di Sandro Chignola
- Chi abbia memoria degli ultimi vent’anni di mobilitazione per i diritti dei migranti non avrà difficoltà a riconoscerlo: uno spazio europeo delle lotte è esistito dal principio come tracciato di mobilitazioni antirazziste, contro i centri di detenzione, contro quella che, allora, veniva chiamata la Fortress Europe. Sin dalla metà degli anni novanta, nelle occupazioni dei sans papiers, nelle sollevazioni delle banlieues francesi prima e nelle periferie inglesi poi, nell’autorganizzazione dei migranti a Genova e in altri luoghi, nel consolidarsi delle reti europee contro i centri di detenzione per i clandestini e nelle azioni volte a denunciarne e contrastarne la barbarie, ciò che veniva posta al centro dell’attenzione, da parte di militanti ed attivisti, era la consapevolezza che la mobilità dei migranti disegnava una propria, differente, spazialità e che le linee di questa spazialità incrociavano, destabilizzavano e revocavano da subito, immediatamente, il sistema di segni (gerarchie, confini, localizzazioni) sui quali l’Unione europea veniva costruendo la propria idea di cittadinanza. Il migrante, a differenza delle retoriche allora imperanti, non era un soggetto in transito la cui esistenza potesse essere discrezionalmente trattenuta sul limite (il limite tra un ingresso ed un espulsione, innanzitutto…), né il residuo sul quale l’idea stessa di cittadinanza potesse continuare ad esercitare la propria potenza di formalizzazione. Il migrante si muoveva e si muove, revoca nella sua propria esistenza il sistema di localizzazioni sul quale l’Europa costruisce la propria sfera di cittadinanza, si mostra irriducibile ai dislivelli imposti dai differenti regimi di sfruttamento sui quali essa fa scivolare il proprio progetto di integrazione dei mercati. Prima di tutto, dei differenti mercati del lavoro.
- Le lotte con i migranti e per i diritti dei migranti hanno incontrato in quest’ultimi una forma di soggettività specifica e difficile da incasellare. Spesso proveniente da paesi che non hanno conosciuto il regime di accumulazione e di compromesso sociale fordista, quasi sempre precario anche se spesso in possesso di titoli di alta scolarizzazione conseguiti nel paese di provenienza, dotato di ottime competenze linguistiche, molto spesso in grado di rifiutare, proprio per l’alta mobilità che lo caratterizza, situazioni di sfruttamento e di ricatto che lo introducono ai gironi più bassi di un mercato nazionale del lavoro e in grado di far gioco, invece, sulle reti di assistenza parentale o di vicinato per spostarsi altrove, il migrante ha ben presto insegnato a militanti ed attivisti che le lotte contro i dispositivi di legge nazionali che intendevano filtrare e/o limitare l’immigrazione extraeuropea, benché giuste e legittime, non coglievano il cuore del problema. Battersi contro l’esclusione e il patente razzismo delle retoriche pubbliche è servito, per tutto il ciclo di lotte degli anni 90, a spostare l’attenzione dei militanti sulla nuova composizione del lavoro vivo, sulle contraddizioni che la attraversano, sulla necessità di affrontare il limite della discorsività dell’integrazione. Quella stessa discorsività che riaffiora ovunque oggi, in Europa, quindici anni più tardi.
- Formatisi come reti antirazziste prima e come strutture di intervento transnazionali contro i Centri di detenzione poi, le forme di mobilitazione per i diritti dei migranti hanno rappresentato sin dagli anni 90 il basso continuo che ha accompagnato sul lato interno i movimenti sociali e, sul lato esterno, il ritmo incalzante delle lotte quotidiane dei e delle migranti. Di qui il tratto caratterizzante la stagione appena trascorsa: la costante ridiscussione delle pratiche e delle teorie dell’antirazzismo come risposta obbligata all’impossibilità di catturare in un frame stabile, fermo, il rapidissimo movimento dei processi migratori e il sistema di trasformazioni da essi indotti. Da un lato, sollevazioni e stati di crisi locali (da Parigi all’Austria, dalla Grecia alla Sicilia, dalla Bulgaria a Londra, da Roma a Berlino…) dall’altro il formarsi di agende e di claims comuni, l’acquisire spessore di un linguaggio delle lotte, la verifica del fatto, spinta sempre più in radicalità, che una Fortress Europe non c’e’ perché i suoi confini non si limitano ad escludere, ma passano all’interno, si inscrivono sulla pelle dei migranti e tracciano le molte forme della precarietà contemporanea, si estendono sulle generazioni, frammentano e gerarchizzano spazi e tempi della metropoli. Di qui nuove consapevolezze. Lottare con i migranti e con le migranti ha significato portare alla luce il sistema di inclusione differenziata con il quale lavora il capitalismo contemporaneo. Ha significato indagare il supplemento che la razza incide nel mercato del lavoro; comprendere quanto le forme del lavoro precario siano differenziate al loro interno, quanto siano materialmente frastagliati i confini e le figure della cittadinanza aproblematicamente evocati, invece, dal dibattito europeo su cittadinanza e integrazione.
- L’insistenza sul lessico dell’integrazione, parola che costantemente cade dalle labbra dei governanti in tutta Europa, e’ effetto di una doppia nostalgia. La nostalgia per un sistema di erogazione e di riconoscimento dei diritti irretito in una costituzione e la nostalgia per un dispositivo di sicurezza sociale volto a recuperare ogni eccedenza. Ebbene, anche per gli europei questo doppio sistema di riconoscimento, imperniato sulla figura del capofamiglia bianco, maschio e lavoratore a tempo indeterminato, appare ormai del tutto non operativo. Di qui alcune conseguenze decisive. La prima concerne l’inutilità delle retoriche difensive. Istituzioni capaci di riconoscere ed implementare i diritti dei migranti (così come dei precari europei) non ci sono e non esistono se non vengono pensate e conquistate ex novo. La seconda riguarda i singoli contesti nazionali. L’Europa va conquistata come dimensione ineludibile di mobilitazione perché i quadri classici della cittadinanza non possono in alcun modo essere pensati come il riferimento per l’integrazione o per la difesa dei diritti delle nuove generazioni europee. Le lotte delle soggettività migranti – lotte per la mobilità, per la formazione, per una vita degna – hanno sempre più radicalmente fatto allusione a questa dimensione destituente e costituente assieme. La terza conseguenza è il fatto che per i migranti e per le migranti, di prima, seconda o di terza generazione, la cittadinanza è un progetto e non un dato, una grammatica per le lotte e non un quadro al quale appendere l’esito di un riconoscimento.
- Di qui la rinnovata centralità delle questioni di cittadinanza. Di una cittadinanza come costante processo di attraversamento dei confini, innanzitutto. Confini culturali e identitari, confini immaginativi, confini spaziali e confini temporali. Ciò che i migranti ci hanno insegnato è che i diritti vanno conquistati a partire dall’eccedenza di una soggettività che ritrascrive e che risemantizza, riappropriandoli in termini costituenti, lessico e istituzioni del diritto e della cittadinanza. Indebitati sin dal principio del progetto migratorio, ricattati sul posto di lavoro dalla necessità di mantenere il permesso di soggiorno, costantemente a rischio di perdere casa e contratto, il migrante e la migrante sono la figura esemplare del lavoro vivo contemporaneo e della compiuta destrutturazione dei dispositivi di integrazione welfarista del cittadino-lavoratore. E non solo: essi sono le figure dell’Europa che viene. Un’Europa attraversata dal proprio Sud e dalle lotte che si accendono nel Maghreb per esplodere nei circuiti padani della logistica. Un’Europa reinventata dai tracciati soggettivi che la percorrono. Un’Europa come crocevia di processi costituenti senza memoria e senza nostalgia. Mettere a tema questa Europa – un progetto riappropriato dal basso delle lotte, ritmato del farsi del comune – non può prescindere dai migranti, dal rilancio delle lotte per i nuovi diritti sociali, dalla quotidiana mobilitazione di precari, cognitari e nuovi cittadini europei.
[Questo testo è stato redatto come materiale preparatorio dell’incontro di Passignano, in particolare per la discussione di venerdì 6 settembre, Oltre il limite: pratiche e strategie per il Commonwealth europeo]