di Ugo Mattei
Parte I. Il saccheggio dei beni comuni: indegnità continua.
Il complesso e affascinante fenomeno di emersione politica dei beni comuni costituisce in Italia il corrispondente del più noto movimento degli Indignados spagnoli, divenuto celebre in tutto il mondo come M15, dalla data del 15 maggio del 2011 in cui iniziò una lunga accampata presso la Puerta del Sol di Madrid.
In Italia, la data simbolo, che ricorre in ben tre passaggi chiave nella storia recente dei beni comuni, potrebbe essere il 22 aprile: del 2008, quando il disegno di Legge delega della Commissione Rodotà fu consegnato ufficialmente al Guardasigilli; del 2010, quando fu apposta la prima firma sui moduli per i referendum sull’acqua bene comune; del 2013, quando la trasformazione di Arin, Spa in ABC, Azienda Speciale è stata ufficialmente registrata alla Camera di Commercio di Napoli. Il movimento per i beni comuni italiano quindi potrebbe essere descritto con l’acronimo A22.
Il moto d’indignazione che diede senso politico generale alla nozione dei beni comuni, fino a quel momento relegata ai margini della riflessione giuridica e politica, è tuttavia del novembre 2009, quando la Camera di Deputati approvò, a seguito di voto di fiducia, il c.d. Decreto Ronchi Fitto (DL 135-2009). Questo provvedimento, facendosi schermo di un presunto “obbligo europeo” poi sbugiardato dalla Corte Costituzionale (24-2011 e 199-2012) imponeva la messa a gara, e dunque nei fatti la privatizzazione, entro il mese di dicembre del 2011 di tutti i servizi pubblici locali incluso, vera pietra dello scandalo capace di generare il suddetto moto d’indignazione creativa, il servizio idrico integrato, ossia il governo pubblico dell’acqua potabile. L’immissione obbligatoria sul mercato a data certa di una quantità enorme di servizi pubblici fino a quel punto gestiti per lo più tramite società per azioni100% pubbliche, secondo il modello cosiddetto “in house”, (ci sono in Italia oggi circa 4000 di queste società pubbliche) avrebbe determinato un crollo dei prezzi di acquisto da parte dei privati che sarebbero stati beneficiari di una nuova svendita sistematica di patrimonio pubblico.
Il caso volle che proprio in quello stesso giorno di novembre del 2009, presso la Sala Nasiriyah dell’altro ramo del Parlamento, fosse presentato, in presenza di diversi senatori di maggioranza ed opposizione e del Presidente dell’ Academia Nazionale dei Lincei Prof. Giovanni Conso, un disegno di Legge di iniziativa della Regione Piemonte (Placido-Leo) che aveva recepito, con voto unanime, il Disegno di Legge Delega della Commissione Rodotà. Come noto, la cosiddetta Commissione Rodotà era stata il punto d’arrivo di una riflessione scientifica iniziata nel 2005 presso l’Academia Nazionale dei Lincei, volta a ripensare la politica di privatizzazione selvaggia portata avanti in Italia dai governi tecnici dei primi anni novanta in avanti, in modo del tutto avulso da qualsiasi quadro di legalità, con un danno erariale stimabile in centinaia di miliardi di Euro, invano denunciato perfino dalla Corte dei Conti. Infatti, i Governi italiani di centro-destra e di centro-sinistra si sono arrogati il potere di svendere il patrimonio pubblico, trasferendolo nelle mani dei soliti gruppi “privati” senza alcuna dichiarazione di pubblica utilità e senza rispettare alcuna riserva di legge, così espropriando senza indennizzo il popolo sovrano dei suoi beni pubblici e comuni. Questo drammatico malgoverno della cosa pubblica, che continua oggi con impudente arroganza, ha potuto realizzarsi anche in virtù della vetustà degli apparati normativi di riferimento, in particolare di quel Titolo II del Libro III del Codice Civile, sostanzialmente intonso fin dai tempi del Codice Napoleonico (1804), che disciplina il regime giuridico del demanio e del patrimonio pubblico disponibile e indisponibile.
Nel tentativo di fermare questo saccheggio, ampiamente documentato in sede Lincea, seguendo i più creativi contatti, Stefano Rodotà, Edoardo Reviglio e il sottoscritto furono finalmente ricevuti dall’ allora Guardasigilli del Governo Prodi Clemente Mastella, grazie ai buoni uffici del Compianto Responsabile dell’ Ufficio Legislativo di Via Arenula, il Consigliere Gianfranco Manzo.
Era il 14 giugno del 2007, data di nascita della Commissione per la riforma del Titolo II del Libro III del Codice Civile, istituita dal Governo Prodi, nota come Commissione Rodotà, dall’autorevole nome di chi ne assunse la Presidenza. I lavori della Commissione si protrassero fino al Febbraio del 2008 e furono completati con un Disegno di Legge Delega, consegnato al Guardasigilli Scotti succeduto a Mastella poco prima della caduta del governo Prodi, sempre in sede Lincea il 22 aprile del 2008. Fu in quella sede che i beni comuni ricevettero la prima definizione tecnico-legislativa nei seguenti termini:
“….omissis
b) Distinzione dei beni in tre categorie: beni comuni, beni pubblici, beni privati.
c) Previsione della categoria dei beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; ne é consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe. Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’ aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate. La disciplina dei beni comuni deve essere coordinata con quella degli usi civici. Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque. Salvi i casi di legittimazione per la tutela di altri diritti ed interessi, all’esercizio dell’azione di danni arrecati al bene comune e’ legittimato in via esclusiva lo Stato. Allo Stato spetta pure l’azione per la riversione dei profitti. I presupposti e le modalità di esercizio delle azioni suddette saranno definite dal decreto delegato.
….omisis”.
Basta leggere questa definizione per trovare l’acqua al primo posto fra i beni comuni; in effetti, fu proprio recependo in commissione le istanze provenienti dai movimenti per l’acqua pubblica (in particolare grazie all’ impegno del Commissario Lucarelli), che si addivenne alla definizione su riportata che costituisce ancora un caposaldo della riflessione giuridica in materia che ha ottenuto significativi riscontri giurisprudenziali (Cassazione S.U. 14-2-2011 n. 3665), dottrinari e anche a livello di normativa subordinata, come per esempio nello Statuto del Comune di Napoli.
Non è quindi difficile immaginare da un lato la soddisfazione dei più motivati fra gli ex commissari nel vedere recepita dalla Regione Piemonte (potestà autonoma del Consiglio Reginale ex Art. 121 Cost.) la proposta di Legge Delega, abbandonata in un cassetto dal Governo Berlusconi; d’altra parte è agevole comprendere il moto di indignazione nell’ apprendere, di ritorno dal Roma dopo la bella cerimonia in Sala Nasiryah al Senato di quanto era successo simultaneamente alla Camera, con la fiducia sul Decreto Ronchi che impunemente continuava, anzi aggravava in proporzioni fino ad allora impensate, il grande saccheggio del patrimonio pubblico tramite sua svendita a privati.
In poche ore, sull’onda dell’indignazione corsa via filo telefonico fra un gruppetto di ex commissari, un primo schizzo dei quesiti referendari era pronto. In poco più di una decina di giorni il testo definitivo sottoscritto dagli ex commissari Rodotà, Mattei, Lucarelli e Nivarra e rivisto pure dai costituzionalisti Ferrara e Azzariti era online. L’avventura referendaria era iniziata e le prime firme sui tre quesiti del c.d. referendum sull’acqua bene comune, pienamente condivisi e fatti propri dal Forum Italiano per i Movimenti dell’Acqua, cominciarono a essere apposte il 22 aprile del 2010 a due anni esatti dal Convegno all’Accademia dei Lincei in cui il testo di Legge Delega della Commissione Rodotà (ad oggi incredibilmente mai discusso in Parlamento) era stato presentato al Ministro Guardasigilli competente.
E’ noto l’incredibile risultato nella raccolta delle firme (oltre 1.5 milioni in tre mesi) portata avanti senza soldi e senza spazi mediatici ed è altrettanto noto l’esito del Referendum (quasi 27 milioni di SI all’acqua bene comune), celebrato su due dei tre quesiti, a seguito della Sentenza 24-2011 della Corte Costituzionale che ne respinse uno. La bocciatura del terzo quesito, in larga misura imputabile al “quesito suicida” presentato contro ogni buon senso dall’Italia dei Valori, snaturava non poco il pacchetto originario che ambiva a bandire definitivamente la forma spa (strutturalmente for profit) dal governo dell’acqua.
Altrettanto e forse ancor più interessante sul piano politico e culturale è come la locuzione “beni comuni” e il movimento che intorno ad essa si è manifestato (talvolta indicato come “benicomunismo”) abbia conquistato di prepotenza un posto al sole nel dibattito politico italiano proprio durante il periodo dell’organizzazione del referendum, diventando sicuramente un lemma chiave della nostra grammatica dell’indignazione. Dalla manifestazione della Fiom sul “Lavoro bene comune”, alla marcia torinese “NO TAV bene comune”, fino alle manifestazioni per l’”Università bene comune”, e poi dal “Teatro Valle Bene Comune” (esperienza come vedremo particolarmente generativa) alla “cultura bene comune”, “scuola bene comune” e poi, via via, le varie liste civiche col nome di città bene comune, in Italia dalla primavera del 2011 si è verificato un crescendo di consapevolezza di come questa nozione potesse offrire un orizzonte politico in grado di incanalare un indignazione sociale che pur importantissima non può bastare da sola. La nozione si articola nella prassi in opposizione rispetto a una specifica visione neoliberale: del servizio idrico (for profit), del lavoro (come sfruttamento bruto), dell’università (come luogo di produzione di subcultura aziendalista), del trasporto ferroviario (come luogo di saccheggio fondato sulla logica delle grandi opere), della città (come luogo privatizzato e di trionfo della rendita fondiaria), della cultura (come industria dello spettacolo) e così via. Ho avuto la sorte di intercettare, con un mio fortunatissimo libretto (Beni comuni. Un Manifesto) uscito al momento giusto, questa vera insorgenza “benicomunista”, e posso testimoniare direttamente, perché cerco di onorare il più possibili le centinaia di inviti, dell’incredibile numero di lotte contro il saccheggio, l’esclusione e la concentrazione del potere estrattivo esercitato dall’ alleanza fra pubblico e privato che caratterizzano la vita politica italiana oggi. Migliaia di comitati in tutto il paese hanno scoperto che le loro lotte, magari condotte da anni, come per esempio la NO TAV, erano volte alla difesa e al riconoscimento di beni comuni, non erano isolate ma collegate con tante altre, soltanto all’apparenza diverse ma in realtà condividenti obiettivi, nemici e visione di lungo periodo per un mondo migliore possibile. Con i beni comuni l’indignazione vede una luce in fondo al tunnel, qualcosa di più ampio per cui lottare, una vera politicizzazione generale di quella “single issue politcs” in cui rischiano di restare impantanati i movimenti organizzati, sempre a rischio di autoreferenzialità.
Ovviamente questo parziale e largamente imprevedibile successo della grammatica teorica originatasi con la Commissione Rodotà è certamente stato ampliato dall’inasprirsi della crisi economica globale che ha prodotto tanto l’M. 15 spagnolo quanto l’ Occupy statunitense, esperienze che tuttavia a conti fatti sono state assai più effimere di quella italiana ben fondata in un rapporto solido fra elaborazione teorico-giuridica e prassi di movimento. Questi successi nostrani che alle occupazioni e alle insorgenze affiancano l’uso del diritto, non riducono l’indignazione, anzi la amplificano visto l’ inqualificabile comportamento dei vari Governi in combutta con la Presidenza della Repubblica all’ indomani del Referendum, che hanno messo in campo un atteggiamento talmente violento e prevaricatore della volontà popolare sovrana da mettere in dubbio la propria stessa legittimità costituzionale. Sono noti i tentativi di Berlusconi e di Monti, stoppati per due volte dalla Corte Costituzionale, di tenere in non cale il voto referendario, una prima volta addirittura poche settimane dopo la sua espressione maggioritaria.
Quel primo attacco all’esito referendario, che fu chiaro pochi giorni prima del ferragosto 2011, fece crescere l’indignazione a dismisura quando emerse che il c.d. supremo garante della Costituzione non avrebbe fatto nulla per bloccare la decretazione Berlusconi (poi aggravata da Monti), nonostante un appello di alcuni fra i giuristi estensori dei quesiti gli fosse consegnato corredato da oltre 10.000 firma raccolte in pochi giorni su un qualunque, non prestigioso, sito internet allestito alla bisogna. Fu poi la Corte Costituzionale a dar giustizia al movimento per i beni comuni, rappresentato in quell’occasione dalla Regione Puglia, ma con un anno di ritardo utilizzato dai nemici dei beni comuni per continuare la loro offensiva incostituzionale (proseguita con la spending review, a sua volta dichiarata incostituzionale nelle parti contrarie al referendum nella recentissima Sentenza 2292013). La caduta del Governo Berlusconi non ha aiutato la causa dei beni comuni anzi ha creato qualche titubanza in quanti fra noi hanno avuto bisogno di più tempo per rendersi conto che, con il Commissariamento Monti e l’incredibile eccedenza costituzionale del potere di Napolitano, l’Italia era piombata dalla padella nella brace. Similmente la causa dei beni comuni non è stata per nulla aiutata dal tentativo velleitario di presentare liste minoritarie ispirate ai beni comuni alle elezioni politiche, poi esitato nella fallimentare esperienza di “Rivoluzione Civile”, né dall’altrettanto spericolato uso della locuzione “Italia bene comune” per una coalizione, a sua volta sconfitta, in cui la parte del leone spettava al PD, tradizionalmente colluso con il partito dei privatizzatori a livello locale e nazionale. In realtà la lista che alle elezioni politiche del 2013 ha intercettato in Italia l’onda lunga del referendum è stato il M5S, non a caso uno schieramento (peraltro largamente presente dall’ Acqua al NO TAV) che non si riconosce nella contrapposizione fra destra e sinistra ma che declina, non senza punte forcaiole insopportabili, un’indignazione nei confronti della natura predatoria del capitalismo neoliberale e dei suoi rappresentanti politici largamente diffusa in persone dalla sensibilità politica molto diversa. Per quanti ancora fossero alla ricerca di prove circa il tradimento gravissimo dei rappresentanti ai danni dei rappresentati e del ruolo della Presidenza della Repubblica in questo scempio costituzionale, la ciliegina sulla torta è data dal Governo Letta, un’ipocrita prosecuzione del Governo Monti contro il quale avevano votato almeno i due terzi degli italiani, costruito a seguito del vero capolavoro di doppiezza politica della seconda repubblica, ossia la manovra per la conferma di Napolitano al Quirinale. Vale la pena di aggiungere un dettaglio direttamente rilevante circa la questione di beni comuni ossia la partecipazione al Governo Letta, in posizioni di sottosegretariato assai influenti, di Erasmo de Angelis e Claudio De Vincenti, due fra i più vocali nemici del referendum del 2011.
Parte II. Costituente e costituito nell’orizzonte dei beni comuni
Tutti questi episodi, pur nella loro diversa natura dovrebbero dare l’idea di protratti motivi di indignazione per chi abbia a cuore i beni comuni (essenza ultima della democrazia) in un’ Italia che vive ad ogni livello in uno stato più o meno conscio di diniego della gravità dell’ emergenza democratica in corso. Questa, conclamatasi dalla seconda parte del 2011, è qualcosa di ben più profondo e pervasivo del c.d. berlusconismo, contro cui starnazza tanta stampa di regime con i suoi intellettuali “politically correct”. Di fronte a tanto disprezzo per la volontà del popolo sovrano la resistenza diventa un dovere e i beni comuni offrono un orizzonte per uno scontro che deve necessariamente essere costituente, passando quindi, quando necessario, attraverso la violazione politicamente motivata di un diritto positivo corrotto quanto il regime poliziesco che lo sostiene. Non c’è spazio per una lunga elencazione della “legalità illegale” utilizzata senza scrupoli nel nostro paese dalla collusione fra un privato prepotente e un pubblico corrotto. Basterà pensare allo scempio della legalità civile, amministrativa e penale perpetrato in Valle di Susa per portare avanti conto ogni buon senso la madre di tutte le opere inutili e dannose; alla Torre Galfa a Milano, proprietà assenteista di Ligresti, occupata dal collettivo Macao, sgomberata in poche ore, sotto gli occhi di un “sindaco amico”, dal Ministro degli Interni Cancellieri con figlio alle dipendenze di Ligresti; alle denunce penali contro i cittadini modello che all’Aquila avevano violato con le carriole la zona rossa per portar via detriti vergognosamente abbandonati da chi avrebbe dovuto agire;infine, last but not least, l’uso dello strumento penale contro i vicentini del No dal Molin, che invece avrebbero dovuto ricevere un encomio per aver fermato la costruzione di una nuova pista da utilizzarsi per azioni di guerra incostituzionali da parte della potenza imperiale.
Al fine di accettare lo scontro costituente e di canalizzarlo in una direzione provvedutissima sul piano giuridico costituzionale è stata lanciata al Teatro Valle Occupato il 13 aprile del 2013 la “Costituente per i beni comuni”, erede della Commissione Rodotà consapevole dei passi avanti che i beni comuni, come teoria e come prassi, hanno fatto dal 2007 a oggi. Non è un caso che proprio dal Teatro Valle occupato, che in questi due anni ha svolto un ruolo di assoluta avanguardia nazionale nella lotta per i beni comuni, generando un’esperienza artistica, politica e anche giuridica unica nel suo genere, sia venuta l’idea di far “ripartire” la Commissione Rodotà, anche qui per un misto di incredulità e indignazione causata dalla sufficienza con cui il potere ha trattato quell’ importante contributo intellettuale lasciandolo marcire nei cassetti del palazzo. La Costituente per i beni comuni è organizzata su due organismi: le Assemblee territoriali, frequentate da giuristi itineranti in funzione istruttoria e la Commissione redigente. Presso le Assemblee territoriali i giuristi raccolgono i materiali vivi delle lotte per i beni comuni, interrogano i protagonisti, ricevono spunti e riflessioni che poi utilizzano in sede redigente per produrre una sorta di “Codice dei beni comuni” che in parte dettaglia i principi contenuti nella Legge delega della Commissione Rodotà, in parte ne ampia l’orizzonte per tracciare le grandi linee di un diritto dei beni comuni, riflessivo del Volksgeist, ossia dello spirito di quanti esercitano attivamente la cittadinanza in loro difesa. La Costituente è ai primi passi e la dialettica al suo interno è viva in questa fase. Ma sono già state tenute affollatissime assemblee territoriali all’Aquila, a Pisa, a Roma e a Padova; il 25 ottobre la carovana dei giuristi sbarcherà in Valle di Susa a Bussoleno e sono già in cantiere tappe siciliane e sarde. Inoltre la redigente, si è già incontrata tre volte al Teatro Valle producendo i primi elaborati. L’innovatività del metodo di lavoro e l’inedita alleanza fra giuristi e movimenti costituisce un dato politico di grande importanza e sta ricreando, su un piano più ampiamente politico, quello spirito di reale partecipazione, finalizzata alla messa in sicurezza giuridica dei risultati conseguiti, che ha consentito la vittoria dei referendum.
L’altro fronte su cui la lotta in difesa dei beni comuni cerca di concretizzarsi in alternativa sistemica è quello legato ai modelli di gestione dei servizi pubblici grazie alla straordinaria opportunità politica prodotta dalla volontà del Sindaco De Magistris di rispettare onestamente e genuinamente l’ esito referendario. Su impulso di Lucarelli allora assessore ai beni comuni (altro esito del referendum!), é stato possibile portare a termine la trasformazione della Società per Azioni ARIN in Azienda Speciale di diritto pubblico, ABC Napoli. Anche qui c’è voluta grande pazienza e grande studio ma il risultato è stato raggiunto forzando l’interpretazione di un ordinamento giuridico assurdamente restrittivo e penalizzante. Oggi ABC è l’unico acquedotto in Italia davvero al riparo dalla privatizzazione; l’unico con il governo ecologico e partecipato dell’ acqua nel suo DNA (ossia nel suo statuto); l’ unico la cui vocazione pubblica non dipende dalla maggioranza del momento ma è garantita da un Comitato di Sorveglianza, un parlamentino dell’ acqua in ci sono rappresentati utenti, lavoratori, ambientalisti e consiglieri comunali; l’ unico nel cui cda a regime siedono due componenti su cinque selezionati per pubblico bando fra gli ambientalisti. In una parola ABC è la più avanzata istituzione di governo dei beni comuni che è stato possibile realizzare, ammirata in tutta Europa, ma che ancora deve lottare contro un ordinamento giuridico iniquo e discriminatorio che favorisce in modo costituzionalmente inaccettabile il privato rispetto al pubblico. Se il terzo quesito referendario fosse stato ammesso ABC sarebbe a regola e non l’ eccezione. Molte battaglie anche legali ci attendono ancora a Napoli.
Tuttavia la lotta per i beni comuni non si svolge solo in difesa ma, consapevole di riflettere quanto desiderato dalla maggioranza degli italiani indignati, prova a mettere in pratica le sue istituzioni alternative. E così ABC Napoli sta promuovendo la nascita di Federcommons, l’associazione di categoria che intende legare fra loro gli oltre 4000 gestori di servizi pubblici ancora al 100% in proprietà pubblica, per scongiurarne la privatizzazione e favorirne la trasformazione in altrettante forme giuridiche partecipate sul modello di ABC. Si tratta di una sfida esaltante perché l’attuale associazione di categoria, Federutility, dominata dai gestori privati o semi-privati, monopolizza di fatto l’ interpretazione del diritto promuovendo norme e letture che non sono nell’ interesse pubblico. Non è un caso che avvocati di Federutility fossero costituiti in Corte Costituzionale contro l’ammissibilità del nostro referendum. Lo scontro va dunque portato sul loro stesso terreno, per sconfiggerli come già fatto di fronte alla Consulta, attraverso un forte centro studi e un’autorevole organizzazione di pressione sulle sedi decisionali. Abbiamo i mezzi e la passione per riuscirci. Dopo la Fondazione Teatro Valle, e il Modello ABC Napoli, una nuova istituzione del comune, Federcommons , potrà vedere presto la luce e dare un’ importante contributo nel passaggio dall’indignazione alla costruzione paziente ma implacabile dell’ alternativa di sistema.
[Questo testo è in corso di pubblicazione in “Grammatica dell’indignazione”, a cura di Pepino e Revelli, edizioni Gruppo Abele]
Bibliografia minima:
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