Presentiamo qui i materiali che compongono il Quaderno di EuroNomade dedicato al Contropotere. Il Quaderno può essere scaricato cliccando qui.


A cura di LEO MANTOVA

A commento di questa definizione di contropotere come violenza/autovalorizzazione della classe operaia in lotta, basti vedere gli scritti raccolti in A. Negri, I libri del rogo (Roma, DeriveApprodi, 2006) che contiene Crisi dello Stato-piano (Milano, Feltrinelli, 1974), Partito operaio contro il lavoro (in S. Bologna, P. Carpignano, A. Negri, Crisi e organizzazione operaia, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 99-160), Proletari e Stato (Milano, Feltrinelli, 1976), Autovalorizzazione operaia e ipotesi di partito (in A. Negri, La forma Stato, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 297-342), Il dominio e il sabotaggio (Milano, Feltrinelli, 1978).

Questa definizione di contropotere si contrappone ad ogni concetto di contropotere come pura espressione di antagonismo destituente. Di contro, essa esprime due operazioni diverse ma (se non contemporanee) profondamente collegate. La prima è la rottura (sabotaggio/separazione) del nesso che nel capitale unisce la soggettività del valore d’uso della forza-lavoro e l’oggettività del lavoro-merce sussunto nel capitale (vedi Grundrisse, Berlino, 1953, p. 185-186; Tronti, Operai e capitale); la seconda corrisponde all’approfondirsi dell’esperienza di sabotaggio/separazione dal dominio e all’insorgere di un “altro” modo di vivere e di produrre – vissuta dalla soggettività in lotta ed espressa come autovalorizzazione, dispositivo di costruzione di un “radicalmente altro” ordine di produzione e modo di vita.

Il concetto di contropotere così definito (e le esperienze che se ne fanno) toglie di mezzo ogni dialettica totalitaria del ed interna al potere del capitale, e cioè ogni dialettica del capitale sviluppata in termini idealisti – nella luce, ad esempio, della lettura kojeviana (e/o habermassiana) della hegeliana dialettica servo-padrone. In queste letture, il contropotere della classe è immaginato come prodotto di una soggettività servile che, affermando la dignità e la potenza del proprio produrre, vuole padroneggiare – contro il padrone capitalista – lo sviluppo del capitale e prenderne il posto. In questa prospettiva, la dialettica è divenuta un nesso stringente che assorbe la negatività delle lotte (e delle resistenze) nello stesso sviluppo del capitale. Kojève ha illustrato questo meccanismo nelle ambiguità che sottendeva. I filosofi e i sociologi francofortesi hanno tolto ogni ambiguità a questa dialettica, sostenendo che essa necessariamente si svolgesse dentro lo sviluppo capitalista – ed elogiando, in tal modo, una versione del socialismo riformista (e/o di riformismo liberal) che è stata prevalente in Occidente dopo il New Deal e dopo la fine della Seconda guerra mondiale (nel periodo della Guerra fredda).

Questa riflessione sul contropotere si colloca, alla sua nascita, contro il riformismo socialista che dopo il 1968 vuole assorbire, schiacciandole e distruggendole, le istanze di autovalorizzazione rivoluzionaria prodotte dalla nuova composizione della classe lavoratrice, a fronte della ristrutturazione socializzata e cognitiva della valorizzazione capitalista.

Oggi essa rappresenta ancora una puntuale risposta ai tentativi neoliberali di sviluppare il potere come governance individualizzata a livello sociale e di affondarla sempre più profondamente e largamente nella vita comune dei lavoratori.

Sempre questo esercizio di contropotere richiama Marx e Fourier nell’esaltare la gioia del rifiuto del lavoro contro la triste ferocia del dominio capitalista.

Fonte: A. Negri, Dominio e sabotaggio, Milano, Feltrinelli, 1974, pp. 45-46, pp. 68-69, pp. 70-71.

Autovalorizzazione proletaria è sabotaggio. Come si concreta il progetto? Il salto dal rilevamento fenomenologico della nostra esistenza separata all’espansione della forza del processo di autovalorizzazione si organizza su un metodo della trasformazione sociale che è immediatamente metodo di conoscenza. L’obiettivo determinato del processo è l’esaltazione del valore d’uso del lavoro contro la sua sussunzione capitalistica, contro la sua mercificazione, contro la sua riduzione a valore d’uso del capitale. Ma come avviene la sussunzione capitalistica, oggi? Essa avviene attraverso il comando, la gerarchia, la rendita. L’unità del lavoro sociale che la classe operaia con la sua lotta ha tendenzialmente determinato, il capitale tenta di dominarla e controllarla nella divisione. Il tema fondamentale del progetto comunista è sempre stato quello dell’unità, della ricomposizione di classe operaia. Oggi il tema dell’unità si sperimenta tutto attorno al problema della ricomposizione del lavoro sociale produttivo. Da questo punto di vista distruggere i meccanismi della rendita è fondamentale. Non bisognerà, nei prossimi anni, nei prossimi mesi, temere di entrare nelle fabbriche, come reparti del lavoro produttivo sociale, per imporre agli operai di fabbrica, comperati illusi mistificati dalla pratica riformista, per imporre loro il riconoscimento della centralità del lavoro produttivo sociale. Essi ne fanno parte, non sono né sopra né sotto né a fianco: ci sono dentro essi stessi, devono riconoscerlo. Devono rientrare a far parte di quell’avanguardia del proletariato da cui riformismo ed eurocomunismo li hanno esclusi! L’autovalorizzazione operaia si fa in questo caso sabotaggio specifico dei meccanismi di separazione operaia che la forma-Stato ha assunto nella sua costituzione materiale.

Parliamone con chiarezza perché se la violenza, il suo esercizio proletario sono l’efficacia dell’autovalorizzazione proletaria, noi non possiamo che produrre e riprodurre lo sforzo per legittimarla. Legittimare la violenza è, per i borghesi, costruire ordinamenti, giuridici economici amministrativi. Ogni ordinamento sociale borghese è una certa legittimazione della violenza. Lo sviluppo capitalistico era la sorgente “razionale” della legittimazione della violenza negli ordinamenti. Entrando in crisi la legge del valore, la violenza capitalistica e gli ordinamenti che la funzionalizzano non trovano più una sfera di esplicazione e di credibilità. La violenza non è più mediata, non è più razionalmente legittimata: gli ordinamenti sopravvivono come pura violenza, destrutturati. Noi, classe operaia e proletariato, abbiamo prodotto questa destrutturata insensatezza del potere! Di contro, agendo per la destrutturazione dell’avversario, si sviluppa autovalorizzazione: nella mancanza di ogni pur minima omologia con l’avversario, nella scoperta della razionalità dello sviluppo del lavoro vivo contro la morte del capitale, nel rivelamento della ricchezza di possibilità e di qualità della vita collettiva. Bene, è questa razionalità del lavoro vivo, è questa intenzione qualitativa che fonda il collettivo e la sua prassi – è dunque questa razionalità dei bisogni fondamentali che determina la legittimità della nostra violenza. Una violenza non omologabile a quella capitalistica perché la razionalità che la regge è assolutamente diversa, alternativa, proletaria. […] Una violenza contraria a quella capitalistica, intesa alla distruzione del sistema e del regime del capitale, fondata sulla autovalorizzazione di classe – e non eguale in intensità, ma più forte, più efficace di quella capitalistica. È una condizione essenziale perché si possa vincere. Una condizione ovvia. Tutto il processo di autovalorizzazione determina (ed è dentro a) questa violenza sia nei suoi aspetti qualitativamente diversi sia nei suoi aspetti quantitativamente più intensi. Non di opporre terrore a terrore quindi si tratta, e chi si diverte ad immaginare il proletario intento alla costruzione dell’atomica tascabile è solo un provocatore. Ma di opporre al terrore un’opera di sabotaggio e di riappropriazione di conoscenza e di potere sull’intero circuito della riproduzione sociale, tali da rendere al capitalista la possibilità di terrore come condizione suicida.

Il dominio e il sabotaggio. Il sabotaggio è dunque la fondamentale chiave di razionalità che possediamo a questo livello di composizione di classe. Una chiave che permette di svelare i processi attraverso i quali la crisi della legge del valore è venuta man mano investendo l’intera struttura del potere capitalistico, togliendone ogni interna razionalità e spingendola ad essere efficace spettacolo di dominio e distruzione. Una chiave che permette d’altra parte di identificare, sui ritmi stessi della destrutturazione capitalistica (ma non in maniera omologa), la capacità della lotta proletaria di rendersi indipendente, di procedere nel processo della propria autovalorizzazione, di trasformare il rifiuto del lavoro in misura del processo di liberazione. La forma del dominio capitalista si disarticola davanti a noi, la macchina del potere si spanna. Il sabotaggio insegue quest’irrazionalità del capitale imponendole ritmi e forme dell’ulteriore sua disorganizzazione. Il mondo capitalistico ci si rivela per quello che è: una rete gettata a bloccare il sabotaggio operaio dopo essere stata una macina di plusvalore. Ma una rete già troppo spezzata. Il rapporto di forza s’è rovesciato: la classe operaia, il suo sabotaggio sono la forza più alta ma soprattutto l’unica fonte di razionalità e di valore. Di qui in avanti non è possibile, anche teoricamente, dimenticare questo paradosso prodotto dalle lotte: quanto più la forma del dominio si perfeziona tanto più è vuota, quanto più il rifiuto operaio cresce tanto più è pieno di razionalità e di valore. La forza, la violenza, il potere: non possono misurarsi che su questa legge. Ed è su questa legge, è sulla serie di corollari che ne vengono, che l’organizzazione, il programma, le previsioni dei comunisti debbono fondarsi. Il nostro sabotaggio organizza l’assalto proletario al cielo. E finalmente non ci sarà più quel maledetto cielo!

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