Di MARCO ASSENNATO.

Alla fine, dunque, il principe ha parlato. Spiazzante come un assordante silenzio, avaro come un otre pieno di vento, buffo come un generale senza esercito. Dire che ce ne ha messo, di tempo. Cinque mesi di Grand Débat National, per rilanciare il suo progetto di rinnovamento: idee forti sulla fiscalità e sul Welfare, sulla transizione ecologica e sulla democrazia, aveva promesso. Poi, il giorno previsto per il suo intervento, Notre-Dame brucia. Allora si prende tempo, dopo un breve messaggio alla nazione che una cronista italiana ha definito «molto letterario» e che invece la più parte dei giornalisti d’oltralpe hanno descritto come eccessivamente solenne, retorico, goffo: come se il Presidente in crisi di consenso avesse approfittato di un dramma nazionale – lui così digiuno di pudore, equilibrio ed eleganza – per richiamare tutti all’ordine. Eroico questo popolo che ha saputo reagire alla tragedia collettivamente e cioè «chacun à sa place», ha ripetuto, marcando la recita. Verrà dopo il tempo della politica, del dibattito, aveva promesso. Ma per oggi, siamo la Francia. Il posto in cui chacun reste à sa place.

Cosa dirà? Come risponderà ad un’aspettativa che ormai si è ingigantita – anche a causa della sfarzosa messa in scena del Grand Débat National? Quale proposta darà alla crisi dei Gilets Jaunes? Perché questo è il tema. Macron insegue, si trova nella condizione di colui che deve rispondere, dopo aver sottostimato, insultato, provocato, represso. Di cosa è fatta la domanda dei Gilets Jaunes? Rileggiamo l’appello di Saint-Nazaire: giustizia sociale, contro l’austerità che distrugge il welfare e le riforme neoliberali che aumentano lo sfruttamento; democrazia diretta, sperimentazione municipalista e organizzazione del conflitto, contro la chiusura tecnocratica dei circuiti di decisione e l’elitismo della Cinquième République; Fratellanza ed assemblaggio progressivo delle lotte, per destituire l’incapace governo Philippe e l’odioso presidente Macron. Questa è la piattaforma dei Gilets Jaunes, che cresce, sabato dopo sabato.

Infine, dopo una pausa di qualche giorno, il presidente ha risposto. Immaginiamo abbia voluto pesar le parole una ad una, eppure queste sono venute fuori leggere come l’aria. Chi si aspettava la forza di un De Gaulle, si è trovato di fronte un cattivo venditore di pentole, convinto che la migliore difesa sia rilanciare, sempre. Eppure è stato un discorso di rara fattura: in effetti è difficile assistere a un tale concentrato di contraddizioni, banalità, sordità. Macron ha voluto rassicurare il suo popolo: ha sentito, très profondément, il malcontento. Lo choc subito dal movimento dei Gilets Jaunes lo ha profondamente cambiato. La cronista italiana (quella del discorso letterale) ha reso l’iperbolico momento, scrivendo: «Macron rinuncia all’austerità, ma non lo dice». Sarebbe stato magnifico, dal punto di vista performativo, purtroppo però non è così. Al contrario, si dovrebbe dire: Macron promette di insistere ed aggravare il suo progetto di distruzione del comune dei francesi, ma non conosce il coraggio, non ha l’intelligenza, né la dignità, per dirlo.

Grande dibattito, piccolo marketing

Cosa è successo da ottobre ad aprile in Francia? Si è espressa, dice il presidente, «l’impazienza che le cose cambino velocemente». Giusta impazienza, dunque. Poi però nel movimento dei Gilets Jaunes – che non essendo composto da corpi d’élite dai quali Macron proviene, è, agli occhi del presidente, strutturalmente incapace di razionalità politica – ha prevalso la confusione, ed infine «sono stati recuperati dalle violenze della società: l’antisemitismo, l’omofobia, gli attacchi contro le istituzioni, la stampa e le forze dell’ordine». Tuttavia, assicura Macron, ci sono delle buone ragioni dentro queste derive: «un profondo sentimento di ingiustizia fiscale, territoriale, sociale». Un sentimento che il Presidente condivide. E il governo? Cosa ha fatto il governo da ottobre ad aprile? È responsabile, in parte, del diffondersi di questo profondo sentimento di ingiustizia? Qui sta tutto il discorso di Macron, nel suo esordio: «siamo andanti forse nella direzione sbagliata? Credo sia vero il contrario. Io credo che le trasformazioni che abbiamo avviato non debbano in alcun modo fermarsi perché rispondono très profondément alle aspirazioni dei francesi». Punto. La nostra analisi potrebbe fermarsi qui. Per le restanti due ore e 15 minuti, del resto, non è stato aggiunto nulla di più. Ma val la pena invece di proseguire, solo per misurare l’ignoranza profonda, il malinteso senso della democrazia, il disprezzo classista e la totale incapacità politica della borghesia francese e del suo campione.

In fondo Macron è come un disco rotto, incapace di non ripetere la solita trafila di sciocchezze neoliberali con le quali è stato educato: le imprese pagano troppe tasse; i funzionari lavorano troppo poco; i salari sono troppo alti; bisogna ridurre la spesa pubblica; tagliare i comparti improduttivi; attrarre grandi capitali, etc. Non è che la ricetta non funzioni – del resto, ha insistito, gli indicatori economici registrano corposi miglioramenti. E gli indicatori economici, come si sa, sono obiettivi e non rispondono a nessun interesse di parte. Se i francesi non percepiscono quanto sia migliorata la loro vita negli scorsi mesi, se non hanno contezza dello sforzo inaudito di modernizzazione compiuto sin qui dal governo Philippe, vuol dire che c’è un difetto nella comunicazione del governo. Bisogna migliorare la pubblicità, cambiare strategia di marketing. Tutto qui. Ma le idee di fondo restano immutate: «il problema del potere d’acquisto – assicura Macron – non è un problema di salari, ma di spese ridotte»; le ineguaglianze non sono sociali, ma «ineguaglianze di destino». Su questa base, si passa al concreto. Diciamo. Qualche cambiamento va pure introdotto. «Preferisco non parlare di “atto secondo” del Governo», ironizza Macron. Ma di un rilancio si.

Il Presidente declina i temi della svolta in grandi orientamenti: Cambiare la democrazia; Rimettere al centro l’Umano; Combattere la Paura per le grandi transizioni … titoli altisonanti, per paragrafi rachitici. Macron non intende tornare indietro a proposito dell’ISF, la tassa sulle fortune. Egli è però disposto a rendere pubblica la valutazione degli effetti benefici della misura entro un anno. Mentre cerca invece un accordo con i pensionati, promettendo, a partire dal 2020, la reindicizzazione delle pensioni sotto i 2000 euro sull’inflazione e dell’insieme delle pensioni a partire dal 2021. Ma al contempo insiste sulla necessità di allungare l’età pensionistica attraverso una serie di misure che possano «incitare» i francesi a restare più a lungo al lavoro. Da una parte non fa cenno alla soppressione delle 35 ore (già colpite, del resto, dalla Loi Travail) e dall’altra insiste sulla necessità di «lavorare di più» e propone la «soppressione di un giorno di ferie» come contributo dei lavoratori allo sforzo budgetario nazionale.

Quando poi si esercita su un tema come la democrazia – certo marginale, per uno come lui, eppure di qualche interesse nella discussione politica – allora lì si riconosce il brillante allievo delle Grandi Scuole. C’è un problema di democrazia in Europa? In Francia? Si. Concede. Di più: i cittadini vogliono partecipare. Questo è un bene. Allora viene annunciata una grande riforma istituzionale. Roba da far tremare la Quinta Repubblica: introduzione di un 20% di quota proporzionale per le elezioni legislative – così da far emergere le diverse sensibilità politiche del paese; riduzione del numero di parlamentari; introduzione del limite di mandati. Ma fin qui c’è poco di nuovo, si dirà. Ed in effetti il ragionamento di Macron è più incisivo. Più coraggioso. Il Presidente sa che il suo popolo chiede democrazia diretta e, se non può certo concedere nulla su un istituto come quello referendario (o meglio concede qualcosa solo sul piano delle istituzioni locali), egli osa, si sbilancia, e propone: tiriamo a sorteggio 150 membri del Consiglio Economico, Sociale e Ambientale (CESE), la terza camera del sistema francese, con poteri esclusivamente consultivi, istituita nella forma attuale nel 2008.

Il resto è un elenco stanco che mischia il troppo poco al peggio: la decentralizzazione del corpo dei funzionari pubblici; l’istituzione sui territori di centri per i servizi denominati Maisons France; la soppressione (o rifondazione) dell’ENA; la creazione di un Consiglio di difesa ecologica. Mentre ovviamente non può lasciar passare l’occasione per chiedere all’Europa di intraprendere misure decise sulle migrazioni, a difesa della «laicità» e contro «l’Islam Politico». Interessante iperbole, che rinnova il parterre degli slogan reazionari. Non si dice più aiutiamoli a casa loro. Adesso il tema è: «per poter accogliere, ci vogliono delle frontiere». Di questa stoffa è fatto il progetto di rilancio del Presidente Macron. Con questa gramigna si cucina ciò ch’egli chiama «l’arte di essere francesi». I Gilets Jaunes rispondono, un sabato dopo l’altro. Aspettando il Primo Maggio.

 

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