CLAP – CAMERE DEL LAVORO AUTONOMO E PRECARIO (tratto da http://www.clap-info.net) «Se le nostre vite non valgono, non produciamo»! Nei mesi scorsi queste parole hanno vibrato con forza: nel corso degli Scioperi delle donne Argentine contro la violenza di genere, in Polonia contro il divieto di aborto, in Islanda e Francia contro le disparità salariali, passando per le manifestazioni oceaniche contro Trump.

Quello che abbiamo sotto gli occhi, la globalità del movimento Non Una di Meno, è una multiforme insorgenza che, a partire da una radicale resistenza al dominino maschile (nelle fenomenologie segnate dalla violenza simbolica, fisica ed economica), ha inaugurato una stagione di lotte che molto può raccontarci delle nuove forme di sfruttamento, ma anche dei nuovi modelli di organizzazione del conflitto, nel quadro mutato del lavoro: si tratta di elementi largamente presenti nei cortei straordinari del 26 novembre scorso, giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne, che li ha riassunti in maniera costitutiva.

Se da un lato l’insieme di queste lotte sono esplose a partire da fatti specifici (la proposta di legge contro l’aborto in Polonia, i femminicidi atroci in Argentina e in Sud America come in Italia, le discriminazioni sul lavoro in altri paesi), dall’altro c’è stata la capacità di cogliere e combattere questi accadimenti, parlando immediatamente di pretese parziali, legate alla dimensione rivendicativa, ma mettendo in campo un’esondazione, sotto la forma della marea, del desiderio di autodeterminazione.

In altri termini: gli Scioperi delle donne denunciano definitivamente e senza ambiguità il tratto costitutivo della violenza del capitalismo, mostrando come la violenza di genere, le disparità salariali, le discriminazioni e il controllo della riproduzione siano elementi fondativi della valorizzazione e dello sfruttamento. Non è un caso che la forma di lotta messa in campo in queste vere e proprie sommosse globali contro il sistema di subordinazione delle donne sia proprio lo Sciopero: ovvero la sottrazione, il rifiuto, il tradimento, l’eterotopia alle maglie del capitalismo stesso.

Ciò che sta emergendo nei percorsi che conducono allo Sciopero globale delle donne del prossimo 8 marzo è un paradigma che ha saputo afferrare, nelle dinamiche di sfruttamento del lavoro, uno degli aspetti centrali delle forme di ri-costruzione del dominio maschile. Un movimento che ha saputo leggere nella ferocia del rapporto capitale/lavoro il terreno da ri-aggredire, in chiave femminista, con l’obiettivo di formulare ipotesi politiche concrete, e strategie organizzative praticabili, per la costruzione dal basso di vie di fuga, di processi collettivi di conflitto e contrasto alla violenza maschile, di genere, e alle condizioni di precarietà economica ed esistenziale. Una potente irruzione femminista che ha delineato nell’attitudine intersezionale la giusta postura per qualificare la combinazione tra genere, classe, razza, età, non tanto come mera sommatoria di attributi, ma come un insieme di dispositivi di gerarchizzazione e soggettivazione. Un processo insorgente e generativo di nuova vitalità politica decisivo per chi, in questi anni, ha sperimentato forme di organizzazione autonoma del lavoro vivo, forme di autogoverno che dispongono pratiche di sindacalismo sociale.

Il movimento femminista globale ha proclamato lo sciopero, qualificandolo come pratica di sottrazione alla violenza del lavoro produttivo e riproduttivo. Una violenza, è vero, che colpisce tutte le soggettività messe a lavoro, ma in misura differenziale: tra le donne, infatti, si registrano tassi di disoccupazione e inattività decisamente superiori rispetto agli uomini, negazione sostanziale e formale del diritto alla maternità, mobbing, molestie e ostacoli, se non veri e propri sbarramenti.

Condizione, è bene specificarlo, aggravata in Italia dal Jobs Act, il compimento di una radicale cancellazione delle tutele delle lavoratrici e dei lavoratori: basti pensare ai voucher, che si estendono a dismisura dopo un decennio di politiche neoliberali, dove l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro vivo si è affiancata a una crescente segmentazione, individualizzazione, erosione dei diritti. Il voucher rappresenta un dispositivo emblematico della precarizzazione, anche da un punto di vista etimologico: è un “buono”, un coupon paragonabile a uno scontrino per ora di lavoro teoricamente effettuata, che sgancia definitivamente il lavoro stesso dal contratto e quindi dal riconoscimento dei diritti economici e sociali a esso connessi. Il sistema-voucher sembra così implicare l’estensione a tutto il lavoro vivo delle condizioni di subordinazione e messa a valore degli aspetti riproduttivi tipici del lavoro femminile, ovvero di quei tratti che storicamente hanno caratterizzato le attività di cura. Da una parte, quindi, l’obbligo a una piena disponibilità del tempo, l’intermittenza e la gratuità lavorativa; dall’altra, una modalità specifica di sfruttamento che mette al lavoro le soggettività stesse, nelle forme e stili di vita, capacità relazionali e di cura.

Sebbene questo processo riguardi il lavoro nel suo complesso, esso colpisce però ancora le donne in modo particolare, perché è ancora vigente uno specifico regime di divisione sessuale del lavoro. Il capitalismo contemporaneo, infatti, sussume l’interezza del lavoro di cura femminile, sfruttando ciò che storicamente era confinato nella sfera della riproduzione domestica. In questo quadro, il voucher sembra avere una potente capacità performativa: modella la realtà e la natura del lavoro contemporaneo, oggettivando e intensificando l’individualizzazione e la parcellizzazione del lavoro.

Non possiamo non leggere che il tratto saliente di questo movimento globale sia un potente desiderio di creare nuovi istituti. Il Piano femminista contro la violenza ci parla in primo luogo di questa spinta costituente. Così il reddito di autodeterminazione, che è rivendicazione importante del Piano, inteso come strumento a garanzia dei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, per costruire reti di mutuo soccorso, ma anche per attaccare il ricatto della precarietà, l’obbligo di accettare qualsiasi lavoro, sia esso gratuito o sottopagato.

In tal senso, ciò che ora appare cruciale mettere in luce, anche solo nella forma di ipotesi, è la messa al centro del desiderio quale matrice e motore di conflitto attraverso le forme inedite di Sciopero praticate da centinaia di migliaia di donne in diversi continenti, dalla Polonia all’Argentina, dalla Francia all’Islanda, e che hanno elaborato l’8 marzo come possibile tappa di un più ampio processo di mutamento sociale.

Il riconoscimento, in questo processo, è fondamentale, e probabilmente non passa solo dalla consapevolezza di essere precarie e precari, e quindi di rendere visibili le condizioni di sfruttamento. La mossa rivoluzionaria degli Scioperi femministi è quella di ripartire dalla formulazione politica del desiderio di autodeterminazione e liberazione. In questo senso lo Sciopero femminista globale è uno Sciopero politico, perché significa rifiutare politicamente un sistema di sfruttamento, un immaginario, un paradigma complessivo di soggettivazione, opponendo immaginari, relazioni, orizzonti differenti che parlano di reddito e welfare.

Quel che sta succedendo, e gli strumenti che le donne hanno scelto per scioperare l’8 marzo, innovano in modo dirompente lo Sciopero, qualificandone la dimensione moltitudinaria. Sarà Sciopero globale, dei e dai genere, della produzione e della riproduzione. A questa altezza va posta anche la sfida del sindacalismo sociale. Solo dentro questa tensione tra pratica organizzativa e produzione teorico-politica è possibile comprendere come i processi insorgenti che stiamo vivendo aprano inediti e straordinari spazi di conflitto.

Un torto fatto a un@ è un torto fatto a tutt@

CLAP – Camere del Lavoro Autonomo e Precario

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