di GIULIANO SANTORO.
riprendiamo dal sito dinamo press questa approfondita analisi sul voto al M5S nel Sud
È la sera del 6 marzo. Non sono trascorse 48 ore dalla chiusura delle urne quando Luigi Di Maio arriva nella sua Pomigliano d’Arco per festeggiare il trionfo elettorale. Sale su di un palco agghindato di palloncini gialli e parla agli abitanti di uno dei luoghi simbolo del sogno fordista del Mezzogiorno. Si rivolge ai suoi concittadini mettendoli al centro dell’Italia. Racconta loro del suo viaggio elettorale in paese che ha i loro stessi problemi. Nella sua narrazione il Sud non è un luogo a sé stante, governato da emergenze specifiche e contraddizioni genuine. «Le terre dei fuochi ci sono anche al nord», dice ad esempio Di Maio. La prospettiva comune è ribaltata: il Sud è lo stato d’eccezione che si fa regola, l’emergenza cui mettere mano che è diventata permanente. Quella parte di paese racchiude tutte le grida d’allarme che lui stesso ha potuto raccogliere nel corso del suo giro d’Italia narrato giorno per giorno e in prima persona in diretta Facebook. Poi l’aspirante premier dice che finalmente la smetteranno di «dividere la gente, tra lavoratori e imprenditori, poliziotti e manifestanti, meridione e settentrione». È il classico schema grillino della risoluzione dei conflitti, spiegato da uno che ha mosso i primi passi sulla scena pubblica da studente di liceo, quando venne eletto rappresentante di istituto garantendo che non ci sarebbero state più occupazioni della scuola. Le parole di Di Maio ci interessano perché tirano in mezzo il Mezzogiorno, la sua composizione di classe nella temperie della crisi e nei suoi guai perenni, l’essere periferia di un paese del G8 e al tempo stesso al centro di un modello di accumulazione criminale, il rapporto con il Nord. Sono temi centrali, che il M5S a suo modo rielabora, racconta, propone ai suoi tantissimi elettori tracciando alcune linee di frattura e nascondendone altre. Il modo in cui ciò accade ci aiuta a comprendere il trionfo grillino.
In pellegrinaggio al Nord
Dire che il Sud sia uguale al Nord è ovviamente una mossa retorica, un espediente comunicativo per sfuggire all’etichetta che, non senza qualche ragione, si sarebbe tentati di affibbiare al M5S dopo le elezioni: un partito del Sud che si rappresenta politicamente come speculare e simmetrico rispetto al Nord a trazione salviniana.
E invece il M5S si presenta come il «partito della nazione». «Siamo l’unica forza politica non territoriale», dirà Di Maio alla stampa estera una settimana dopo, proprio mentre le trattative coi leghisti per far partire la legislatura sono in pieno svolgimento.
Lui e quelli del suo inner circle sanno bene che per il M5S esiste eccome una specifica questione settentrionale. Ne sono tanto consapevoli da aver fatto cominciare proprio dal Nord il rally propagandistico che ha condotto Di Maio al pieno di voti nelle urne al Sud. Tutto era iniziato da altre latitudini e sotto altri auspici, dunque, con un lungo mese di visite ad associazioni di categoria e imprenditori. Di Maio che stringe mani a uomini d’azienda e manager. Di Maio che dispensa dichiarazioni contro l’invadenza dello stato. Di Maio che invoca con piglio macroniano la «start-up nation». Di Maio e Davide Casaleggio erano convinti che la vittoria elettorale sarebbe arrivata soltanto sfondando nel tessuto produttivo del Nord, facendo proseliti tra piccoli e medi imprenditori. Le letture cospirazioniste e paranoiche sul M5S non funzionano perché la storia del grillismo è piena di scenari imprevisti, passi falsi e rocambolesche inversioni a U. Tutto il contrario dell’attuazione di un piano preordinato da qualche manipolatore o da un grande vecchio. Questo è uno di quei casi. Nel mezzo della campagna elettorale i sondaggi hanno sancito il fallimento dello schema: non era in corso nessuno sfondamento. Quando lo stato maggiore grillino se ne accorse, Alessandro Di Battista si lasciò sfuggire la battuta sugli italiani popolo di «rincoglioniti». E invece è stato il Sud a fare la differenza, a gonfiare la bolla grillina e metterla in cima al podio elettorale. Con percentuali impressionanti, cappotti nei collegi uninominali, uno tsunami di consensi. Non importa che si tratti della parte di Mezzogiorno più dinamica, come la Puglia, o di quella più abbandonata, la Calabria. La gente vota 5 stelle, ignora cacicchi e famiglie storiche, capi-bastone e signori dei voti.
Potere alla parola
Per cogliere a fondo il senso storico di questo trionfo, bisogna considerare che la campagna meridionale cominciò molto prima. Alle origini del fenomeno politico pentastellato. Era l’autunno del 2012. Beppe Grillo si tuffò nelle acque dello Stretto di Messina. Tuffandosi esattamente dal punto in cui avrebbe dovuto sorgere il pilone calabrese del fantomatico Ponte e raggiunse la Sicilia a nuoto. Gianroberto Casaleggio era lì presente, lo osservava da un gozzetto caracollante. L’uomo in muta arrivò tra Messina e Ganzirri, sfidando gli Scilla e i Cariddi della politica tradizionale. Diede vita ad un tour paese per paese. Parlava di rete, innovazione, democrazia diretta. Ma mentre riempiva le piazze siciliane in compagnia di comuni cittadini proiettati sulla scena politica locale, Grillo resuscitava in chiave postmoderna una storia che pareva sepolta: quella del politico che usa la parola, l’affabulatore che con un linguaggio forbito e spiazzante sale su di un piedistallo e ipnotizza l’uditorio. Grillo è andato a prenderseli uno a uno, gli elettori segnati da quello che Tonino Perna chiama «sviluppo insostenibile», i cui templi restano nella crisi di Pomigliano, nelle ciminiere e nei pontili abbandonati del sogno industriale a partecipazione pubblica di Sant’Eufemia e Salina, nei veleni in attesa di bonifica delle acciaierie di Bagnoli e Taranto. Nella memoria inconscia di questi reduci dello sviluppo deve essere rimasto un barlume di fascinazione per quei politici d’altri tempi, figure contornate di poteri quasi paranormali dei maghi della medicina e degli stregoni della parola che catalizzavano l’attenzione della gente. Il comizio anche allora era uno spettacolo nel quale il potente metteva in scena la sua abilità linguistica, catalizzava i timori e le credenze dell’isolamento contadino. Adesso ricompare nelle performance di Grillo, nei videomessaggi virali di Di Maio, nelle piazze in diretta streaming di Di Battista. Persino nella parlantina leziosa da docente di liceo classico di Nicola Morra.
La clientela modernizzatrice
La parola aveva smesso di essere centrale nell’agone politico fin dagli anni Sessanta del secolo precedente, quando la modernizzazione, l’emigrazione, le riforme e i quattrini pubblici avevano disarticolato le comunità locali come luoghi privilegiati della costrizione di clientele. L’eletto che prima veniva dal mondo delle professioni fu rimpiazzato dal politico di professione, capace di organizzare la clientela in maniera più raffinata.
Al posto dell’ormai insufficiente rapporto diretto del cittadino di fama col suo popolo, quello che gli storici definiscono dalla «clientela verticale», si diffondeva la «clientela orizzontale».
Il leader socialista Giacomo Mancini era una figura paradigmatica di questo mutamento, che ci aiuta a comprendere quanto sia artificiosa la linea di frattura «Corruzione Vs Sviluppo». Politico moderno, controverso, abile e spregiudicato, Mancini era un oratore poco istrionico, quasi timido. Altre erano le doti richieste in quella fase. Mentre il Pci cercava di organizzare i lavoratori di un mondo rurale ormai in declino senza cogliere i passaggi epocali dell’urbanizzazione e del sogno industriale, Mancini capì prima ancora della Dc che il soggetto di riferimento era cambiato: bisognava rivolgersi a uomini e donne urbanizzati, che volevano lasciarsi indietro la fatica e il sudore, il freddo e l’arsura del lavoro della terra. Per questo si schierò per i diritti civili, parlò alla gente di città trattandola come tale, preferendo (non senza qualche malizia antipci) le eresie rivoluzionarie alle nostalgie contadine. Nella sua Cosenza accolse i militanti dell’Autonomia, indossando di nuovo la tonaca di avvocato per difenderli nei processi. Puntò sull’industrializzazione, pianificando dal centro le politiche economiche, costruendo blocchi di interesse attorno ai suoi progetti. Circolano aneddoti su quella storia, dati e circostanze probabilmente reali ma semplificatori. I 21 mila bidelli calabresi sparsi in tutta Italia dal ministro dell’istruzione Nicola Misasi. O l’autostrada Salerno-Reggio Calabria che compie una deviazione dalla costa all’entroterra, complicando parecchio la vita di progettisti ed esecutori, pur di passare dal feudo elettorale del ministro dei lavori pubblici Mancini. Il 61 a 0 di Berlusconi in Sicilia, potenza ideologica del miracolo italiano coadiuvato dal personale politico della prima repubblica, e il dominio dei signori delle tessere nel centrosinistra erano l’ultimo prolasso di quel mondo prosciugato dalla fine degli investimenti pubblici.
Dividi e governa
In un breve saggio dei primi anni Settanta, Giovanni Arrighi e Fortunata Piselli studiarono la nascita del capitalismo in un contesto ostile, differenziato, periferico e contraddittorio come la Calabria. Quella ricerca offre ancora oggi un approccio paradigmatico alla complessità, delle composizioni di classe, dei modelli di produzione e di impresa, dei conflitti che possono nascere e cambiare continuamente lo scenario sotto i nostri occhi. Un docente allora giovane ma già reduce da qualche anno di insegnamento e militanza negli Stati Uniti e in Rhodesia, porta nella Calabria di quegli anni il suo modello di lavoro collettivo e le sue prospettive globali. Quel pezzo di sud viene descritto come concentrato dei tipi di creazione del lavoro salariato e come metonimia della globalizzazione. In uno di questi ambiti, si descrive la fine del grande latifondo e la crisi del mondo contadino. L’occupazione delle terre e le lotte avevano fondato la solidarietà nella coscienza di classe, produssero forme di vita in comune, mentre il vecchio sistema del latifondo palesava la sua inadeguatezza. La legge sulla riforma agraria del 1950 creò una nuova classe di piccoli proprietari, cui spesso vennero assegnati dei fondi nelle terre più marginali e meno fertili. I latifondisti erano pessimi capitalisti, troppo abituati alla produzione ad alta intensità di lavoro senza diritti dell’epoca precedente. Passarono i libri contabili a uomini di fiducia, amministratori, imprenditori senza scrupoli. Dal canto loro, le assegnazioni delle terre provocarono la dissoluzione delle cooperative che si erano formate negli anni delle lotte. I nuovi piccoli proprietari che prima avevano combattuto per la riforma agraria si rivelarono troppo piccoli e deboli per stare sul mercato, la loro esistenza restò appesa agli interventi assistenziali. I partiti al governo si sbarazzarono del protagonismo dei contadini, imbrigliandolo nelle logiche del favore che accarezzavano una certa grettezza popolare. La clientela e la parentela divennero un modo per costruire catene di interesse. La mafia contemporanea emerge in questi contesti, laddove bisogna governare con le spicce ciò che non vuole farsi comandare, supplire la mancanza di regolazione politica e l’incapacità della borghesia di innovare e, come si dice, intraprendere. La piccola criminalità delle prime guardianie si allargò fino al racket dei trasporti e alla collusione con la politica che dispensava favori.
La mafia non costituisce dunque un rallentamento dello sviluppo ma incrementa in maniera selvaggia e terribilmente efficace l’integrazione di un territorio periferico nelle spire del mercato globale. Per questo non bisogna fidarsi di quelli che dicono che senza corruzione arriverà finalmente lo sviluppo. La corruzione, esattamente come la mafia è stata funzionale allo sviluppo.
Lo notò in tempi non sospetti Luciano Ferrari Bravo in «Stato e sottosviluppo», uno studio divenuto un classico del pensiero critico. Dal dopoguerra, scrive Ferrari Bravo, «il filo rosso che collega l’intervento straordinario è la progressiva concentrazione dell’esercizio della funzione di mediazione politica negli organi statali o, meglio ancora, governativi, rappresentati dalla Cassa del Mezzogiorno e dall’insieme degli altri istituti che a essa fanno capo». Non ci trovavamo di fronte all’«anarchia delle forze produttive», ma ad una dinamica che intreccia povertà e accumulazione, migrazione interna e nascita della classe operaia, sud e nord, esercitata dagli istituti di programmazione. La pianificazione, la costruzione di quelle clientele e la modellazione dello sviluppo meridionale, è avvenuta a colpi di leggi speciali alla shock economy ante-litteram del terremoto dell’Irpinia. Te ne accorgi quando passeggi per le stradine dei paesi calabresi a centinaia di chilometri dall’epicentro e ti dicono che pure quel posto era stato inserito nelle mappe del cratere (e quindi nelle reti clientelari) che indirizzarono la ricostruzione e le relative spartizioni. Non si trattava solo di corruzione e neppure «di una gestione statica dell’arretratezza», bensì di un «governo attivo, dinamico e flessibile dello sviluppo», come scrive Adelino Zanini introducendo il lavoro di Ferrari Bravo. C’è una relazione tra sviluppo e sottosviluppo, laddove quest’ultimo non è un non ancora ma si intreccia profondamente al primo. Così come il nord si mescola col sud, bisogna diffidare di chi disegna due destini. Le lotte operaie condotte dagli emigrati meridionali, i fusti tossici delle imprese del Nord che arrivano in Campania e nei mari di Calabria, le macchine movimento terra della ‘ndrangheta che monopolizzano le grandi opere in Piemonte e Lombardia. Allo stesso modo occorre prestare attenzione alla specularità, pur nelle differenze oggettive, tra i due schieramenti usciti vittoriosi dalle urne, cioè il Movimento 5 stelle e la Lega. Il modo in cui, maneggiando la comunicazione con la quale si propongono come difensori del popolo e della sua sovranità, si prestano alla gestione dei conflitti e delle contraddizioni che pure mettono in scena.
Le fabbriche di Beppe
Lo studio di Arrighi e Piselli ci fornisce un altro spunto d’analisi attualissimo. In un altro degli ambiti presi in analisi, si assisteva ad uno sviluppo in assenza di conflitto sociale. Arrighi adoperò sue esperienze africane per osservare che l’emigrazione svolgeva un ruolo di pacificatore sociale, per lo meno nel contesto locale. E che le lotte operaie nelle fabbriche del Nord condotte dagli emigrati meridionali corrispondevano ai cicli di crisi dell’economia di autoconsumo locale: le difficoltà delle zone di origine, la richiesta di maggiori rimesse, si scaricavano nel cuore del capitalismo industriale. Proviamo a capire se questa relazione tra territori differenti esiste ancora. Riflettendo sullo studio di trent’anni fa, Fortunata Piselli osserva che l’emigrazione dal Sud c’è ancora. E considera che circa il 40 per cento dei diplomati calabresi arriva nelle università del Nord. Se un tempo ci si spostava subito dopo aver preso moglie, per partire e mettere da parte i soldi che avrebbero magari consentito di tornare e assicurare autonomia economica al nucleo familiare, oggi ci si sposta invogliati dalle borse di studio che al Sud sono più difficili da ottenere. Quel popolo di emigranti intellettuali che diventano prima studenti fuorisede e poi ricercatori e lavoratori precari, aggiungiamo noi incrociando quello studio al dato elettorale, probabilmente è reduce dalle lotte universitarie e dei saperi dell’Onda. È lo stesso che provò a incanalare Nichi Vendola. Ricordate all’inizio degli anni zero la riproposizione dei treni dal Nord per votare Nichi alle regionali pugliesi o le Fabbriche di Nichi che in una breve stagione fecero pensare alla nascita di un Obama italiano diffuse anche al nord nelle zone universitarie? Quella composizione oggi vota in grandissima parte Movimento 5 Stelle. È il backlash dell’emigrazione cognitiva che dopo anni di sconfitte e con la crisi dei movimenti universitari (per dirla meglio: con la crisi dell’università come spazio pubblico e di movimento) si appiglia alla speranza grillina e alla pur vaga promessa di reddito.
Non guardare in faccia a nessuno
C’è poi la linea di frattura «Periferie Vs. Centri Urbani», che rimanda alla questione delle mappe delle città e del loro voto massiccio ai grillini e che ci aiuta a spiegare l’altra linea: «Democrazia Vs. Rappresentanza». Verrebbe da chiedersi se nei quartieri popolari nei quali ha raccolto fior di consensi, a Zen o a Scampia, Di Maio sia andato a spiegare chiaramente che il suo partito ha votato contro la riforma carceraria e l’agevolazione delle pene alternative per le condanne fino a quattro anni, misure che colpiscono soprattutto i proletari carcerati. Ma andiamo oltre. A complicare ulteriormente il quadro, c’è che la relazione tra processi di governance e trasformazioni della composizione di classe non riguarda solo la strutturazione del voto e l’analisi dei suoi flussi. C’è da afferrare anche l’altro corno della questione: a quali soggetti viene affidata la delega? In questi giorni circola la mappa dei collegi uninominali con il Sud d’Italia completamente giallo 5 Stelle. Allo stesso modo, quando Virginia Raggi venne eletta sindaca di Roma osservammo la cartina della città, con le bandierine grilline che assediavano da tutte le periferie i soli due municipi del centro storico conquistati dal Pd. Si parlò anche allora della «rivincita delle periferie». Ci accorgemmo in poco tempo che votando in massa per il M5S le periferie avevano affidato la loro rivalsa ad esponenti della piccola borghesia avvocatizia che gravitano attorno agli studi del centro.
Su periferie e crisi al Sud, Piselli osserva la discrepanza tra «ricchezza prodotta (indicata dai dati macroeconomici come il Pil e il reddito pro-capite) e sfera della riproduzione biologica e sociale, segnalata da vari indicatori relativi al benessere della popolazione» quali il consumo di calorie (!) e la speranza di vita. Ciò si spiega con i meccanismi compensativi delle pratiche sociali. Non si tratta solo di fenomeni visti di buon occhio ed entrati nello stereotipo un po’ romantico della vita quotidiana meridionale quali «piccole attività agricole di autoconsumo, rimesse degli emigrati, scambio di beni e prestazioni tra famiglie». La crisi viene combattuta anche con «adattamenti regressivi che mettono in circolazione ingenti quantità di denaro»: criminalità organizzata, illegalità diffuse, lavoro nero, evasione fiscale. Per di più (ecco un’altra linea di frattura che va decostruita) quando apprezziamo il voto del 4 marzo come espressione «libera» dobbiamo considerare che «se le reti di parentela, vicinato e amicizia strumentale sono manipolate dall’‘alto’ per ottenere consenso elettorale, sono usate anche dal ‘basso’ per ottenere protezione e vantaggi di vario genere». Oggi si parla di reti corte della corruzione, di potenti di quartiere e di «microclientela». Il voto di scambio lo riconosci di più alle elezioni amministrative, dicono gli esperti. Alle politiche e alle europee si esprime più un voto di opinione e magari si manda un segnale ai potenti sempre meno potenti in attesa della prossima scadenza. A Sud, nella maggior parte dei casi il M5S non ha sfondato alle elezioni comunali. Per un motivo simile in queste elezioni non ha funzionato la personalizzazione del voto dei collegi uninominali. Nelle trame di chi aveva congegnato la legge elettorale, gli «sconosciuti» grillini avrebbero dovuto soccombere di fronte ai candidati rodati. È avvenuto il contrario: il senso di rivalsa contro i volti noti ha premiato i 5 stelle. Il dispositivo che avevamo chiamato «populismo digitale» in fondo ruotava esattamente attorno alla capacità di costruire dall’alto un popolo serbando la consapevolezza che il consenso si costruisce federando le diverse nicchie di audience, le bolle della galassia digitale. I casi più paradossali raccontano di un voto disincantato e rabbioso, troppo trasversale e dilagante tra le classi per essere considerato come rivolta degli esclusi o per sovrapporsi unicamente alla rivendicazione di quello che i 5 Stelle chiamano impropriamente «reddito di cittadinanza». Eppure, anche se per accogliere Di Maio si sono apparecchiati i buffet nei salotti della buona borghesia delle province meridionali e si sono organizzati aperitivi tutt’altro che «popolari», quel discorso ha pesato: in una società che ha conosciuto il mito del «posto fisso» in tempi relativamente recenti, questa richiesta spontanea di denaro in cambio della fine (della promessa) del lavoro suona effettivamente come pretesa di un risarcimento. Proprio nell’ex feudo manciniano di Cosenza, la quarantenne Anna Laura Orrico, una neofita della politica in passato vicina all’imprenditore del tonno in scatola Callipo, ha stracciato i suoi concorrenti. Tra di essi proprio Giacomo Mancini Jr, erede della dinastia politica socialista oggi basculante tra destra e sinistra. E come spiegare il 46,6 per cento raccolto da Catello Vitiello a Castellammare di Stabia? Il quarantenne avvocato ed espulso preventivamente dal M5s in quanto «massone in sonno» è l’emblema di una nidiata di professionisti, piccoli notabili, imprenditori scelti direttamente da Di Maio senza passare per le «parlamentarie» e piazzate nei collegi uninominali. Le periferie urbane che hanno votato in massa per i 5 stelle hanno scelto loro. Tra di essi figurava anche Salvatore Caiata, il presidente del Potenza Calcio fatto fuori a liste chiuse e candidatura ormai fatta perché indagato per riciclaggio: anche lui è stato eletto come se nulla fosse. La clamorosa, a volte al limite del paradosso, vittoria del brand pentastellato denota la fine delle clientele storiche ma al tempo stesso si impone sopra le persone, rende superflua la mobilitazione reale e l’organizzazione dal basso.
È difficile non notare come la rappresentanza/rappresentazione che si pretende di scacciare a pedate fuori dalla porta rientri di soppiatto dalla finestra luccicante della propaganda. Il ritorno della parola e dell’affabulazione, da questo punto di vista, non è una semplice ripetizione di uno schema già visto. Dilaga in una struttura sociale diversa da quella della prima metà del secolo scorso. È un voto, questo, che non guarda in faccia più nessuno.
Le divergenze parallele
Questo rifiuto ci interroga, ci deve interessare, per certi versi affascinarci. Ma è un fenomeno sospeso, tra il guardare oltre e il tenere gli occhi bassi. La gente non ascolta i potenti di un tempo ma non presta nessuna attenzione alle persone cui sta affidando una delega in bianco, firmando una cambiale politica senza l’assicurazione minima o senza la necessaria emersione di un cordone di sicurezza, di forme nuove di organizzazione sociale o della circolazione di un accenno di pensiero politico-culturale. Ecco allora che il voto del 5 marzo ha radici strutturali ma è un messaggio disperato più che di speranza. Non suona nient’affatto gioiosamente liberatorio. Al massimo sollecita il ghigno della vendetta. È stato un gesto feroce e dispettoso, libero ma volatile. Magari leggero e solitario come un mi piace su Facebook: da interpretare e prendere sul serio. Saremmo tentati di ipotizzare che il primato di Salvini nel Nord del paese ha molto a che fare con il mutamento delle forme e dei contenuti del discorso pubblico che il M5S ha interpretato e rafforzato in questi anni. È sbagliato considerare, come fanno in molti dalle parti del centrosinistra, che questi voti prima o poi torneranno a casa, che l’equilibrio è destinato a ristabilirsi come passa il mal di testa dopo una notte di baldoria e dunque basta aspettare, magari mostrarsi magnanimi coi figlioli prodighi. I flussi elettorali non sono soltanto fotografie dell’opinione pubblica. Compongono nuovi equilibri e cambiano il contesto e l’ordine del discorso nel quale ci troviamo ad operare. Ridefiniscono continuamente lo scenario, non necessariamente proiettandolo in avanti.
Le piazze vuote e le urne piene del grillismo finora non hanno offerto sponde ai movimenti sociali. In alcuni casi hanno arato e dissodato il terreno sul quale Salvini ha seminato il sovranismo 2.0: dalla comunità nazionale unita contro gli affamatori della Casta e gli speculatori della finanza internazionale al «prima gli italiani», la formula parafascista che ha marcato il successo di Salvini, per alcuni il passo è stato breve.
Lo confermano le analisi post-voto dell’Istituto Cattaneo: al settentrione la svolta moderata di Di Maio ha avuto saldo negativo, comportando la perdita di alcuni elettori, in transito verso la Lega di Salvini. Quest’ultimo, per altro, è stato eletto al Sud. Ed è andato a festeggiare, accolto come un liberatore, proprio a Rosarno, cioè in uno dei pochi luoghi in cui in questi anni c’è stata una rivolta ma l’hanno fatta i migranti. Gli italiani invece votano Salvini. Non è detto che tutto ciò si trasformi in una vera e propria alleanza di governo tra M5S e Lega. Per adesso Salvini e Di Maio hanno capito che gli conviene restare nello schema delle «divergenze parallele», a contendersi l’elettorato magari con una nuova legge maggioritaria. Non ci troviamo di fronte all’espressione di una soggettività, tantomeno ad un blocco sociale. E tuttavia proprio i primi cinque anni di straordinari traguardi elettorali a 5 Stelle hanno mostrato che questa composizione liquida, trasversale e ubiqua, rende inafferrabili e inutilizzabili parti del discorso grillino, anche quelle che sembrano più avanzate. Ciò complica di parecchio la possibilità di mettere Di Maio e soci di fronte alle loro contraddizioni una volta giunti nella stanza dei bottoni. Nelle importanti città in cui ciò è avvenuto raramente i nodi sono arrivati al pettine e la strategia dell’elusione dei conflitti grillina si è inceppata, difficilmente si sono aperti spazi di manovra. Si pensi alla grande opera dello stadio della Roma e alla gestione, al fianco di Minniti, dello sgombero di piazza Indipendenza di Virginia Raggi. O alla svolta a favore delle Olimpiadi e alle condanne delle proteste antifasciste, ancora una volta al seguito del ministro dell’interno, di Chiara Appendino a Torino
I grillini chiedono garanzie sul terreno dell’«onestà» e della concretezza degli interventi. «Politica vuol dire realizzare», dice Di Maio citando una frase di De Gasperi. Siamo di fronte ad una scorpacciata di significanti vuoti che può essere interpretata dal basso e da sinistra? Diciamo che appare molto difficile, visto che il M5S si trova costretto a stringere accordi di governo nel parlamento più spostato a destra dell’intera storia repubblicana e nel mezzo del ciclo reazionario continentale. Le politiche «keynesiane espansive» promesse da Di Maio e dai suoi ministri forse non sfoceranno in una qualche forma di welfare paternalista e autoritario che guarda a oriente, verso Visegrad, ma difficilmente diventeranno il new deal della spesa pubblica o una rinnovata edizione dello Spirit Of 1945 del welfare britannico. Presentandosi come il garante della stabilità, Di Maio ha auspicato la nascita della «Terza Repubblica dei cittadini». Un battesimo che si celebra in una situazione paradossale, beffarda e asfittica: il massimo del rifiuto della vecchie forme della politica coincide col minimo spazio per i movimenti sociali. Tutta l’Italia rischia di diventare come il liceo di Pomigliano che ospitò i primi passi politici di Di Maio: in nome dell’attenzione alle «cose concrete» si promette che non ci sarà nessun conflitto a turbare l’ordine.