(Pubblichiamo l’intervento di Toni Negri durante la tavola rotonda Lo sciopero nell’era dell’astrazione finanziaria – 8 maggio 2015, Venezia, presso S.a.L.E Docks, nell’ambito delle iniziative di AB-STRIKE, una piattaforma per lo sciopero astratto, curata da S.a.L.E. Docks e Macao. Qui trovate l’intervento nello stesso talk di Marco Assennato)
di TONI NEGRI.
Che cos’era lo sciopero? Era un’astensione dal lavoro da parte operaia, una rottura partigiana e selvaggia (di classe operaia) del rapporto di sfruttamento, che si qualificava come un attacco diretto alla valorizzazione capitalista. Ma, dal punto di vista operaio, lo sciopero non era solo questo; era anche qualcosa di molto materiale, un’azione che doveva “far male al padrone” e che, allo stesso tempo, metteva in gioco la vita del lavoratore. C’era qualcosa di carnale, di immediatamente biopolitico nello sciopero, una violenza che trasformava l’azione economica in rappresentazione politica, l’atto di astensione in una pratica di diserzione dal capitale. Ora si sa che il rapporto di capitale è sempre diverso, sia perché il soggetto lavoratore in ciascuna fase dello sviluppo capitalistico è diversamente qualificato, sia perché il comando sul lavoro è contestualmente diverso. Lo sciopero dunque è sempre diverso anch’esso: lo sciopero dell’operaio industriale e quello del bracciante agricolo erano esperienze, avventure diverse, anche se ognuna metteva in gioco la stessa materialità – la continuità del sabotaggio e dell’astensione prolungata dal lavoro presso gli operai industriali; la violenza carnale, puntuale e durissima della lotta contadina. Per i braccianti agricoli, la lotta non poteva durare più di tanto: raccontano che le vacche muggivano disperate che nessuno ne traesse il latte e che i raccolti, non realizzati, marcissero – bisognava dunque intensificare lo scontro nel tempo breve. Per gli operai industriali, tempi e figure della lotta erano ben altri, e non esigevano di essere contratti, se non “in ultima istanza” per il limite imposto all’astensione dal lavoro dalla misura del salario necessario, di sopravvivenza. Nell’immagine che ne fa il padrone, lo sciopero risulta invece qualcosa di unitario (rottura economica del rapporto di valorizzazione e rottura politica della subordinazione) e la sua varietà è annullata in un atto di repressione che ha sempre movenze politiche e altamente simboliche – si tratta di reimporre l’ordine. Quando il neoliberismo si inaugura, negli anni 80, come disegno generale di trasformazione dell’organizzazione del lavoro, della forma di produzione e del controllo politico sulla classe operaia, sappiamo che la risposta alle lotte dell’operaio-massa si era ormai data attraverso l’automazione delle fabbriche e l’informatizzazione sociale: sarà infatti nell’imprenditorialità cibernetica la base del successo neoliberale. Ma un atto simbolico apre questa trasformazione del controllo, un atto politico che dice come all’attacco operaio, i padroni sappiano ormai, comunque, sempre, inflessibilmente, resistere: la repressione dello sciopero dei minatori gallesi della Thatcher e l’attacco ai controllori di volo da parte di Reagan – ciò si presenta come necessaria premessa della trasformazione del modo di produzione. Qui il carattere simbolico – più tardi si dirà senz’altro “biopolitico” – della repressione delle lotte appare nella sua estrema violenza, spingendo fuori dal contesto di ogni possibile ricomposizione ogni esperienza di contrattazione. Contro lo sciopero operaio è costruito il “biopotere”.
Per avanzare in quest’analisi e per arrivare a trattare del tema dello “sciopero astratto”, occorrerà dunque chiedersi chi sia oggi il lavoratore e chi sia oggi il padrone. Vediamo prima di tutto chi è il lavoratore. È colui che opera in una rete immateriale – costituita dall’operaio stesso ma controllata da un padrone – che ne esalta, al tempo stesso, la produttività e ne estrae valore. Si tratta di un operaio che, crescendo dentro una cooperazione sempre più intensa, consegue una capacità produttiva crescente e qualifica questa sua forza-lavoro come potenza motrice del sistema produttivo. Mi spiego: è dentro la cooperazione che il lavoro diventa sempre più “astratto”, e cioè sempre più capace di organizzare la produzione e, nello stesso tempo, sempre più sottoposto a meccanismi di estrazione del valore, capace di creare cooperazione produttiva e costretto a vederla estratta (dal capitale) in misura sempre maggiore. Per arrivare a comprendere questo processo occorre innanzitutto insistere sul fatto che, nel rapporto al macchinario, il lavoratore sviluppa in maniera sempre più autonoma l’istanza cooperativa, e in tal modo organizza l’energia produttiva espressa. Possiamo parlare di autonomia nel senso in cui ne parlavamo dentro altre fasi della sussunzione formale e/o della sussunzione reale del lavoro sotto il capitale? Certamente no. Perché qui c’è un grado di autonomia non più semplicemente di posizione ma ontologica – una consistenza autonoma, anche se completamente sottoposta al comando capitalista. Che cosa significa essere in una situazione nella quale una continua – nel tempo – ed estesa – nello spazio – iniziativa produttiva, una invenzione collettiva e cooperante, vengono estratte dal capitale? Quando il rapporto tra processo lavorativo (in mano operaia) e processo capitalista di valorizzazione sono ormai separati, affidato il primo all’autonomia del lavoro vivo, il secondo al puro comando – che cosa significa questa mutazione? Significa che il lavoro ha raggiunto un livello di dignità e di forza che si rifiuta alla forma di valorizzazione che gli è imposta – e quindi, pur dentro l’imposizione del comando, esso è capace di sviluppare la propria autonomia.
Nella sfrenata propaganda del comando capitalista e della sua necessità, nelle ultime prediche sull’efficacia senza alternative del potere del capitale che il “pensiero unico” dei padroni e dei socialdemocratici scoreggia – sentiamo sempre più frequentemente inneggiare al dominio dell’“algoritmo”. Ma che cos’è quell’algoritmo al quale si imputa oggi la padronanza sui processi di valorizzazione informatica? Non è altro che una macchina, una macchina che nasce dalla cooperazione dei lavoratori e che sopra questa cooperazione il padrone impone. L’algoritmo è, come diceva il vecchio Marx, “una macchina che corre dove c’è stato lo sciopero”, dove c’è stata resistenza o rottura del processo di valorizzazione – una macchina oggi prodotta da quella stessa forza e autonomia che è espressa dal lavoro vivo. La grande differenza fra i processi lavorativi studiati da Marx e quelli attuali consiste nel fatto che la cooperazione, oggi, non è più imposta dal padrone ma prodotta “dall’interno” della forza-lavoro; che il processo produttivo e le macchine non sono portate “dall’esterno” dal padrone né gli operai vi sono forzosamente obbligati. Oggi noi possiamo propriamente parlare di appropriazione di capitale fisso da parte dei lavoratori e con ciò indicare appunto un processo, per esempio, di costruzione dell’algoritmo conoscitivo, disposto alla valorizzazione del lavoro in ogni sua articolazione, capace di produrre linguaggi di cui diverrà il dominus. Quei linguaggi sono dunque stati creati dai lavoratori che ne posseggono la chiave e il motore cooperativo.
Se le cose stanno così, è solo astraendosi sempre di più dai processi lavorativi che il comando capitalista riesce ad esercitarsi. Non a caso parliamo di “sfruttamento estrattivo” della cooperazione sociale, e non più di sfruttamento legato alle dimensioni industriali e temporali dell’organizzazione del lavoro. In questo tipo di organizzazione del lavoro e della valorizzazione si gioca quindi un ruolo complesso, ma tendenzialmente lineare, di “produzione di soggettività”: laddove per “produzione di soggettività” s’intenda, da un lato, produzione attraverso “soggettivazione” e, dall’altro, continuo tentativo di ridurre quest’ultima a “soggetto” comandato. L’ambiguità che questo gioco presenta è quella che presentano tutte le diverse figure del lavoro vivo nella sua strutturazione post-industriale.
In secondo luogo, che cos’è dunque oggi il padrone? A fronte del lavoro cognitivo, il padrone si presenta come capitale finanziario che estrae valore sociale. Dentro questa “estrazione” si dà ormai una progressiva riduzione della funzione padronale da figura imprenditoriale a figura puramente politica. La verticalizzazione del comando capitalista deve attraversare in maniera sempre più astratta il rapporto con la cooperazione e i processi di soggettivazione produttiva – conseguentemente, dentro questa verticalizzazione, si esprimerà una sorta di “governamentalizzazione” del comando, il tentativo sempre più complesso di controllare i meccanismi macchinici/algoritmici attraverso i quali il lavoro vivo ha proposto e costruito cooperazione. In questo prospettiva, il capitale finanziario si presenta come “dittatura” – non certo dittatura fascista ma astrazione del comando e sua uniformizzazione governamentale nel tentativo di far valere la sua autorità sul processo di astrazione – insomma, di far coincidere astrazione ed estrazione.
Sulla nuova figura del comando capitalistico: qui occorre distinguere due aspetti. Abbiamo già detto del primo: il comando astratto/estrattivo e la sua pretesa di recuperare l’intero processo di valorizzazione. Qui si organizza il comando politico. Ma, a lato di questo, c’è l’altro aspetto: il neoliberalismo è, infatti, a suo modo costituente. Oltre a sviluppare un’attività di governo che è solo comando – essenzialmente finanziario ma corroborato da un massimo di forza statuale – esso si sviluppa anche in rete (con forme plurime di governamentalità) ed agisce come comando partecipativo su una estesa rete micro-politica predisposta ad includere bisogni e desideri. La costituzione neoliberale non raccoglie semplicemente (ed estrae valore da) il lavoro vivo nella sua espressione valorifica ma tende anche ad organizzare i consumi e i desideri e a renderli, nella loro espressione materiale, riproduttiva, cooperativa, funzionali alla riproduzione del capitale. È la moneta che, nell’età del capitale finanziario, rappresenta la mediazione fra produzione e consumo, fra bisogni e riproduzione capitalista, che eguaglia dunque e raccoglie in una stessa astrazione il lavoro che la produce e il lavoro che la consuma. Sarà possibile attraversare questo insieme complesso riappropriandosi il lavoro che produce e liberando il consumo dalla sua direzione capitalista?
Quando ormai una ventina d’anni fa cominciammo a parlare di “lavoro immateriale”, fummo derisi non solo perché dicevamo (impropriamente) “immateriale” quando ovviamente ogni lavoro è materiale, ma soprattutto perché attraverso quella immaterialità intendevamo atti costitutivi di valore, conoscenze, linguaggi, desideri, e non semplicemente il lavoro manuale. Oggi, certamente, non ci si può più deridere – è a tutti evidente infatti che siamo in una situazione nella quale il capitale ha interamente identificato quel nuovo ricchissimo contesto nel quale il lavoro vivo si esprime e lo ha interamente posto sotto il suo comando. Il capitale ha agito in due sensi. Da un lato, ha articolato il suo comando alla vivente produzione di linguaggi; d’altro lato, opera attraverso la funzionalizzazione dei bisogni e dei desideri al comando capitalista. Il capitale (nel neoliberalismo) vuole che la forza della soggettivazione produttiva si riconosca come soggetto del rapporto di capitale. Vuole servitù volontaria. Questa ambiguità è spinta al massimo: se senza lavoro vivo non c’è produzione, del pari, senza consumo non c’è valorizzazione (o riproduzione). Il keynesismo è interiorizzato e rinnovato in maniera esplicita (tuttavia irriconoscibile) dentro la costituzione neoliberale. Di qui spesso le impotenti mistificazioni prodotte o subite da troppi uomini onesti (ma incapaci di esercizio critico): si sostiene che il capitale è ormai capace di rendere contenti i dominati. Qui si rappresenta la palinodia del servaggio, presumendo verità. A noi interessa invece ancora pensare che esistere nel capitale è necessariamente resistergli.
Che cos’è uno sciopero astratto oggi? Vale a dire: che cos’è uno sciopero che si misuri sia alla nuova natura del lavoro vivo, sia alla costituzione neoliberale della produzione e della riproduzione? Che cos’è una lotta sociale che abbia la capacità di “far del male”, di mostrarsi nuovamente con una potenza materiale, biopolitica, efficace? Per rispondere a queste questioni occorre insistere su due punti che non possono esser separati ma che è utile distinguere. Innanzitutto, chiedersi se e come il lavoro vivo possa oggi ribellarsi e interrompere il flusso della valorizzazione. La risposta a questo interrogativo non può che riprendere interamente la tradizione della lotta operaia: rottura del rapporto di produzione, astensione, sabotaggio, esodo, ecc. Ma – si osserva – quando il lavoro ha investito la vita, quando si lavora tutto il giorno fuori da ogni orario, quando le capacità produttive di ogni lavoratore son prese dentro reti di comando – com’è possibile ritrovare quell’indipendenza di azione (che è richiesta dal “far sciopero”) sul terreno sia dei nessi spaziali di cooperazione sia su quelli temporali ormai ridotti a flusso continuo? Com’è possibile, per esempio, occupare e bloccare la metropoli (divenuta produttiva) e/o interrompere quel flusso di produttività delle reti sociali che non conosce pausa? Qui la risposta non può che ricondurci a quella singolare composizione che oggi è rappresentata dall’intima connessione algoritmica fra produzione e comando – laddove cioè i lavoratori costruiscono relazioni significative e produttive il cui valore è estratto dal capitale. In questo caso lo sciopero può riuscire non solo quando rompe il processo di valorizzazione ma recupera l’indipendenza, la consistenza del lavoro vivo quando diviene atto produttivo. Il lavoro vivo macchinico rompe, nello sciopero, l’algoritmo per costruire nuove reti di significazione. Non solo può farlo perché senza produzione da parte del lavoro vivo, senza soggettivazione, non c’è algoritmo. Deve farlo perché senza resistenza non c’è, nel capitalismo, né salario né promozione sociale, né Welfare né possibile godimento della vita. Lo sciopero rivela il futuro, rompendo con la miseria e la soggezione al comando. Dunque sciopero come ripresa della tradizione operaia, portato su tutto il terreno della vita – sciopero sociale. Questa è la figura dello sciopero contro le tecniche capitaliste estrattive del valore dall’intera società.
Ma vi è un secondo punto altrettanto, o forse più, importante d’attacco: è laddove i processi di riproduzione della società si incrociano con il capitale finanziario, con la monetizzazione del processo. È qui chiaro che occorre rompere e ricostruire il meccanismo che lega i consumi alla dimensione monetaria. Il consumo è sempre una cosa buona quando si sappia consumare in relazione ai bisogni di riproduzione della specie – non tanto di quella naturale, genericamente umana, quanto di quella operaia, produttiva, “post-umana”. Ed è questo tipo di consumo che va preso come momento di rottura. Ora, qui è il terreno del Welfare (luogo di organizzazione del dominio su servizi e consumi) che va percorso come terreno di lotta – di esercizio di resistenza e prospettiva alternativa. Lo sciopero astratto diviene qui sciopero materialista. Si tratta di recuperare al lavoro vivo il comando sul consumo e di costruire e/o imporre una “produzione dell’uomo per l’uomo” e non per il profitto.
Lo sciopero astratto, a livello di produzione, impone dunque il recupero dell’indipendenza del lavoro vivo per rompere il processo di valorizzazione; a livello di riproduzione, esige la costruzione e l’imposizione di una nuova sequenza bisogni/desideri/consumi. È caratteristica dell’oggi l’abbondanza di ricerche che s’impegnano nel tentativo (e talora ne esasperano la tensione) di costruire spazi di indipendenza lavorativa dentro le reti produttive maggiormente investite dalla capacità capitalistica di estrazione di valore. La rinascita di mutualismo e l’accresciuta cooperazione nelle reti informatiche non sono altro che prime piste di lotta da approfondire. Sul terreno di rottura della sequenza desideri/consumi (e della loro monetizzazione forzata) sono d’altra parte diffusi gli sforzi per creare moneta bit, e di costruire reti autonome di comunicazione e/o reti indipendenti di consumo – tentativi parziali ma significativi. La loro efficacia non potrà tuttavia diventare decisiva se queste iniziative non si collegano fra di loro e colgono offensivamente quel punto cruciale sul quale la produzione capitalistica trasforma la soggettivazione produttiva in produzione autocratica di soggetti. È evidente che la democrazia politica è incompatibile con la dittatura del capitale finanziario. Lo sciopero astratto assume questo presupposto per indicare una serie di terreni sui quali è necessario intervenire per costruire una potenza indipendente che sappia proporre e rendere possibile un altro mondo democratico.
Per finire. È chiaro che lo sciopero contro l’estrazione del valore e lo sciopero che si muove all’altezza dell’astrazione capitalista dello sfruttamento sociale non sono la stessa cosa. Nel primo caso, infatti, la lotta è diretta all’appropriazione del profitto (o una sua distribuzione più favorevole ai lavoratori) e, nel secondo caso, al rovesciamento di modelli di riproduzione della società e della sua regola capitalista e della contestuale funzionale coniazione di moneta – è chiaro dunque che oggi questi due livelli di lotta non sono identici ma estremamente legati l’uno all’altro. L’uno è orizzontale, l’altro è verticale. L’uno è lotta per l’emancipazione del lavoro, l’altro per la liberazione dal lavoro. Ma, dal punto di vista delle lotte, non si saprebbe distinguerli. Neppure tuttavia si possono confondere – e la ragione consiste in tutto quello che fin qui si è detto: perché l’uno lotta e l’altro costruisce. Lo devono fare separatamente, lo devono fare assieme. In questo sta il compito da svolgere. Fin qui l’analisi, poi viene la praxis. Ed allora è evidente che, se il neoliberalismo impone la dittatura del capitale finanziario, la lotta per la liberazione del e dal lavoro, la lotta comunista impongono alle coalizioni dei lavoratori che si battono sul terreno orizzontale contro lo sfruttamento estrattivo di sapersi innalzare alla produzione di un progetto alternativo alla gestione capitalista – dell’estrazione di valore ma soprattutto della misura – della moneta. Qui ci si scontra con la dittatura. I compagni di Syriza oggi, quelli di Podemos domani: è qui che hanno portato la lotta, sull’incrocio fra emancipazione del lavoro e liberazione dal lavoro. Si riuscirà in Italia a costruire una coalizione di lavoratori altrettanto potente?