di BEPPE CACCIA.

 

 

Gli ultimi due mesi a Berlino hanno visto in rapida sequenza: la firma dell’ “accordo di coalizione” sul programma della nuova maggioranza tra Socialdemocratici (SPD), la Sinistra (die Linke) e i Verdi (Bündnis90 / die Grünen), formatasi dopo il voto del 18 settembre scorso e la sconfitta locale della Größe Koalition; la costituzione del nuovo Senato (il governo della “città-Stato” che ha lo statuto costituzionale di un Land federale); e, da ultimo, l’esplodere del “caso Holm”, per il momento conclusosi con le dimissioni da Segretario di Stato per la casa e il suo licenziamento da ricercatore presso la Humboldt Universität.

Proprio per contestare questa decisione, nel momento in cui scriviamo, l’Istituto di Sociologia dell’ateneo è occupato da oltre trecento studenti ormai da una settimana. E innumerevoli momenti di discussione e mobilitazione si sono sviluppati intorno a questa vicenda per iniziativa, in particolare, dei movimenti degli inquilini attivi nella capitale tedesca sul tema del diritto all’abitare.

Per meglio comprendere il significato sociale e politico di questo “caso” e inquadrarlo nel contesto dei processi di trasformazione metropolitana di cui Berlino è un singolare laboratorio, abbiamo conversato a lungo con il suo protagonista, Andrej Holm – attivista nei movimenti per la casa e sociologo urbano, assai noto a livello internazionale per i suoi studi sulla “gentrification”. Per prima cosa gli abbiamo chiesto di presentarci la sua storia.

 

Sono nato nel 1970 nella Germania Est e cresciuto in una famiglia di solida tradizione comunista. Alla fine della DDR il mio atteggiamento verso il socialismo era idealista. E perciò mi sono arruolato per il servizio di leva in un reggimento dei servizi di sicurezza, la StaSi. Nel 1989 con la “svolta” ho cambiato molte delle mie idee rispetto al sistema socialista e sono diventato parte del movimento libertario e autonomo qui a Berlino, nel movimento di occupazione delle case dei primi anni Novanta. In questa esperienza di attivismo e di conflitto con la proprietà immobiliare, ho avuto i miei primi contatti con la sinistra e ho imparato molte cose sui diritti degli inquilini, sul problema dell’abitare all’interno delle trasformazioni in atto nella città.

E sempre all’inizio degli anni Novanta ho iniziato a lavorare con il movimento degli inquilini nei quartieri orientali di Berlino, che era prevalentemente incentrato sui nascenti conflitti intorno allo statuto proprietario delle case, giacché nella DDR tutti questi edifici erano gestiti dallo Stato, ma i precedenti proprietari ora li rivendicavano o vi erano situazioni confuse rispetto alla proprietà. In quartieri come Prenzlauerberg o Friedrichshain l’ottanta per cento degli appartamenti ha, in quegli anni, cambiato proprietario. E la gran parte di essi non aveva alcun interesse nel restaurare delle case molto vecchie e decrepite, senza possidenti da una cinquantina d’anni, e quindi la gran parte di esse fu svenduta. Ciò significò che nell’arco di sei/otto anni, qui a Berlino nella mia esperienza, si ebbero ben due profondi e rapidi cambiamenti di situazione: prima, un processo di privatizzazione nel senso del passaggio dalla gestione tutta statale alla proprietà dei precedenti possidenti; poi, nel giro di un anno, l’arrivo di nuovi proprietari, più professionalizzati e unicamente orientati al profitto. Un passaggio molto veloce dalla “piccola privatizzazione” alla “professionalizzazione” della speculazione, che si è completato nella seconda metà degli anni Novanta: cioè dalla semplice privatizzazione alla più complessa gentrificazione attraverso il restauro di molti immobili, un processo che si è realizzato nonostante le numerose lotte, le proteste di movimenti di base nei quartieri, centrato sulla volontà di rimanere a vivere nei propri quartieri.

Il dibattito pubblico sulla gentrification inizia ufficialmente nel 2008/9, ma per quanto riguarda Berlino Est dovremmo dire che abbiamo avuto un movimento sociale contro la gentrificazione almeno quindici anni prima e ben prima che il concetto fosse largamente utilizzato dalla ricerca accademica e dal dibattito politico. A quel punto ho iniziato a studiare sociologia urbana alla Humboldt Universität e ho realizzato che vi erano alcuni concetti scientifici di cui trovavo immediata corrispondenza nella mia esperienza di lotta, e che potevano essere utilmente impiegati per leggere i processi avvenuti e in atto, a partire proprio da quello di gentrification. In quegli anni ho affiancato lo studio al lavoro di consulenza per i sindacati degli inquilini, i loro giornali e riviste, inziando anche a scrivere documenti di analisi per il partito Die Linke di Berlino sulla questione della casa in generale e su problemi più specifici, cercando di connettere la politica istituzionale, anche di settori e singole personalità dei Verdi e dalla SPD, con i contenuti elaborati e le rivendicazioni espresse dal movimento degli inquilini. Sono nel frattempo diventato ricercatore alla Humboldt e ho utilizzato la popolarità del mio ruolo di studioso e dei temi che ho trattato per introdurre nel dibattito pubblico mainstream proprio le questioni poste dai movimenti di lotta per l’abitare, lavorando sull’interrelazione tra ricerca accademica, movimenti e politica.

 

Arriviamo così al voto cittadino del settembre scorso, alla sconfitta dell’alleanza tra Socialdemocratici e democristiani della CDU, che governava dal 2011 il Senato …

Dopo le elezioni di settembre a Berlino, quando si è creata una nuova maggioranza tra SPD, die Linke e i Verdi ed è cominciata la discussione sul programma della coalizione di governo rosso-rosso-verde, mi hanno chiesto di diventare Segretario di Stato per la casa. All’inizio ho rifiutato perché, come ricercatore e attivista, il mio giudizio sulla coalizione tra SPD e Sinistra che aveva governato tra il 2001 e il 2011 era negativo: in particolare le loro politiche per la casa avevano avuto un’impronta profondamente neoliberista, arrivando fino alla privatizzazione di parte dell’edilizia residenziale popolare che era rimasta di proprietà comunale. La stessa società municipale che gestisce questo patrimonio aveva smesso di sostenere i soggetti sociali più in difficoltà e vi era stata una sorta di “liberalizzazione” dei canoni d’affitto. La stessa politica complessiva di sviluppo urbano aveva avuto una forte caratterizzazione neoliberista, favorendo in primo luogo i grandi investitori.

Ho subito accettato invece di prender parte, come esperto, al gruppo di lavoro sul programma della coalizione, per dare il mio contributo. E a questo punto ho realizzato che si stava facendo sul serio: per la prima volta si discuteva nel merito dei contenuti, in dettaglio, e con grande trasparenza oggi chiunque può leggere quali siano i precisi impegni assunti dal nuovo governo della città. Ho anche potuto verificare che molti dei contenuti dei più significativi, espressi dai movimenti sociali urbani negli ultimi anni, venivano assunti nel programma di coalizione.

Alla fine il risultato è che, in materia di politiche per la casa ma non solo, siamo di fronte a un programma marcatamente anti-liberista, combinato con l’idea fondamentale che sia necessario farla finita col “rigore”, mettere la parola fine al tempo dell’austerity dal punto di vista delle politiche finanziarie dell’amministrazione. Si dice a chiare lettere, e si indicano le concrete proposte per realizzarlo, che il “decennio dell’austerity” è finito e si apre invece un decennio di rinnovati investimenti pubblici, per infrastrutture sociali pubbliche. Sulla base di questo ho ripensato alla mia scelta e ho accettato, ai primi di dicembre scorso, di entrare nella squadra di governo in prima persona.

 

Che ruolo hanno avuto i movimenti in generale, e quelli degli inquilini in particolare, nel periodo della campagna elettorale e dei negoziati sull’accordo di coalizione?

 

Negli ultimi quattro anni le iniziative per il diritto alla casa hanno giocato un ruolo importante, non solo nella protesta contro la speculazione. Hanno anche iniziato a costruire una piattaforma di rivendicazioni, che nel suo insieme costituisce una proposta organica di “riforma” delle politiche per l’abitare, e che si è imposta nella discussione politico-istituzionale. Su questo è stata scritta, dal basso, una proposta di legge sugli affitti per il Senato di Berlino, e decine di migliaia di firme sono state raccolte per lo svolgimento di un referendum per l’approvazione della proposta stessa. L’impatto è stato così forte che, addirittura nell’ultimo anno di “grande coalizione”, con socialdemocratici e democristiani al governo della città, la stessa SPD ha recepito quasi l’ottanta per cento di queste proposte del movimento in un legge da approvare. Un successo, certo parziale, ma che ha aperto la strada alla definizione di una politica della casa alternativa da parte della nuova coalizione progressista.

Molte delle rivendicazioni del movimento erano già state recepite dai programmi elettorali della Sinistra, dei Verdi e di alcuni settori socialdemocratici. E gran parte della campagna elettorale, e della sconfitta della CDU, si è proprio giocata mettendo al centro la questione dell’abitare: era divertente vedere come molte delle parole d’ordine del movimento fossero diventate slogan dei volantini elettorali delle forze progressiste. Il tema del “diritto alla città” è stato centrale nel voto di settembre. E il movimento per la casa è stato uno degli attori principali del dibattito politico cittadino. Il cambiamento nei programmi e nelle politiche dei partiti è partito proprio dall’iniziativa dal basso dei movimenti.

Per questo molti di noi si sono convinti dell’efficacia dell’impatto della nostra azione e del fatto che a questa oggi corrisponda una reale volontà della coalizione rosso-rosso-verde, che sta cominciando adesso a governare Berlino, di realizzare una nuova politica alternativa per la casa. Questa convinzione si è poi tradotta nella proposta fatta a me dalla Linke di entrare nel governo, una proposta che non mi riguardava solo come persona, ma esprimeva il riconoscimento diretto del ruolo del movimento in questo cambiamento. E la mia nomina ha aumentato la consapevolezza della portata del cambiamento in atto.

Anche nel dibattito nei movimenti, ricordo l’articolo di un compagno che si chiedeva “chi dovrebbe aver paura di questa nomina?” E la risposta era che, certo un Segretario di Stato non avrebbe potuto stravolgere le regole del sistema, ma ci sarebbero state nuove risorse per case pubbliche e social housing, e che anche il mercato sarebbe stato meglio regolato.

Insomma le politiche di governo non hanno a che fare con cambiamenti strutturali, ma il mercato dell’abitazione, e più in generale il mercato della proprietà immobiliare è prevalentemente basato sulla speculazione, e la speculazione sugli “umori”, ovvero i sentiment del mercato stesso. E che, quindi, già un cambiamento nel discorso del governo di Berlino, nella sua narrazione, risulta altrettanto importante quanto gli strumenti reali che saremo capaci di mettere in campo nei prossimi anni. Cambiare la percezione per i grandi investitori che questa città, da luogo di attrazione per operazioni speculative, diventa un luogo condizionato da una politica di coraggiosa riforma in senso sociale delle politiche di sviluppo urbano e per l’abitazione, questo è efficace così come le politiche reali che si è in grado di attuare, perché così cambi l’immaginario del mercato, le sue aspettative di profitto e rendita.

E lo stesso si può dire che funzioni per i movimenti cittadini: diventa molto più facile organizzare le proprie proteste e formulare rivendicazioni più avanzate, se hai la sensazione che dall’altra parte vi sia un governo municipale aperto a queste idee e pronto a tradurle in politiche concrete. Non era in gioco la mia personalità, ma uno scontro intorno a questo sentire, cioè quanto una nuova politica per la casa potesse essere socialmente riorientata, un conflitto intorno alla possibilità di un discorso e di una pratica di rottura con la cornice neoliberista.

 

Veniamo al “caso Holm”: poche ore dopo la tua nomina è partita una impressionate campagna mediatica che ti metteva sotto accusa per il tuo passato.

 

Nel giro di due giorni alcuni media e l’opposizione di destra hanno aperto la polemica sia sul mio servizio militare svolto da diciottenne in un reparto della StaSi, sia sul fatto che nel 2007 ero stato incriminato e incarcerato per un breve periodo per “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” [paragrafo 129a del Codice penale tedesco], con l’accusa di essere membro di un “gruppo militante” che compiva azioni di sabotaggio contro la speculazione edilizia. Io avevo già parlato e discusso pubblicamente le due questioni dieci anni fa.

Ma il punto della campagna è stato mirato alla mia “inaffidabilità”, al fatto che non avrei detto tutta la verità, in particolare nel momento in cui ero stato assunto come ricercatore alla Humboldt Universität. Con continue richieste di ulteriori chiarimenti su ogni dettaglio che riguardasse i miei anni giovanili, quando era chiaro, anche nel confronto che ho avuto con gruppi del dissenso e vittime della repressione di Stato nella DDR, che era stata una scelta che da tempo avevo affrontato in termini di autocritica e con idee molto diverse da quelle del diciottenne di allora. Ma questo stillicidio di notizie dei media ha creato il caso politico all’interno del nuovo Senato, e siamo stati tutti costretti a discutere molto di più di questo che delle nuove politiche abitative da intraprendere.

 

Intanto decine di migliaia di persone si sono mobilitate, per esempio sottoscrivendo la petizione lanciata dalle Mieterinitiativen, le associazioni degli inquilini, che sostengono come il caso-StaSi sia stato in realtà strumentalizzato anche da settori della coalizione, all’interno della stessa SPD, che preferiscono rispondere agli interessi della grande proprietà immobiliare piuttosto che realizzare quelle nuove politiche per la casa, previste dal programma di maggioranza …

 

Ci sono alcune interpretazioni di questo tipo nel movimento, molte voci si sono levate a mio sostegno in questa direzione, e ci sono sicuramente molti intrecci tra la campagna contro di me, la cultura profondamente anti-comunista di consistenti settori dell’establishment tedesco e gli interessi materiali del capitale speculativo. È certo un dibattito dai molti livelli e dalle molte sfaccettature, come del resto è la mia biografia politica e personale insieme. Per questo ho deciso che era impossibile rimanere nel ruolo di governo, senza un adeguato sostegno da parte di tutti i partner della coalizione, avendo il pieno appoggio dalla Linke, poco da parte dei Verdi e nessuno da parte dei Socialdemocratici. Troppo poco per convincermi a restare e proseguire il mio lavoro.

La scelta di dimettermi, seguita all’intervento pubblico contro di me del sindaco di Berlino Michael Müller, nasce anche dai molti confronti che ho avuto con il gruppo consiliare e con le senatrici e i senatori della Linke. Era chiaro che, nel caso non mi fossi dimesso, si sarebbe arrivati al voto nel Senato, a una spaccatura tra le diverse forze politiche di maggioranza, e quindi allo scontro interno e alla fine della stessa coalizione rosso-rosso-verde. Alcuni attivisti del movimento mi spingevano a restare, dicendo “andiamo a vedere cosa scelgono di fare”; altri, anche quelli che non hanno particolari aspettative per questa alleanza, sostenevano invece che c’era il rischio che tornasse la “grande coalizione” tra CDU ed SPD, quindi una situazione politica peggiore di quella uscita dal risultato elettorale.

Ho deciso di dimettermi per evitare che si arrivasse alla rottura nella coalizione rosso-rosso-verde e che le nuove politiche sociali, antiliberiste e anti-austerity contenute nei suoi impegni programmatici, venissero messe in discussione.

 

Hai scritto infatti nella tua lettera di dimissioni “il mio ritiro non significa affatto la rinuncia a una politica alternativa per la casa”. Che cosa significa? Di quali misure stiamo parlando?

 

Abbiamo discusso di questo in un’assemblea con centinaia di attivisti del movimento. Una discussione che ha preceduto la mia nomina e che deve necessariamente continuare dopo le mie dimissioni. La possibilità di un’interazione positiva tra il nuovo governo di Berlino e i movimenti sociali è tutta aperta. Iniziative come la nostra proposta di referendum sulla legge per il controllo dell’aumento degli affitti o come quello, che si è tenuto ed è stato vinto, dei comitati a difesa del Tempelhofer Feld (l’ex aeroporto, ora grande parco urbano) dalla speculazione immobiliare, sono abbastanza forti per affermare che la stagione di una nuova politica per il diritto all’abitare non finisce con le mie dimissioni. Anche le iniziative che il movimento ha preso per reagire alla campagna su di me sono state diffuse e partecipate, e non c’è motivo per essere in alcun modo frustrati da quanto è accaduto.

Dalle ultime settimane, per quanto riguarda il nostro rapporto col governo rosso-rosso-verde, abbiamo imparato ancora una volta che ciò che conta sono i rapporti di forza reali in città. Invertire le tendenze dominanti nel campo della politica residenziale è questione di rapporti di forza sociali. E noi dobbiamo interrogarci su come sia possibile costruire un contropotere sociale più forte di prima. Dopo la mia vicenda è ancora più chiaro di prima che, se vogliamo una nuova politica della casa, dobbiamo lottare: un buon social housing non sarà mai un “regalo” del governo, bisogna conquistarlo. Ed è chiaro che molte iniziative degli inquilini escono rafforzate da questa esperienza.

 

Puoi riassumere quali sono i principali problemi per quanto riguarda il diritto alla casa a Berlino e, viceversa, quali siano i punti di forza del programma della nuova coalizione che tu hai contribuito a scrivere? E le possibilità che ora questi si realizzino effettivamente?

 

Le questioni della casa sono sempre una materia complessa. Mettiamola così, c’è un fatto semplice: soddisfare il diritto all’abitare è troppo costoso per chi ha un basso reddito, ma questo è il risultato del complicato intreccio e dell’interazione tra condizioni economiche generali, meccanismi finanziari d’investimento, politiche pubbliche. E ha anche a che fare con il sistema fiscale, sia le imposte sui redditi sia quelle sulla proprietà fondiaria e immobiliare. Non è perciò facile dire quali siano i problemi “principali”. Sia nell’analisi, sia nella ricerca delle soluzioni, bisogna avere un approccio sistemico. La prima cosa che dobbiamo tentare di cambiare è proprio l’assunzione di questo punto di vista “di sistema.” In questi ultimi anni tutte le iniziative del governo sono state parziali e strumentali. Anche quando noi chiediamo l’introduzione di norme che, giustamente, garantiscano di più l’inquilino, comunque non andiamo a incidere sulle dinamiche del mercato.

Il punto è ancora quello posto centocinquant’anni fa da Friedrich Engels, cioè la logica capitalista che ritiene che la casa sia soltanto una merce, da valorizzare il più possibile. Se partiamo da questa analisi, allora abbiamo bisogno di ricombinare un ampio ventaglio di strumenti, a più livelli, per intervenire sulla questione della casa. Questo tema è stato posto dai movimenti urbani negli ultimi anni, ed è stato recepito nel programma della coalizione. A Berlino ci sono quasi 300.000 appartamenti di totale proprietà comunale, gestiti da una società pubblica che dipende dal Senato. Questo settore residenziale pubblico è stato però gestito negli ultimi anni con una logica privatistica, imprenditoriale. Il primo obiettivo è quindi la riorganizzazione della società municipale in modo che lavori non per il profitto, ma per garantire un predominante interesse sociale. Suona facile, ma in realtà è molto complicato perché significa cambiare completamente le regole e la mentalità stessa dei funzionari che vi lavorano.

Il secondo obiettivo riguarda il “social housing” e i suoi attuali standard: a Berlino significa che nuove costruzioni o restauri d’imprese private vengono sostenuti finanziariamente dallo Stato in cambio, in teoria, di un contenimento dei prezzi di vendita e dei canoni d’affitto. Il risultato invece è che, a Berlino, questi prezzi restano troppo cari per le persone meno abbienti, nonostante lo Stato investa miliardi di euro in questo settore. E chi lavora con Hartz IV non può certo permetterseli. Uno dei punti del programma è la riforma della normativa sul social housing, vincolando gli investitori in modo da trasformarlo in un settore realmente sociale.

Un terzo obiettivo riguarda la protezione dei diritti degli inquilini, e rispetto alla situazione di Berlino la normativa nazionale si rivela spesso insufficiente, per esempio in caso di sfratto. Abbiamo deciso di dotarci di nuovi strumenti, grazie anche ai poteri da “città-Stato” di cui gode Berlino, introducendo vincoli sulle trasformazioni urbanistiche, dando più poteri ai Municipi dei diversi quartieri cittadini, costituendo il Senato in giudizio a sostegno degli inquilini che resistono a processi di espulsione.

Ma il punto più importante è che, negli ultimi quindici anni, sotto la pressione delle politiche di austerità, il processo di dismissione e privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico è stato enorme. Nel programma di coalizione s’inverte completamente la rotta: basta svendite, le uniche permesse sono a investitori che assicurino un effettivo social housing o direttamente agli inquilini a basso costo. E si vara un massiccio piano di acquisti e nuove edificazioni pubbliche.

Infine, abbiamo affermato un diverso modo di prendere le decisioni politiche: non più quelle consultazioni che mettevano sullo stesso piano le associazioni degli inquilini e le lobby della speculazione immobiliare. Ma ogni scelta sarà votata dopo un ampio e partecipato dibattito pubblico, che analizzi i problemi e affronti le possibili soluzioni, dopo aver valutato quale sia l’obiettivo sociale di ogni politica istituzionale. Ci vorrà un anno per avere la nuova legge per la casa, ma abbiamo già iniziato.

E poi, un piccolo esempio per parlare dell’importanza di marcare un altro stile politico di governo, dell’immaginazione e della narrazione di fronte al mercato: abbiamo deciso che al prossimo MIPIM, la grande fiera del real estate che si svolge ogni anno a Cannes, Berlino non andrà a vendersi come “prodotto” per i grandi investitori, ma a illustrare quale è la nuova cornice sociale dentro cui dovrà inscriversi ogni futuro investimento in città. Mancare a questa presentazione, devo dire che è l’unica cosa che mi dispiace della mia vicenda. Questo è quanto abbiamo discusso e concordato nelle ultime cinque settimane e che tutta la coalizione in Senato, al di là della mia persona, si è impegnata a realizzare.

 

Ultima questione: come studioso e attivista, che ha lavorato e che ha sviluppato molte relazioni in tutto il continente, quali ritieni siano similitudini e differenze tra la situazione della casa a Berlino e nelle altre città europee?

 

Ci sono molte cose in comune, perché tutti, anche se in misura e con modalità diverse, abbiamo subito gli effetti delle politiche neoliberiste e d’austerità negli ultimi vent’anni. E dall’altra parte, ogni città ha la sua specifica storia, sia nello sviluppo urbano che nella crescita dei movimenti. Ciascuna con la propria diversa constellazione di forze: pensiamo a Barcellona, Madrid, Roma … il panorama sociale e politico è cambiato profondamente negli ultimi quindici anni. In Germania le cose sono andate diversamente: noi abbiamo a che fare con un quadro politico di relativa stabilità, con socialdemocratici e conservatori, i verdi e la Linke. L’unico partito “nuovo” è la destra dell’AfD.

Una specificità di Berlino, per effetto della sua storia di città divisa, è che continua ad avere una certa “mixité” sociale anche nei quartieri più centrali. Nel cuore della metropoli continuano a vivere persone a basso reddito, famiglie che beneficiano del sistema di welfare. Questa è la grande differenza con Parigi, Londra o Barcellona, dove la trasformazione neoliberista del centro cittadino è un processo compiuto. E la nostra sfida è dimostrare che potrà essere ancora così nel Ventunesimo secolo, che un’alternativa al processo di gentrificazione è possibile. Mostrare che è possibile una diversa qualità sociale della vita urbana nel suo insieme. E dimostrare che una politica alternativa per il diritto alla casa dipende ed è, al tempo stesso, una componente essenziale di un discorso sull’eguaglianza sociale nelle nostre città, che può nascere ed essere portato avanti dai movimenti dal basso. È il caso di Barcellona, nel rapporto tra l’esperienza di lotta della PAH e la conquista del potere locale attraverso le elezioni. Non è l’unico caso, ma questo è il tipo di esperienze che dobbiamo condividere, interrogandoci su come costruire più forza sociale a partire dai movimenti.

 

Pensi possa esserci lo spazio per costruire alleanze tra quelle città dove c’è una certa dialettica tra movimenti, forze politiche e governi progressisti, non solo per sviluppare queste proposte in ogni singolo contesto urbano, ma per affermare una diversa politica della casa in Europa?

 

Dobbiamo portare avanti questo lavoro su entrambi i versanti: sono alcuni anni che c’è un buon livello di relazioni tra movimenti per la casa, che hanno discusso campagne comuni contro gli sfratti in tutta Europa, scambiandosi anche preziosi strumenti informativi sulla situazione dei diversi paesi. Questo è un buon punto di partenza: le nostre iniziative anti-sfratto qui a Berlino hanno adottato molte delle forme sperimentate dalla PAH, ad esempio, traducendole nelle nostre specifiche condizioni. Imparare dalle altre città e organizzarsi su scala transnazionale è fondamentale.

Poi c’è un secondo livello, quello dell’elaborazione dei dispositivi necessari ad attuare una nuova politica dell’abitare: abbiamo differenti legislazioni nazionali, in Olanda o in Italia, ma ci sono delle idee che possiamo adattare e applicare. Ciò che è importante, è non fermarsi a una valutazione acritica degli strumenti. Vienna ha realizzato un imponente programma di edilizia residenziale pubblica, ma decentrato fuori dalla città storica: come fare così ad arrestare il processo di gentrificazione in ogni quartiere?

Perciò abbiamo bisogno di fare rete, sia tra ricercatori critici, sia tra attivisti, sia tra governi di sinistra e alternativi. E combinare questi differenti livelli, non solo tra istituzioni. Ada Colau sa bene, come del resto la coalizione rosso-rosso-verde di Berlino, di aver bisogno di una forte spinta dal basso, di una permanente pressione sociale. E questo è parte della nostra capacità di mutuo apprendimento a livello internazionale.

 

 

Berlino, 17 gennaio 2017

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