di SERGIO BOLOGNA.
Comincia con il racconto surreale di un bricolage. Un tavolo fatto di lattine, concepito come arredo di una cella di San Vittore a Milano. Ma quando si parla di carcere il sorriso sparisce presto dalle labbra. È l’avvio del libro di Alberto Magnaghi Un’idea di libertà (DeriveApprodi). L’autore viene messo in galera dopo aver messo in piedi, alla facoltà di Architettura di Milano, uno dei centri di ricerca e progettazione più innovativi sullo spazio civile ed economico, agricolo e urbano, sul territorio. Rinchiuso tra quattro mura è costretto a continuare l’indagine sullo spazio ed osserva giorno dopo giorno come la costrizione dello spazio fisico sia capace di sconvolgere lo spazio interiore, di alterare la facoltà percettiva, d’inaridire la dimensione emotiva, di condizionare la memoria, il desiderio.
La peculiarità dello spazio carcerario, costrizione fisica dentro un affollamento, solitudine dentro una costante violazione dell’intimità, assenza di suoni e sequela di rumori, è quella di saper ridurre il detenuto alla passività. Si forma così pian piano una seconda prigione, forse più angosciosa della prima, perché è una prigione interiore. L’unico modo di sfuggire, di evadere da questa prigione interiore, è la solidarietà con altri detenuti. Facile a dirsi ma non per un detenuto politico, non per uno che è stato di Potere Operaio un paio d’anni ma poi ha riversato tutta la sua passione civile nella ricerca e progettazione di un habitat sostenibile.
Un desiderio collettivo
Per un detenuto politico la solidarietà è anche condivisione di scelte, di orientamenti politici, non può essere solo solidarietà umana. E poi solidarietà non è solo la parola buona, il pacchetto di sigarette, il gesto di amicizia, è trovare il gesto che interpreta un desiderio collettivo. Magnaghi si trova in mezzo a detenuti politici che intendono questo gesto solo come gesto di guerra, lui il desiderio collettivo lo coglie nella cella dipinta di arancione, che tutti corrono a vedere, nel tavolo di lattine, raccolte in una colletta spontanea, nell’aliante, che vola oltre il cortile e finisce su una tettoia, dove non puoi andarlo a recuperare altrimenti le guardie ti sparano.
Poi la scena cambia di colpo. È nel braccio d’isolamento di Rebibbia, il G8. Niente rumori, niente più grida, niente sporco o tracce di sangue alle pareti, tutto ordinato. Non sei più un detenuto, sei un sorvegliato speciale, non ti debbono distruggere, ti debbono osservare. Anche i muri sono i loro informatori, anche la lampadina sempre accesa. San Vittore, descritto fino a quel momento luogo di distruzione e di degrado, diventa «umano», diventa familiare, diventa quasi un ricordo nostalgico, l’affollamento viene ricordato come elemento vitale, l’ora d’aria come convivio. E inizia qui una seconda indagine sullo spazio, il carcere diventa plurale, ce ne sono tanti. Dal G8 si passa al G7, sezione speciale, dal G7 al G12, sezione normale. Si torna in mezzo alla gente, c’è aria di borgata.
Dopo un anno e con la prospettiva di restarci assai il detenuto cambia, non è più il trauma del cambiamento, è la ricerca dell’adattamento la molla che lo fa sopravvivere. A segnare le sue giornate non è più la sensazione angosciosa che la propria struttura interiore viene sconvolta ma l’accettazione della metamorfosi, il «galleggiamento nel vuoto», come scrive l’autore, la rassegnazione a un destino che si è compiuto. È il secondo stadio della detenzione. Il terzo è quello del riscatto, è quando nella mente s’insinua il miraggio dell’evasione, è il bisogno di libertà. Ma per averla occorre possedere un’idea, ma per raggiungerla occorre praticarla, a piccoli passi, se si scarta l’idea della libertà conquistata manu militari o con il tunnel scavato sotto il cortile. Un giorno a Rebibbia manca l’acqua e fuori sono 40 gradi all’ombra. «Un flusso di comunicazione orizzontale ha percorso, come un fremito, ciascuno…. assemblee di raggio, collettivi, delegati, una rottura della cappa di piombo…». L’uomo torna ad essere una persona.
È un libro straordinario che si chiude con l’immagine degli alianti, di cui Magnaghi è esperto costruttore. Il loro volo silenzioso rappresenta splendidamente il desiderio, l’idea, di libertà.
Ma la domanda che si fa chi prende in mano questo testo è: «Perché ripubblicarlo adesso? Trent’anni dopo la prima edizione!» Cos’è, archeologia, reducismo? No, perché parla di un’epoca
e di circostanze sulle quali ancora oggi qualcuno costruisce delle narrazioni infami. Alle quali, per pigrizia, per confusione mentale, per indifferenza, non diamo la giusta risposta. Trent’anni dopo gli avvenimenti di cui parla il libro di Magnaghi, un magistrato, che ha avuto in quella vicenda giudiziaria un ruolo non secondario, ha sentito il bisogno di tornarci sopra: Giovanni Palombarini, Il processo 7 aprile nei ricordi del giudice istruttore (Il Poligrafo, pp. 152). Si parla del processo all’Autonomia Operaia, del caso «7 aprile», nel quale molti degli imputati furono tenuti in galera per anni con accuse speciose, che i processi smontarono in gran parte, elargendo molte assoluzioni. Il libro di Palombarini mette a nudo la barbarie della detenzione preventiva. Fa onore ad uno che fa il suo mestiere aver riconosciuto questi comportamenti incivili della giustizia italiana, ma il suo libro non affronta il vero problema di quella vicenda, la vera vergogna, che era l’impianto accusatorio, l’impianto chiamato «il teorema Calogero». Va beh, dirà qualcuno, il problema è stato superato, le stesse sentenze dei processi hanno demolito quel teorema. Ed è qui che non ci capiamo.
Narrazioni in prima persona
Quell’impianto accusatorio non è rimasto un fatto giudiziario circoscritto alla vicenda processuale, è diventato nel corso degli anni un’ipotesi storiografica, uno schema logico sul quale si continua, oggi — oggi non ieri — a costruire memoria e narrazione. Si è trasformato, come dire, in una sostanza tossica a lento rilascio che inquina dei territori, sia pur periferici, dell’indagine storica. Non solo ad opera di autentici provocatori ma anche ad opera di personaggi che occupano cattedre nell’Università italiana e persino di storici stranieri (è uscito di recente in Germania un ponderoso volume di una studiosa che, affrontando un’analisi comparata dei movimenti di lotta negli anni Settanta in Italia e Germania, ripercorre certi sentieri interpretativi tracciati da quella stagione giudiziaria). Da parte nostra c’è stata finora debole risposta e dobbiamo farcene colpa soprattutto noi che abbiamo scelto allora il terreno della storiografia come terreno di azione. Ci siamo troppo attardati nella memorialistica, esasperando un certo soggettivismo. Invece è proprio il momento di riprendere il respiro dello storico e guardare di nuovo quel decennio dall’osservatorio del presente, perché solo oggi si può valutare come la miseria dell’Italia in cui viviamo sia opera di quelli stessi che hanno infierito contro l’Autonomia Operaia ed i movimenti di lotta e liberazione di allora.
questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 13 febbraio 2015