di FRANCESCO FERRI.
Adam, 27enne originario del Darfur, riferisce ad Amnesty International quello che gli è successo dopo lo sbarco a Catania e il trasferimento alla locale stazione di polizia.
“Ci chiedevano solo di dare le impronte. Io ho rifiutato. C’erano sei poliziotti in uniforme. Mi hanno picchiato col manganello sulle spalle, al fianco e sul mignolo della mano sinistra, che da allora non riesco a raddrizzare”.
Il racconto di Adam si interseca e si sovrappone alle decine di testimonianze che, messe in fila nel rapporto Hotspot Italia, ricostruiscono un quadro di diffusa e generalizzata violenza esercitata contro i migranti contestualmente alla rilevazione delle impronte digitali, nelle fasi successive agli sbarchi. Nell’analizzare la drammatica immagine che Adam ci consegna, l’attenzione è subito catturata dal violento comportamento dei funzionari di polizia, che colpiscono l’uomo fino a tramortirlo. Il rapporto di Amnesty International ha avuto l’indubbio merito di dare la giusta risonanza a storie, racconti e testimonianze di violazioni e violenze finora rimaste sottotraccia. Ora, a più di un mese dalla pubblicazione del report, può essere utile spostare l’attenzione collettiva dal comportamento dei poliziotti a quello di Adam, cambiando la messa a fuoco di un’ipotetica macchina da presa, seguendo la traiettoria indicata dalle stesse parole del giovane sudanese che, come un lampo, squarciano il velo di ogni retorica vittimizzante e paternalista: “io ho rifiutato”.
Controcondotte migranti
L’istante nel quale Adam, al cospetto della polizia, si rifiuta di porgere la mano e farsi rilevare le impronte digitali è così denso di significati da richiedere un’attenzione particolare. È innanzi tutto la storia di un incontro tra il cittadino sudanese in fuga dal Darfur e i funzionari di polizia. Adam, però, non incontra soltanto i singoli poliziotti fisicamente presenti in quel momento nell’ufficio di polizia.
A determinare il comportamento della autorità del paese di primo arrivo in quegli specifici istanti contribuisce, ad esempio, un certo sapere diffuso, operativo in molte zone di sbarco, in alcuni hotspot e in molte questure, costitutivo di una zona grigia di prassi illegali, spesso violente. A configurare l’atteggiamento di quei singoli poliziotti contribuiscono anche le raccomandazioni della Commissione Europea che chiede all’Italia di trovare una soluzione per l’uso della forza nella raccolta delle impronte digitali, le agenzie europee, a cominciare da Frontex, con il loro specifico mandato per verificare che l’Italia adempia agli obblighi internazionali, e tutta la retorica pubblica, anche istituzionale, di criminalizzazione delle migrazioni.
Questo articolato insieme di poteri, saperi, prassi e retoriche, determinano lo specifico comportamento violento dei funzionari di polizia in quello specifico fotogramma. Che tipo di soggettività hanno davanti? Quale atteggiamento, quale postura Adam assume difronte alle autorità italiane? Seguendo il filo rosso della narrazione umanitaria, sarebbe facile aspettarsi che Adam, in fuga dalla guerra e dalla miseria, potenziale vittima di naufragio, salvato in mare durante le operazioni di soccorso, si presti ad una messa in scena lineare, pacifica e gerarchizzata di quest’incontro, tale da determinare un lieto fine per tutti. La traccia della retorica dominante, caritatevole e marginalizzante, ci invita ad immaginare Adam che, dopo aver baciato il suolo avvolto in una coperta termica, ringrazia le pubbliche autorità e si concede al rilevamento delle impronte, disciplinato e docile, con una postura che esprime, allo stesso tempo, stanchezza per l’estenuante viaggio e gratitudine nei confronti di chi lo accoglie.
Invece no: le parole “io ho rifiutato” pronunciate da Adam irrompono nella retorica del buon migrante, mettendola sottosopra. Adam prova a disobbedire agli ordini impartiti dalla polizia, prova a resistere a quell’articolato dispositivo di potere che vuole confinarlo in Italia ed impedirgli di esercitare il suo desiderio di mobilità e di fuga. La postura e le strategie di resistenza che Adam – e tante e tanti insieme a lui – assume difronte alle forze di polizia incaricate del rilevamento delle impronte sono un invito per ripensare le soggettività migranti e aggiornare la cassetta degli attrezzi dell’intervento politico.
Esercizi di scomposizione
Le condotte dei migranti che disobbediscono agli ordini delle pubbliche autorità delineano una rivolta sottotraccia, resa invisibile nella maggior parte dei casi dall’isolamento fisico dei luoghi nei prende forma, a cominciare dagli hotspot e da un numero rilevante di questure, a varie latitudini. Anche le lenti umanitarie, spesso utilizzate per analizzare e raccontare il rapporto tra flussi migratori e società di accoglienza, contribuiscono a consolidare tale invisibilità, incapaci di cogliere la portata politica di questa disobbedienza. Non si tratta, evidentemente, di rappresentare i migranti come portatori di un’innata tendenza alla libertà e alla rivolta: letture di questo tipo, che tendono a descrivere i migranti come soggettività irrimediabilmente rivoluzionarie, finiscono anch’esse per non cogliere la complessità e l’ambivalenza dei processi di soggettivazione e l’irriducibile eterogeneità e molteplicità dei comportamenti, delle scelte, dei desideri e delle strategie messe in scena dalle donne e dagli uomini in migrazione.
Si tratta, più che altro, di ascoltare le storie, le testimonianze e i racconti che le e i migranti, ai quali viene applicato l’approccio hotspot, ci consegnano, dando dignità e rilevanza politica anche ai comportamenti non collaborativi, di insubordinazione e di rifiuto. Ne viene fuori, anche grazie al lavoro delle reti di attivismo solidale che in questi mesi hanno supportato il transito delle e dei migranti, un controcanto denso di significati.
C’è, ad esempio, la storia di Abker che, a pagina 18 del rapporto hotspot Italia, racconta di quando “hanno preso le mani per metterle sulla macchina. Mi sono ribellato”. C’è Djoka, 16enne sudanese, che riferisce di come, nella speranza di raggiungere il fratello in Francia, si è “rifiutato di dare le impronte ai poliziotti che me le chiedevano”. C’è la vicenda di Ibrahim, che racconta di quando il suo autobus è arrivato davanti all’hotspot di Taranto e “le persone si sono rifiutate di scendere, temendo che avrebbero immediatamente preso le loro impronte digitali”. C’è, all’interno del report di Amnesty International, accanto alla geografia delle violenze delle forze dell’ordine, una possibile mappa dei tentativi di resistenza e di sottrazione.
Non si tratta, evidentemente, di valutare il significato di tali comportamenti a partire dalla loro efficacia. Il report di Amnesty fornisce informazioni sufficienti per comprendere come, a fronte dei rifiuti, il livello di violenza esercitato dalla polizia cresca enormemente, fino a raggiungere livelli di assoluta drammaticità. Queste disobbedienze e questi rifiuti ci indicano, più che altro, che all’interno della soggettività migrante risiedono una pluralità di tendenze, pratiche e strategie irrimediabilmente molteplici ed eterogenee, che si collocano tutte al di fuori della lettura paternalista del buon migrante da accudire e assistere.
Affrontare il mondo
C’è un ulteriore elemento che ci indica quanto sia urgente fare collettivamente i conti con la rilevanza politica di queste disobbedienze. La microconflittualità, il corpo a corpo – immaginario e reale – caratterizza la relazione tra pubbliche autorità e flussi migratori fin dal suo inizio, e non è evidentemente confinato all’interno delle procedure di identificazione. Comportamenti non collaborativi e vere e proprie rivolte attraversano tutta la filiera dell’accoglienza arrivando fin dentro i Cie, contribuendo a delineare un rapporto tutt’altro che pacificato tra migranti e società di arrivo.
E se estendiamo ulteriormente gli sguardi, fino a raggiungere i posti di frontiera nord, a cominciare da Ventimiglia e Como, e osserviamo le strategie attuate dai migranti per violare e attraversare, anche illegalmente, i confini chiusi, è possibile afferrare tutta la densità sociale e l’importanza politica di questo rifiuto collettivo di occupare i margini – della società e dell’Europa – e di praticare concretamente quel desiderio di movimento che eccede ogni classificazione e ogni rappresentazione.
Anche in questo caso non ci troviamo davanti ad un lieto fine. Com’è noto, da diversi mesi sono in corso trasferimenti coatti in bus – che gli attivisti descrivono in termini di deportazioni – dalle frontiere nord fino agli hotspot, in particolare quello di Taranto, al fine di alleggerire la pressione sulle frontiere. Anche questa vicenda – paradigma di come il governo della mobilità sia una delle ossessioni delle politiche migratorie – rende visibile, da un lato, la violenza sistemica dei poteri costituiti che, senza alcuna copertura normativa e fuori da ogni logica che non sia di deterrenza e punizione, riportano a sud le donne e gli uomini in transito. Alcuni migranti sono stato trasferiti coattivamente da nord fino a Taranto anche quattro, cinque volte, e ogni volta sono ritornati lungo le frontiere per sperimentare nuove strategie di transito illegale nel cuore dell’Europa.
Ancora una volta, nello stesso fotogramma – quello che raffigura i bus che intraprendono un ennesimo viaggio insensato da nord a sud – sono rappresentate, corpo a corpo, la cieca violenza delle gestione attuale dei flussi migratori e l’ingovernabile desiderio di mobilità. Un numero significativo di donne e uomini – nonostante mille barrire, fisiche e procedurali – hanno comunicato e continuano a comunicare agli attivisti conosciuti lungo le zone del transito che ce l’hanno fatta ad arrivare al di là del confine: segno inequivocabile di come i comportamenti materiali delle e dei migranti mettano irrimediabilmente in crisi le passioni tristi del paternalismo, della pietà e della sconfitta.
Questa diffusa geografia della conflittualità nel controllo della mobilità può essere un’occasione, per gli attivisti, per rimettere al centro della ricerca le soggettività migranti, prestando la dovuta attenzione non soltanto ai processi di assoggettamento ma anche alle pratiche di soggettivazione, avendo cura di aggiornare i propri strumenti di inchiesta e di intervento alla luce dell’indisciplina, della rivolta, della sottrazione ai dispositivi di governo delle vite migranti.
Il suggerimento secondo il quale là dove c’è potere, c’è resistenza – malgrado la doppia scure del controllo sulla mobilità e delle narrazioni impolitiche e vittimizzanti – continua a fornirci strumenti per cestinare immaginari lineari e pacificati, per mettere in discussione i nostri sguardi da attivisti, per seguire la traccia, a volte nascosta, della rivolta, per sostenere gli spuri e molteplici esercizi di libertà.