste in tutti i Paesi menzionati tra l’azione dei movimenti e delle lotte da una parte, la formazione e l’azione dei governi “progressisti” dall’altra. Questo non significa assegnare ai primi la funzione meramente “negativa” della “destituzione” dei governi neo-liberali, riservando ai secondi le funzioni “positive” della proposta e dell’azione propriamente politica. Al contrario, in America latina la forza dei movimenti si è espressa (e continua a esprimersi) prima di tutto nella continua generazione di relazioni, istituti, reti sul piano politico, culturale, sociale ed economico. Registrare lo scarto tra movimenti e governi significa per noi qualcosa di più di un esercizio di realismo politico sul piano dell’analisi. Significa anche guadagnare un punto di vista che, esaltando l’autonomia dei movimenti, consente di fotografare sotto il profilo teorico un momento storico determinato in cui è apparsa possibile una sperimentazione istituzionale radicalmente innovativa: capace cioè di puntare sulla trasformazione della forza politica dei movimenti in forza produttiva – tanto sotto il profilo politico quanto sotto il profilo della ricerca di un nuovo modello di sviluppo. In questi anni (in Brasile come in Argentina, in Ecuador come in Bolivia) ci è parso di vedere concrete esemplificazioni di questo nuovo rapporto tra istituzioni e movimenti, certo sempre in forme “spurie” e mai con la purezza di un modello. E abbiamo cercato di seguire gli sviluppi latinoamericani scommettendo sul carattere materialmente espansivo delle sperimentazioni in atto (senza per questo evitare, ovviamente, di mettere in evidenza i caratteri problematici e i momenti di blocco che fin dall’inizio le caratterizzavano). Al tempo stesso ci sembrava essenziale il respiro “regionale” di queste stesse sperimentazioni, l’avvio di processi di integrazione di tipo nuovo che ci sembravano porre le condizioni – dentro la crisi dell’egemonia statunitense – per la conquista di nuove basi su cui gestire l’inserimento all’interno dei mercati mondiali e i rapporti con il capitale finanziario.

2. Un bilancio del ciclo politico che in America latina viene definito “post-neoliberale” richiederebbe un’analisi in profondità degli sviluppi all’interno dei singoli Paesi. Riservando quest’analisi a successivi interventi (anche da parte di compagni latinoamericani), vale comunque la pena di evidenziare – sulla base di recenti viaggi, discussione e letture – alcune tendenze generali. E a noi pare che queste tendenze indichino un’impasse rispetto ai caratteri di innovazione che abbiamo sommariamente indicato al punto precedente. Vi è intanto da registrare un sostanziale irrigidimento, una riorganizzazione dell’intero processo politico attorno alla figura dello Stato, di cui da più parti si celebra il “ritorno” e il “recupero di sovranità”. É una tendenza che assume caratteri estremi nel caso del Venezuela di Chavez, ma che si manifesta chiaramente anche nel caso, spesso presentato come opposto, del Brasile di Dilma Rousseff. In molti Paesi (non, va riconosciuto, in Brasile) questa centralità dello Stato coincide con la posizione di un singolo leader, identificato con la continuità del processo di trasformazione: lo scontro in Argentina attorno all’ipotesi di modifica costituzionale per consentire a Cristina Fernandez Kirchner di presentarsi per la terza volta alle elezioni presidenziali è in questo senso emblematico, ma non meno dominante – in un’esperienza di governo in cui a prevalere sono retoriche tecnocratiche e giacobine – è ad esempio la posizione di Correa in Ecuador, dove tra l’altro la Costituzione del 2008 ha molto ampliato i poteri del Presidente.

In questo quadro, se è vero che le accuse di “autoritarismo” da parte delle destre sono il più delle volte puramente strumentali, un problema si pone in ogni caso per quel che riguarda sia la formazione e il ricambio della leadership sia, e soprattutto, i processi di formazione e i criteri di legittimazione della decisione politica. Ma il tema del “ritorno dello Stato” va affrontato in termini più generali, senza restare “incantati” dalle retoriche dei governi “progressisti” (che celebrano la rinnovata capacità dello Stato di controllare e “temperare” lo sviluppo capitalistico) ma senza neppure rinunciare a un’attenta analisi delle nuove funzioni sociali ed economiche (ma anche di regolazione, ad esempio in un campo cruciale come quello dei media) che lo Stato ha contraddittoriamente assunto in molti Paesi latinoamericani. Indubbiamente, per riprendere un’espressione del vice-presidente boliviano Alvaro García Linera, lo Stato è oggi un “campo di lotta”, per via della rottura dei dispositivi di esclusione che storicamente, agendo su linee di razza, genere e classe, avevano organizzato lo spazio politico assicurando la riproduzione e la continuità delle élite. Qui, tuttavia, si presenta un primo problema: la rottura di questi dispositivi di esclusione, radicati in profondità nella storia e nelle società latinoamericane, non può essere pensata se non in termini processuali, agevolando ed esaltando la continuità dell’azione – necessariamente extraistituzionale – dei soggetti che di quei dispositivi hanno subito e continuano a subire l’azione. Qui andrebbe riqualificato lo scarto tra movimenti e governi, puntando a intrecciare in modo virtuoso le diverse temporalità dell’azione politica che li caratterizzano.

Al contrario, l’enfasi sul “ritorno dello Stato” si accompagna troppo spesso a politiche di “inclusione sociale” che puntano interamente su dinamiche di redistribuzione della ricchezza e di sollecitazione dei consumi per promuovere una nuova cittadinanza democratica. Intendiamoci: siamo qui di fronte a un tratto innegabilmente positivo del “ritorno dello Stato”. Niente può essere più distante dalla nostra prospettiva dei lamenti moralistici (diffusi in America latina come altrove) sul “consumismo popolare”: l’accesso, innegabile come l’avvio di pur limitate politiche redistributive, a nuovi consumi da parte dei poveri e dei subalterni in molti Paesi latinoamericani è prima di tutto conquista di potere sociale, messa in discussione di gerarchie e di dispositivi di assoggettamento. Ma le retoriche e le politiche che fanno riferimento al “ritorno dello Stato” sembrano promuovere, attraverso l’espansione dei consumi, un’integrazione sociale che corre parallela alla spoliticizzazione della società. La “politica” appare interamente riassunta all’interno di uno Stato immaginato come “puro” – o forse più precisamente come purificabile dalle incrostazioni “corporative”, ovvero dal condizionamento di “interessi” variamente qualificati. É inutile dire che gli “interessi” che contano – a partire da quelli delle grandi multinazionali – si sono ampiamente riorganizzati (spesso, indubbiamente, pagando dei prezzi) per riconquistare potere negoziale e influenza all’interno delle nuove costellazioni politiche. Ma al tempo stesso, ed è quel che più conta, ci sembra che l’evoluzione delle politiche sociali nei principali Paesi latinoamericani retti da governi “progressisti” sia stata caratterizzata negli ultimi anni da un sostanziale arretramento rispetto ai caratteri di innovazione che erano emersi nella fase precedente. E che le retoriche dell’espansione dei diritti e dell’inclusione sociale abbiano progressivamente perduto spessore materiale, rischiando di ridursi ad apologia di una serie di “concessioni” dall’alto.

3. Il “ritorno dello Stato” si innesta materialmente su un modello di sviluppo la cui continuità non è stata posta in discussione negli ultimi dieci anni. Ci sembra importante, in questo senso, il dibattito critico che in tutta l’America latina si sta svolgendo attorno alla categoria di “neo-estrattivismo”. Quel che si intende con questo termine è appunto un modello di sviluppo che punta essenzialmente sull’intensificazione dello sfruttamento delle risorse naturali, tanto con l’apertura di nuove grandi miniere e giacimenti petroliferi quanto con la coltivazione estensiva della soia, per derivare dalla crescente domanda internazionale (in primo luogo asiatica) le risorse necessarie al finanziamento delle politiche sociali e all’avvio di dinamiche redistributive. Anche qui, non ci sembrano produttive le tonalità moralistiche che spesso si incontrano nel dibattito che abbiamo richiamato: non intendiamo cioè negare, in linea di principio, la possibilità di un uso delle risorse naturali come asset strategici in vista di una gestione innovativa delle nuove condizioni di interdipendenza e della ricerca di un nuovo modello di sviluppo. L’impressione è tuttavia che negli ultimi anni il “neo-estrattivismo” abbia teso a irrigidirsi, ponendosi esso stesso come modello di sviluppo indiscutibile, con conseguenze pesantissime non solo dal punto di vista ambientale ma anche da quello sociale. I duri scontri che in diversi Paesi latinoamericani hanno accompagnato questa tendenza, coinvolgendo in particolare movimenti contadini e indigeni (in Argentina come in Bolivia, in Ecuador come in Perù), ci sembrano emblematici della chiusura di quella dialettica tra sviluppo e buen vivir che aveva trovato riconoscimento costituzionale ad esempio in Ecuador e in Bolivia.

Le retoriche “sviluppiste” (per introdurre un altro termine ampiamente utilizzato nei dibattiti latinoamericani) dei governi “progressisti” continuano a presentare l’estrattivismo come base per uno sviluppo economico di tipo sostanzialmente industriale (e, in alcuni casi, post-industriale, centrato sulla promozione dell’“economia della conoscenza”). A noi sembra, tuttavia, che si tratti appunto semplicemente di retoriche. Alla funzione di traino esercitata dall’esportazione di materie prime non corrispondono in particolare dinamiche di reale espansione del lavoro salariato e formale, ma piuttosto diffusi processi di precarizzazione (perfino in Ecuador, dove il governo ha vietato l’appalto di forza lavoro, la durata media dei nuovi contratti di lavoro è di tre mesi). È un punto di decisiva importanza anche per quel che riguarda il “ritorno dello Stato”: contrariamente a quanto viene spesso sostenuto, questo “ritorno” non sembra infatti preludere a un’“inclusione sociale” e a una cittadinanza democratica centrate sul lavoro, secondo il modello dello Stato sociale prevalente in Europa occidentale nel secondo dopoguerra. Vi è qui un primo elemento di sostanziale fragilità tanto del neo-estrattivismo quanto del “ritorno dello Stato” (nonché del loro intreccio nella presente congiuntura latinoamericana). A noi pare che il rilievo dei consumi all’interno del nuovo modello di “inclusione sociale”, in presenza di diffuse condizioni di precarizzazione, si presti ad aprire lo spazio per il rinnovato intervento (proprio in funzione del finanziamento dei consumi) di un’altra “potenza” che funziona secondo logiche fondamentalmente estrattive: ovvero il capitale finanziario. E in molte metropoli latinoamericane (l’esempio di Rio de Janeiro, con l’incombere dei mondiali di calcio del 2014 e delle olimpiadi del 2016, è particolarmente istruttivo) si ripresenta in termini particolarmente aggressivi l’alleanza tra capitale finanziario e capitale immobiliare, con un violento attacco agli abitanti delle favelas nella prospettiva di “liberare” spazi per la valorizzazione del capitale.

Si tratta, evidentemente, di fronti conflittuali, su cui già si esprimono pratiche di resistenza e di auto-organizzazione. Molto raramente, tuttavia, i governi “progressisti” cercano oggi di porsi in sintonia con queste pratiche, da cui soltanto potrebbe venire il rinnovamento democratico della loro azione. Un secondo elemento di sostanziale fragilità del modello che in America latina si sta definendo attorno al “neo-estrattivismo” e al “ritorno dello Stato” consiste del resto nel fatto che, mentre molti Paesi combattono sacrosante battaglie contro il capitale finanziario sulla questione del debito (come ad esempio in queste settimane l’Argentina contro quelli che vengono chiamati “fondi avvoltoio”), i prezzi delle commodities sono in buona misura fissati sui mercati finanziari globali. Le dinamiche finanziarie giocano così un ruolo essenziale dal punto di vista della stabilità economica del modello, che dipende d’altro canto anche dalla tenuta della domanda globale delle risorse esportate. Il rallentamento della domanda asiatica (e in particolare cinese) comincia così a determinare un rallentamento della crescita, una diminuzione dei salari reali e significative tensioni sociali in molti Paesi latinoamericani (in particolare in Argentina, dove una forte inflazione agisce da moltiplicatore su questi processi). La crisi globale sta cominciando a colpire anche l’America latina, dopo che per diversi anni era stata vissuta ed effettivamente gestita come una straordinaria occasione di sviluppo.

4. Sotto questo profilo, sarebbe oggi particolarmente importante un approfondimento dei processi di integrazione su scala “regionale”, attraverso la moltiplicazione delle partnership, degli accordi di cooperazione, dei progetti condivisi. Ci sembra tuttavia che anche su questo terreno si debba registrare un arretramento, prima di tutto per quel che riguarda le “opinioni pubbliche” e il “dibattito politico”. Nei primi anni del nuovo secolo la dimensione “regionale” si era imposta con grande forza proprio in questo senso, costringendo a riformulare la discussione dei problemi e degli sviluppi “interni” ai singoli Paesi all’interno di uno spazio sovra-nazionale che tornava a essere denominato con la formula di José Martí, nuestra América. Questo nuovo “senso comune” era stato ancora una volta in buona sostanza anticipato dai movimenti negli anni precedenti, e ha fatto da cornice a concreti processi di integrazione. Il “ritorno dello Stato” sembra tuttavia essere coinciso, in fondo in modo non sorprendente, con il ritorno della “nazione” e della priorità dei suoi interessi come criterio essenziale di orientamento della politica estera dei singoli governi. Non mancano certo le dichiarazioni – non necessariamente “rituali” – di solidarietà in occasione di conflitti che vedono coinvolto un singolo Paese (ad esempio l’Argentina sulla questione delle Malvinas, o l’Ecuador sulla concessione dell’asilo ad Assange). Ma nel complesso si assiste oggi in America latina a un ritorno alle relazioni “bilaterali” tra Stati, mentre sotto il profilo economico i governi giocano un ruolo di sostegno alle “loro” imprese nel processo di proiezione delle attività e degli interessi all’interno di altri Paesi latinoamericani. Colossi come la PDVSA venezuelana e la Petrobras brasiliana combinano così logiche capitalistiche e logiche nazionali nel loro protagonismo all’interno del settore estrattivo.

Al tempo stesso riemergono, con la forza delle cose in assenza di una forte volontà politica di segno opposto, logiche egemoniche che condizionano soprattutto il comportamento dei due più grandi Paesi latinoamericani: il Brasile e l’Argentina. Il primo, trascinato dalla potenza delle sue dimensioni geografiche ed economiche, sembra puntare oggi essenzialmente sul consolidamento dell’asse BRIC (ovvero sulla cooperazione “sud-sud” con altre “potenze emergenti”), subordinando a questo obiettivo i rapporti interni all’America latina. La seconda si ripiega su se stessa adottando politiche protezionistiche. In queste condizioni, è lasciata fondamentalmente ai singoli Paesi non solo la gestione dei rapporti con le multinazionali (in particolare con quelle attive nei settori “estrattivi”) ma anche di quelli con la Cina, sempre più presente in America latina non solo dal punto di vista finanziario ma anche da quello ad esempio della costruzione delle infrastrutture e dei commerci (con rapporti che coinvolgono lo stesso settore informale). A noi pare evidente che una maggiore integrazione nella gestione di questi rapporti porrebbe le basi per imporre non soltanto “termini di scambio” più favorevoli, ma anche condizioni qualitative e standard più coerenti con i progetti di approfondimento della democrazia a cui i governi “progressisti” continuano a richiamarsi. Un ambito particolarmente delicato per verificare l’importanza dei processi di integrazione è poi quello della moneta. In Ecuador, uno dei Paesi in cui più si parla di “ritorno dello Stato” e di “recupero della sovranità”, l’unica valuta in circolazione è dal 2000 il dollaro. Non solo il governo di Correa non ha messo in discussione questa circostanza, davvero difficilmente conciliabile con il “recupero di sovranità”, ma anche i suoi oppositori di sinistra la considerano un “tabù politico” (per via dell’associazione tra dollaro e stabilità economica diffusa in particolare all’interno del “ceto medio” dopo la devastante crisi bancaria del 1999). Il fatto è, tuttavia, che gli economisti più avvertiti sostengono che le basi macroeconomiche della “dollarizzazione” sono ormai venute meno, e nel giro di un paio d’anni si dovrà trovare un’alternativa. Il “contro-esempio” argentino, con politiche che hanno sì puntato al recupero della piena sovranità monetaria e alla “pesificazione” dell’economia, ma pagando il prezzo di un’alta inflazione e di una pesantissima svalutazione, mostra chiaramente che la via dell’integrazione regionale sarebbe anche da questo punto di vista quella da percorrere.

L’impasse che abbiamo cercato di mettere a fuoco con queste note non ci induce in nessun modo al pessimismo. In questi anni, in America latina, tanto l’azione dei movimenti quanto quella dei governi hanno costruito materialmente un nuovo terreno di sviluppo politico e una nuova dinamica delle forze. Alcune rotture, la nuova legittimità di soggetti usciti dalla “subalternità”, l’approfondimento dello stesso concetto di democrazia ci sembrano per molti aspetti irreversibili. Su queste basi, tuttavia, ci sembra anche che si stia profilando un dispositivo di contenimento delle nuove forze emerse sulla scena latinoamericana, in cui il “ritorno dello Stato”, nella continuità di un modello di sviluppo “neo-estrattivista”, si tradurrebbe essenzialmente in (più o meno moderate) dinamiche redistributive in base alla capacità di ogni singolo governo di gestire l’inserimento nel mercato mondiale. Abbiamo indicato quelli che ci appaiono alcuni essenziali elementi di fragilità di questo dispositivo. Ma più in generale siamo convinti che in America latina ci siano oggi le condizioni per forzarne le rigidità, per riaprire la dinamica politica in direzione della conquista di più solide basi di libertà e uguaglianza. Siamo altresì convinti che questa riapertura possa venire soltanto da un rilancio dei movimenti e della loro autonomia, anche se lo stesso riferimento ai movimenti deve essere riqualificato – per non rimanere meramente retorico – nelle nuove condizioni determinate dagli sviluppi dell’ultimo decennio. Dentro il nuovo conflitto sociale di cui si comincia a parlare in America latina nuove contraddizioni e nuovi soggetti si esprimono accanto a linee di antagonismo ereditate dal passato. Singole strutture istituzionali appaiono spesso interamente calate nelle costellazioni conflittuali emergenti, ed è senz’altro possibile immaginare alleanze e convergenze tattiche tra di esse e i movimenti. È sull’insieme di queste questioni che vorremo che il dibattito si riaprisse, anche all’interno del “dossier America latina” che abbiamo ormai da tempo aperto nel sito di UniNomade.

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  1. Hanno collaborato Michael Hardt e Toni Negri.