Di STEFANIA BARCA

A fine marzo scorso, nel pieno della pandemia da Covid-19 e del regime di quarantena che affettava ormai gran parte della popolazione mondiale, è partita la campagna internazionale Care Income Now – ossia per l’istituzione di un reddito di cura – promossa dal Global Women Strike e dalla piattaforma Green New Deal for Europe. Si tratta di una proposta politica che era stata in preparazione nei mesi precedenti, nell’ambito di un piano di riconversione sistemica dell’economia europea cui avevo partecipato insieme a un folto gruppo di studios* e attivist* di diversi paesi. Il mio contributo si stava concentrando sulla formulazione di nuove politiche di piena occupazione finalizzate alla transizione ecologica – i Green Public Works – quando la discussione prese una piega nuova con l’ingresso nel gruppo di Nina López e Selma James (figura storica del movimento femminista internazionale). Insieme con Giacomo D’Alisa, altro co-autore del report, cominciammo a ragionare collettivamente su come il lavoro di cura non retribuito andasse considerato un contributo fondamentale al benessere socio-ecologico, e rientrasse dunque a pieno titolo nel piano per una transizione giusta.

L’irruzione del Covid-19 nelle nostre vite ha rappresentato l’occasione per approfondire questa discussione, ma anche per decidere di fare un passo avanti nel portarla all’attenzione dei diversi movimenti che si stanno mobilitando in questa congiuntura. Questo perché, come è evidente, la pandemia e il regime di quarantena hanno aggravato enormemente il carico del lavoro di cura non retribuito. L’esempio più comune è quello dell’istruzione dei figli; ma si potrebbero anche menzionare le azioni di solidarietà e di sostegno verso i soggetti più colpiti, di cui si stanno facendo carico tanti centri sociali e collettivi. Inoltre, la pandemia ha richiamato la nostra attenzione sull’importanza della produzione di cibo al di fuori dei circuiti dell’agribusiness – dagli orti urbani all’agricoltura contadina – che è emersa come una forma essenziale di lavoro da sostenere sempre più in futuro, anche in vista della sua funzione di contenimento rispetto a rischi pandemici. Anche quando si tratti di produzione per circuiti di mercato, gran parte di questo lavoro consiste in cura del comune (suolo, acque, microrganismi, vegetazione, semi) che viene svolto in forma non retribuita. La pandemia si è configurata insomma come condizione storica per la riemersione, in forme nuove, delle lotte per il salario al lavoro di cura non retribuito. Ha reso tale lavoro più evidente, ne ha chiarito il carattere di imprescindibilità, e ha mostrato in maniera più chiara le profonde disuguaglianze che lo caratterizzano; inoltre, ne ha allargato la sfera semantica, rendendo evidente come tale lavoro abbia luogo non soltanto nella casa, ma anche nei quartieri delle nostre città, e nei territori rurali intorno ad esse.

Dal momento che la campagna Care Income è venuta di fatto affiancandosi ad altre rivendicazioni per il reddito emerse in questa congiuntura di quarantena, penso sia importante chiarire cosa questa campagna intenda per reddito di cura, per poter avanzare ipotesi su come quest’ultimo possa relazionarsi con il reddito universale di base (UBI).

Così come concepito nella campagna Care Income Now e nel GNDE, il reddito di cura ha lo scopo primario di livellare le disuguaglianze generate dalla mancata retribuzione di gran parte della cura domestica – indipendentemente da chi la svolge. Esso eredita la lezione storica della campagna per il salario al lavoro domestico, il cui obiettivo era quello di combattere le profonde disuguaglianze di genere, ma anche di classe e razza, che caratterizzavano – e ancora in larga parte caratterizzano – il lavoro domestico. Il Care Income persegue questo obiettivo rivendicando il principio che il lavoro di cura non retribuito è socialmente necessario e contribuisce in modo fondamentale al benessere collettivo, dunque ha pari dignità rispetto al lavoro retribuito, e che tale dignità, per avere un significato reale, esige un riconoscimento monetario. L’intuizione di fondo è che una equa remunerazione avrebbe l’effetto di elevare lo status sociale del lavoro di cura non retribuito, permettendo a tuttx (di qualsiasi sesso/genere, classe sociale e colore della pelle) di svolgerlo in condizioni dignitose.

Allo stesso tempo, il Care Income estende il significato di lavoro di cura dalla sfera domestica a quella comunitaria e ambientale. Riconosce che esiste in questi ambiti una enorme quantità di lavoro non retribuito, svolto volontariamente, per solidarietà ma anche necessità di sopperire a carenze istituzionali, specialmente in ambiti socialmente svantaggiati, affetti da degrado e abbandono, o minacciati dallo ‘sviluppo’ capitalistico. Il reddito di cura riconosce la rilevanza sociale di questo lavoro, che nella gran parte dei casi è svolto in forma collettiva e auto-organizzata attraverso associazioni e reti informali, e stabilisce il principio che tale lavoro vada compensato.

È importante specificare che il Care Income non è la stessa cosa di un reddito universale di base, ma si somma ad esso; mentre quest’ultimo (specialmente nella forma più radicale proposta dal movimento Non Una di Meno), punta a garantire il diritto all’autodeterminazione per tutti i soggetti sociali, indipendentemente dalle funzioni che svolgono, per combattere tutte le forme di ricatto e violenza legate alla dipendenza economica, il reddito di cura punta invece a compensare chi effettivamente svolga lavoro di cura non retribuito. Dunque, mentre il reddito di base serve a garantire auto-determinazione a tuttx, il reddito di cura serve per compensare il lavoro di cura al pari di altri lavori: esso si verrebbe dunque a sommare al reddito di base, così come è implicito che facciano altre forme di salario. Questa caratteristica rende il Care Income diverso e complementare anche alle rivendicazioni che puntano a compensare la perdita di reddito da lavoro salariato dovuta alla quarantena, avanzate attraverso altre piattaforme e lotte, per esempio quella di operatrici e operatori dei servizi sociali esternalizzati; o quella per le garanzie salariali nel settore domestico e di assistenza. La campagna per il Care Income copre invece un’ulteriore «terra di nessuno», quella del lavoro di cura non retribuito. Qui si tratta di rivendicare un diritto allo stato attuale negato – quello di riconoscimento e retribuzione per mansioni svolte de facto nell’ambito domestico, sociale o ambientale. Non si tratta dunque di garantire il mantenimento di un reddito esistente, ma di rivendicare l’istituzione di uno che non esiste.

In sintesi, il reddito di cura stabilisce un principio politico di uguaglianza e di giustizia sociale. Rifiutando la logica capitalista di valorizzazione del lavoro di cura attraverso il mercato, ne stabilisce il carattere di necessità per il benessere socio-ambientale, e ne rivendica un’equa compensazione su questa base. Nel fare ciò, il Care Income ridefinisce il significato di «necessità sociale», secondo la logica femminista che quest’ultima non coincida con la produzione di valore aggiunto – cioè con le attività lavorative che contribuiscono maggiormente alla crescita del PIL – ma piuttosto con la riproduzione sociale, cioè con le attività che maggiormente contribuiscono al benessere collettivo.

Senza dubbio, regolamentare e implementare il reddito di cura solleverebbe una serie di problemi pratici. Chi ne avrebbe diritto, come dimostrare che si possiede tale diritto, come calcolarne il compenso? Tali questioni non sono definite nella campagna per il Care Income – naturalmente, poiché si tratta di una vasta campagna internazionale tesa a stabilire un principio politico e rivendicare un diritto ad esso collegato. La regolamentazione deve dipendere dal contesto, e basarsi su sperimentazioni e sugli studi ad esse collegati. Ma tali sperimentazioni e studi necessitano di una domanda politica, di una spinta dal basso che esprima bisogni e principi in larga risonanza con la realtà vissuta da ampi soggetti collettivi. Sono convinta che la campagna per il Care Income costituisca una opportunità unica per affermare politicamente il nuovo senso comune che sta emergendo dall’attuale fase di convergenza tra lotte e movimenti che lavorano per la giusta transizione verso una normalità post e anti capitalista/patriarcale.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto l’8 maggio 2020.

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