Di GISO AMENDOLA
L’ultimo laboratorio lasciato incompiuto da Benedetto Vecchi e pubblicato così come rinvenuto nel suo pc, grazie alla cura editoriale di Sergio Bianchi e alla amorosa sollecitudine di Laura Fortini (Tecnoutopie, DeriveApprodi, pp.112, euro 15), è un tentativo di riconquistare politicamente la dimensione del futuro. Il nemico comune di questi scritti è un discorso egemone che si nutre di alterni richiami a futuri ipertecnologici e a catastrofi globali e, nel frattempo, riafferma l’eternità del presente come unico orizzonte.
Non basta, evidentemente, qualche volenterosa predica contro il «realismo capitalista» e la sua tendenza a fagocitare il cambiamento: la riconquista della dimensione del futuro all’azione politica deve tener conto dell’irrecuperabilità delle illusioni bruciate nel segno del «progresso». Quella idea lineare di miglioramento storico, ricorda Vecchi, provò a dare una forma socialdemocratica al mondo del secondo dopoguerra.
Ma, dalla crisi degli anni Settanta, il futuro è diventato la posta di una partita politica molto più aggressiva. Il neoliberalismo degli anni Ottanta mette in opera una grande capacità performativa e anticipante. Tramontata la grande tensione politica degli anni precedenti, che aveva cercato di tenere insieme ragione e immaginazione, rottura del desiderio e misurabilità dei bisogni, i neoliberali giocano d’anticipo: producono la figura dell’individuo proprietario precisamente come una risposta al tramonto delle sicurezze progressiste dei decenni precedenti.
Allo stesso tempo, i neoliberali ereditano dal pensiero utopico non solo la tensione alla colonizzazione del futuro, ma anche l’eredità costituita dalla fiducia nel pensiero scientifico. Le tecnoutopie prodotte dalla Rete e rilanciate sia nei lavori teorici che nelle culture pop, registrano precisamente questi aspetti «proattivi» del capitalismo contemporaneo: esprimono la progressiva cognitivizzazione della forza lavoro nonché la capacità del capitalismo di conquistare continuamente nuovi ambiti precedentemente esterni alla valorizzazione, siano risorse naturali, siano forme di vita, linguaggi e differenze.
Il tempo della produzione, della circolazione e del consumo, nelle tecnoutopie, è colto così nell’interruzione di ogni linearità e di ogni misurabilità. Rotta ogni successione lineare interna alla produzione e riproduzione del capitale, e quindi anche ogni «progettabile» relazione tra azione politica, lotte e sviluppo, la tecnoutopia può «felicemente» combinare la sua vorticosa idea di futuro con l’apparentemente opposto immaginario catastrofista: futuri utopici e distopici si rivelano, alla fine, entrambi perfettamente funzionali ad un’idea di compiuta e perfetta governabilità senza scarti.
L’autentica apocalisse, non riducibile a catastrofe anticipabile, continua però a risiedere nell’incapacità della governamentalità neoliberale di mantenere l’equilibrio promesso, nel suo fallimento nello stabilizzare le crisi.
La genealogia dell’utopia ricostruita da Vecchi è qui preziosa: se il pensiero utopico nella stagione illuminista, si caratterizzava per la capacità materialista di tenere insieme immaginazione e ragione, le tecnoutopie e i catastrofismi odierni prosperano invece nella separazione tra conflitto sociale e pensiero scientifico.
Riconquistare un futuro inteso come atto politico diventa allora possibile solo a condizione di riorientare verso orizzonti di trasformazione complessiva l’azione, attualmente frammentata, dei nuovi movimenti sociali che agiscono dentro la riproduzione sociale allargata.
Ai movimenti globali ecologisti e femministi, Vecchi dedica appunto il suo ultimo intervento edito, Una rivolta senza rivoluzione, qui opportunamente raccolto. Nella sua commossa postfazione, Sergio Bianchi ricorda che Vecchi lo aveva concepito all’interno di una difficile discussione su quelli che giudicava i limiti impolitici delle tendenze «destituenti» e neoanarchiche nei movimenti.
Oggi questa discussione sulla permanente necessità dell’idea di rivoluzione, della sperimentazione di una nuova forma del Politico non nostalgica di quella ereditata dagli stati nazionali, ma capace allo stesso tempo di riprendersi futuro, durata ed efficacia, ha ancora più evidenti ragioni, nel momento in cui le tecnoutopie neoliberali si sono ormai esplicitamente sposate con le destre identitarie e «retromaniache». Tanto più è necessario proseguire la ricerca di Benedetto Vecchi: dai nuovi movimenti verso una nuova connessione di sapere collettivo, immaginazione sociale e organizzazione politica.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 7 gennaio 2023.