Di ROBERTO CICCARELLI e ANTONIO CASILLI.

R. C.: Antonio Casilli, docente all’università Telecom ParisTech, lei ha appena pubblicato in Francia En attendant les robots (Seuil), un’inchiesta sul lavoro digitale. The Cleanersun documentario Hans Block e Moritz Riesewieck diffuso sulla rete Tv Arte, ha rivelato l’esistenza di migliaia di lavoratori del clic nelle Filippine che lavorano per le piattaforme digitali. Chi sono queste persone?
A. C.: Sono lavoratori occupati nel settore del commercial content moderation, la moderazione dei contenuti commerciali. Sono gli operai del clic che rileggono e filtrano commenti sulle piattaforme digitali. Il loro lavoro è classificare l’informazione e aiutare gli algoritmi ad apprendere. Insieme svolgono il machine learning, ovvero l’apprendimento automatico, a partire da masse di dati e di informazioni. La moderazione è uno degli aspetti di un’operazione fondamentale che crea il valore. Il lavoro digitale è l’ingrediente segreto dell’automazione attuale.

Abbiamo conosciuto una parte di questa divisione del lavoro mondiale: l’attività estrattiva di Coltan in Congo, l’assemblaggio di componenti elettrici ed elettronici nelle fabbriche Foxxconn. Oggi si parla delle fabbriche del clic. Che cosa sono?
Esistono diversi modelli di click farms, fabbriche del clic. In certi casi sono divisioni di grandi gruppi industriali digitali americani come Google, Facebook o Amazon, a quelli cinesi o russi. Trattano i dati e spesso le loro attività sono coperte dal segreto industriale. Un altro tipo di fabbrica del clic la troviamo nelle reti globali degli appalti e dei subappalti dove la produzione di dati è esternalizzata verso altre aziende che sono, a loro volta, piattaforme digitali.

Come operano questi lavoratori?
Si connettono alle piattaforme da casa loro, entrano così a fare parte di fabbriche distribuite in rete. Nella maggioranza dei casi sono persone che si trovano in paesi in via di sviluppo ed emergenti. Altre volte operano in piccole strutture localizzate in Cina o in India. Possiamo anche trovare ex fabbriche trasformate in hangar dove centinaia o migliaia di persone, sottoposte a un turn-over molto rapido, operano su computer o smartphone e cliccano per migliorare algoritmi o creare falsa viralità.

In cosa consiste il micro-lavoro digitale?
Per esempio nella digitalizzazione e nel trattamento automatico di 900 milioni di documenti cartacei. Invece di aprire una sede in un paese terzo dove un’azienda può trovare manodopera a buon mercato e condizioni fiscali vantaggiose, si rivolge ad una piattaforma in un paese terzo si occupa di scannerizzare, anomizzare, labellizzare questi documenti in cambio di un abbonamento o un pagamento puntuale. I lavoratori non sono più localizzati in luoghi specifici, non appartengono solo a una città o regione, ma possono essere reclutati dappertutto, purché abbiano la possibilità di connettersi a una piattaforma. Questa economia si sviluppa attraverso un sistema di offshoring on demand in tempo reale l’azienda può decidere di esternalizzare in Cina o nelle Filippine solo un aspetto della produzione, non l’intero processo. La delocalizzazione classica era riservata ad aziende che potevano aprire sedi in paesi terzi, oppure avere partner in questi paesi dove stabilire rapporti commerciali stabili.

Questa divisione del lavoro è stata descritta come un «neo-colonialismo digitale». È d’accordo con questa definizione?
È un’espressione metaforica usata per indicare un’asimmetria di potere, ma indica fenomeni troppo diversi. Può essere utile per descrivere le situazioni in cui lo sviluppo del capitalismo tecnologico ripete forme di sfruttamento coloniale classico. Nel 2016 Facebook ha cercato di imporre «Freebasics», un servizio che permette gli utenti di accedere a una piccola selezione di siti web e servizi, in paesi come l’India o la Colombia. È stato rifiutato dalle autorità e gli stessi investitori hanno ammesso che era un’operazione neo-coloniale. Preferisco parlare invece di un micro-lavoro diffuso che nutre l’intelligenza artificiale dove il Sud non è passivo, ma è molto attivo e compete con cinesi o indiani sugli stessi mercati. Questo avviene perché in questi paesi sono fiorite aziende come i tele-servizi, call center, centri di assistenza a distanza di cui le grandi piattaforme di lavoro digitale rappresentano l’evoluzione. Questi paesi sono anche produttori di tecnologie, acquistano micro-lavoro.

Come definisce questi rapporti di potere?
Migrazioni su piattaforme, arbitraggi della forza lavoro a livello internazionale che non si basano più su aperture di filiali e delocalizzazioni in paesi a basso reddito, né sui flussi migratori dal sud al nord. Sono processi migratori che restano in loco. Negli ultimi trent’anni le frontiere dei paesi del Nord sono state militarizzate, i nostri paesi si sono trasformati in campi di concentramento in cui xenofobi perseguitano migranti e dove i legislatori mettono in atto misure draconiane contro di loro. In questo contesto di migrazione negata, le piattaforme di micro-lavoro a distanza permettono di avere accesso a questa forza lavoro di cui le aziende avranno sempre più bisogno.

Quali sono gli assi principali del mercato digitale mondiale?
C’è quello dal Sud-Est asiatico ai paesi occidentali: Australia, Stati uniti, Canada o Gran Bretagna. Da qualche anno sono emerse altre due dinamiche. La prima è quella dal Sud al Nord: i paesi africani e quelli dell’America del Sud hanno iniziato a lavorare per le aziende del Nord globale.

Per esempio?
In Francia il lavoro digitale necessario per sviluppare l’intelligenza artificiale è prodotto in Costa d’Avorio, in Madagascar, Senegal o Camerun, lì dove esistono micro-lavoratori francofoni che possono interagire con clienti francesi. Dall’altra parte si registra un’esplosione di micro-lavoratori sudamericani su piattaforme americane come Amazon Mechanical Turk, Upwork o Microworkers per le quali lavorano paesi che si trovano in crisi economica e politica come il Venezuela.

Che ruolo ha la Cina in questo mercato?
È un circuito chiuso dove grandi acquirenti e grandi masse di micro-lavoratori si trovano nella stessa macro-area geopolitica ed economica. Questo è dovuto al fatto che in Cina esiste il Witkey, un sistema di trattamento puntuale dell’informazione online attraverso il quale gli utenti possono scambiarsi e vendere servizi e informazioni. In questo sistema ci sono élite che guadagnano bene, diverse migliaia di euro al mese, e la quasi totalità degli altri che invece guadagnano meno di un euro al mese. Le élite aggregano i micro-lavoratori degli altri, sono i caporali digitali.

Quali sono le piattaforme di micro-lavoro cinesi e asiatiche più importanti?
In Cina c’è Zhubajie che aggrega fino a 15 milioni di micro-lavoratori digitali. TaskCn ne aggrega 10 milioni. Epweike, 11 milioni di persone. Esistono altri servizi più piccoli che lavorano con clienti interni. Più raramente con quelli dell’area sinofona come Singapore o Taiwan. In altri paesi asiatici, come la Corea del Sud – paese avanzato e alto reddito – esistono grandi gruppi industriali come Kakao, una specie di galassia di servizi dal pagamento su internet ai taxi alla Uber, fino ai videogiochi. Oppure Naver, un conglomerato basato su un motore di ricerca. Sono aziende che non si rivolgono ai lavoratori del clic dei paesi limitrofi, probabilmente per motivi linguistici, culturali e commerciali.

Esiste una competizione tra Cina e Usa per il primato mondiale anche in questo settore? 
Va inquadrata nella competizione sull’intelligenza artificiale e sulle sue soluzioni. La Cina gioca su due piani. Da una parte, ci sono i grandi gruppi industriali parastatali come Baidu, Alibaba e Tencent, le cosiddette «Bat» – che competono con i «Gafa» americani, Google, Amazon, Facebook, Apple e gli altri. Dall’altra parte, la Cina è il paese del micro-lavoro che compete con altri paesi emergenti e in via di sviluppo. L’India con i due grandi cluster industriali digitali a Bangalore e a Hydebarad che producono tecnologie e reclutano i cottimisti del clic. La Cina deve essere competitiva su entrambi i fronti: produrre intelligenza artificiale abbastanza di punta per interessare il pubblico globale del Nord e essere competitiva con la manodopera dequalificata e sottopagata che rende possibile l’automazione, in India, in Nigeria o in Madagascar.

Quanti sono i lavoratori del clic in Francia, negli Usa o in Italia?
In una ricerca pubblicata da poco abbiamo stimato in Francia una platea di 266 mila lavoratori occasionali, al cui interno esistono decine di migliaia di persone molto attive. Negli Usa le stime sono più complesse: alcuni studi recenti parlano di 100 mila persone su Amazon Mechanical Turk, oltre a quelle che lavorano per Upwork o PeoplePerHour o Raterhub di Google. Anche l’Italia è un paese di micro-lavoratori, ma non è un paese di aziende che comprano micro-lavoro e sviluppano intelligenza artificiale. Questo la dice lunga sul tessuto produttivo e sul suo settore industriale digitale.

Cosa rappresenta il pagamento anche di pochi centesimi per clic per questi lavoratori?
La promessa di accedere a un minimo di attività remunerata. Nei paesi africani e asiatici il micro-lavoro necessario per calibrare l’intelligenza artificiale è presentato da campagne di marketing invasive come la promessa del lavoro del futuro per le giovani generazioni che arrivano da zone periferiche, ma vivono anche in quelle urbane svantaggiate e non hanno la possibilità di accedere a un lavoro formalmente riconosciuto. Sono persone non diplomate che non hanno qualifiche professionali. Lavorano negli internet caffè o da casa. Ci sono le donne alle quali è richiesto un lavoro flessibile che può armonizzarsi con quello di cura per gli anziani e per i figli che continuano a pesare sulle loro spalle.

In che modo questo proletariato digitale può autodeterminarsi e prendere coscienza della sua centralità?
Una condizione storica è il superamento del quadro concettuale dell’automazione digitale totale. Quella che attualmente gli operai del clic vivono è una condizione precaria perché il loro lavoro è presentato come effimero ed è destinato a scomparire. Gli si fa credere che stanno segando il ramo sul quale sono seduti. Il mio sforzo è dimostrare che questo non è vero. Stiamo creando una tecnologia che ha bisogno di lavoro umano e ne avrà bisogno sempre di più. Questo lavoro non sarà mai sostituito da un’automazione. Ed è per questo che le lotte per il riconoscimento di questo lavoro sono legittime e necessarie.

Quali strade possono seguire?
Quella tradizionale del sindacato, delle leghe e del coordinamento di base. La strada del cooperativismo tra le piattaforme, un movimento esistente che cerca di digitalizzare le strutture mutualistiche del XIX e del XX secolo e creare alternative solide alle piattaforme capitalistiche attuali. C’è poi la strada dei commons digitali che creano condizioni economiche materiali per raggiungere il potenziale veramente anarchico delle piattaforme politiche teorizzate dai Diggers nell’Inghilterra del Seicento. Dobbiamo riscoprire il vero significato del concetto di «piattaforma»: il superamento della proprietà privata, l’abolizione del lavoro salariato e la creazione del governo dei beni comuni.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 26 febbraio 2019.

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