di BENEDETTO VECCHI.
Un’operazione editoriale ardita questa del Mulino che ha avuto la regia accorta, ma discreta di Adelino Zanini, filosofo, ma anche storico del pensiero economico, avendo dedicato molta della sua attività di ricerca teorica a Joseph A. Schumpeter e Adam Smith, con felici incursioni nell’opera di John Maynard Keynes e nel campo della critica dell’economia politica di Karl Marx. L’operazione consiste nella pubblicazione di due capitoli scritti da Schumpeter per la sua Teoria dello sviluppo economico e poi soppressi dallo stesso economista austriaco perché «devianti» rispetto al corpus centrale dell’opera. Nella sua introduzione, Zanini ritiene, in maniera convincente, che invece sono testi rilevanti, perché danno la misura del laboratorio teorico di Schumpeter e della messa a fuoco della figura cardine del suo pensiero economico, cioè quella figura dell’imprenditore che ha, per Schumpeter, la capacità di rompere l’equilibrio inerente l’agire economico grazie alla sua capacità di proporre una nuova combinazione di elementi noti – nelle tecnologie, nel credito, nel processo produttivo e nella sfera della circolazione, nella domanda di beni – tale da produrre una discontinuità nello sviluppo economico.
Adelino Zanini argomenta, sempre nell’introduzione a Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico (Il Mulino, pp. 200, € 18), la decisione della pubblicazione di questi due capitoli, archiviati e mai più ripresi da Shumpeter, non tanto per offrire allo studioso materiali che vanno a comporre, come tasselli persi, il puzzle di un pensiero economico centrale tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento, ma perché consentono, dato il loro carattere introduttivo e riassuntivo – si tratta in origine del 2° capitolo e del 6° capitolo della Teoria dello sviluppo economico – di evidenziare la sua presa di distanza dall’economia neoclassica allora dominante nelle università, visti i non sono pochi rinvii proprio alla critica dell’economia politica di Marx. Da questo punto di vista, Schumpeter prende sul serio l’autore del Capitale e si potrebbe dire, al pari di un suo contemporaneo, Max Weber, che i suoi scritti sono una risposta proprio a Marx, senza nessuna demonizzazione, provando a costruire un edificio teorico più saldo di quello costruito dai neoclassici di allora. Questi due capitoli danno dunque la misura delle difficoltà che Shumpeter incontra, ma anche della scelta di cercare una soluzione che salvaguardi il capitalismo dai suoi critici, introducendo appunto la figura prometeica dell’imprenditore.
Le inutili profezie
Nella Teoria della sviluppo economico i conflitti degli interessi, dunque anche il conflitto di classe, sono ritenuti da Schumpeter fattori esterni alla produzione della ricchezza. Non possono cioè scardinare la «statica» che caratterizza l’economia. L’unico che può far deviare il «naturale» corso delle cose è, appunto, l’imprenditore. A questa premessa e conclusione della sua elaborazione Schumpeter rimarrà sempre fedele, anche se con amarezza scriverà nell’opera della tarda maturità – Capitalismo, socialismo, democrazia – che il socialismo ha più chance di garantire sviluppo e innovazione (termine che l’economista austriaco usa con parsimonia, a differenza dei suoi discepoli) del sistema capitalistico. La storia non ha certo confermato questa profezia di Schumpeter, come testimonia il crollo rovinoso del socialismo reale. Questa però è un’altra storia, che attende ancora di essere scritta, attingendo non alla cassetta degli attrezzi fornita dalla «triste scienza», bensì a quella della critica dell’economia marxiana.
Vale dunque la pena di tornare al volume in questione, perché tra le righe dei due capitoli ci sono elementi importanti per guardare all’innovazione non come un elemento proprio dell’economico, bensì come fattore di rapporti sociali di produzione, che irrompe nella quotidianità e crea una situazione imprevista, non contemplata. Che può determinare il consolidamento di una impresa sul mercato o la sua marginalizzazione; lo sviluppo di un nuovo settore produttivo e l’eclissi di un altro. Che modifica il processo produttivo nella sua «totalità». Tutto ciò non ha nulla a che vedere con una «rivoluzione», bensì con un concetto di sviluppo che non può essere mai pensato come lineare, che procede con lunghi periodi di stasi e brevi periodi che distruggono l’equilibrio acquisito per poi riproporne un altro.
Il plasmare creativo
L’innovazione è dunque un evento raro: ha però un potere destituente che coinvolge tutto il sistema economico. Sbagliato dunque pensare all’innovazione come una macchina migliorativa dell’esistente. L’innovazione produce infatti discontinuità. Saranno i suoi discepoli — Nathan Rosenberg, David Mowery, William Baumoil, solo per citarne alcuni — a introdurre una tassonomia — innovazione incrementale, per apprendimento, per uso di un sistema di macchine — per ridimensionare il carattere dirompente dell’innovazione. L’imprenditore, per tornare al lessico schumpeteriano, combina in maniera originale e non consueta elementi noti. Questo vale sia per la traduzione operativa di una ricerca scientifica, che per una nuova forma di credito, o per il miglioramento delle forme di distribuzione e vendita. Da qui, l’impossibile omologia tra sviluppo economico e evoluzione: per Schumpeter, infatti, l’innovazione ha l’effetto dirompente di un’onda che distrugge equilibri consolidati, perché l’imprenditore mette in campo una «distruzione creativa» che non lascia niente come era prima della sua irruzione sulla scena.
Più che un concentrato di pensiero economico questi due capitoli sono quindi da leggere come le premesse di una antropologia filosofica dell’economico. Per Schumpeter, infatti, l’economia è caratterizzata da un agire edonistico che punta al soddisfacimento immediato di bisogni sociali. È sostanzialmente «statica», cioè sempre eguale a se stessa, fino a quando non irrompe sulla scena un «agire energico» che plasma creativamente le condizioni date. È in questo «plasmare creativo» che l’«agire energico» dell’imprenditore può essere associato all’attività artistica. Per questo, produrre innovazione, meglio produrre sviluppo economico ha, per Schumpeter, molti punti in contatto con l’attività dello scrittore e del pittore che non con quella dell’artigiano, che è condannato alla ripetizione del sempre eguale, introducendo piccoli e lievi miglioramenti dei propri prodotti che non mettono mai in discussione l’equilibrio, la «statica» dell’economia.
Gli amanti delle tesi di Richard Sennett sull’artigiano come figura antica, ma nuovamente centrale del capitalismo contemporaneo non potranno che riflettere sulle loro radicate convinzioni.
Quando passa a descrivere le caratteristiche dell’imprenditore, Schumpeter fa leva sulla forte personalità, sulla rinuncia al piacere immediato per la vision del futuro che ha. L’imprenditore non è un edonista, bensì un individuo che vuol dare forma a una idea maturata mettendo in relazione elementi noti della realtà. Sacrifica cioè il soddisfacimento immediato in nome dell’«opera» che vuol produrre. C’è nella silhouette dell’imprenditore tratteggiata da Schumpeter una assonanza con quanto Max Weber scriveva sull’etica protestante del capitalismo e sulle personalità carismatiche nell’azione politica. La rinuncia al soddisfacimento edonistico dei propri bisogni, un certo ascetismo calvinista nel comportamenti in società, il carisma che riesce a mobilitare attorno a sé competenze e forze sociali per raggiungere un obiettivo; l’esercizio del potere non per tornaconto personale ma per raggiungere un obiettivo: se per Weber sono le «qualità» del leader, per Shumpeter sono le caratteristiche dell’imprenditore.
Non si tratta di stabilire filologicamente le influenze di Weber su Schumpeter, bensì di segnalare come il pensiero dominante dovesse fare i conti con la filosofia della storia marxiana e l’irruzione del movimento operaio sulla scena pubblica: fattori che mettevano definitivamente in discussione la tesi che lo sviluppo sociale e storico fosse l’esito di grandi personalità. Weber e Schumpeter cercano cioè di salvare il salvabile di questo individualismo radicale e metodologico. Entrambi cambieranno idea nel corso del tempo. Weber quando farà i conti con la rivoluzione del 1905 in Russia, individuando nel partito operaio di massa l’imprevisto divenuto realtà; Joseph A. Schumpeter in Capitalismo socialismo, democrazia, quando scrive che l’innovazione è diventata una macchina organizzata, progettata per funzionare indipendentemente dalle personalità coinvolte nell’azione economica.
Il potere del rentier
Dunque prodromi di una antropologia filosofica dell’economico. Attuali, tuttavia, ora che l’innovazione è divenuto il vangelo del capitalismo. Vince chi è innovativo, perde chi si lascia trasportare dalla consueta statica dell’attività economica, recita il verbo. C’è però da dubitare che l’imprenditore sia coincidente con una singola personalità. Il capitalismo ha ampiamente dimostrato che l’innovazione è un fattore esterno all’attività economica. È un fatto sociale che nasce nel campo delle relazioni, nella capacità di poter combinare in maniera originale conoscenze già note alla luce dagli scambi, la comunicazione, gli atti linguistici che scandiscono il sociale. Diventano fattori inerenti lo sviluppo economico quando c’è cattura, appropriazione privata.
Steve Jobs per Apple o Jeff Bezos per Amazon si appropriano di sperimentazioni, di attitudini, di prodotti, di conoscenza già note e le fanno diventare «onde» da piegare ai propri fini. Sono cioè rentiers della cooperazione sociale. L’innovazione di processo e di prodotto è dunque frutto sempre di una espropriazione. Sarebbe interessante stabilire omologie tra l’imprenditore shumpeteriano e le religioni taoiste, shintoiste e buddiste, cioè sulla tendenza ad appropriarsi di ciò che già c’è. Per il momento torna utile il saggio di una economista contemporanea, Mariana Mazzucato, che nel suo Lo stato imprenditore (Laterza) guarda proprio allo Stato la fonte primaria dove attingere conoscenze, competenze, ma anche come il «luogo» che definisce il dispositivo per rendere efficiente la macchina dell’innovazione. Dietro l’innovazione c’è sempre un atto violento di espropriazione del «comune» che innerva la cooperazione sociale. Un fatto che Schumpeter aveva intravisto agli inizi del Novecento e che ha occultato in nome di un modello astratto di attività economica che reggesse l’urto dell’ospite inatteso, cioè quel lavoro vivo che è la fonte della ricchezza e dell’innovazione.
questo testo è stato pubblicato sul manifesto il 7 ottobre 2015 col titolo “Ascetici perché «creativi»”