Di MARCO BASCETTA

«Non importa che il gatto sia bianco o nero, purché acchiappi i topi». La celebre «cineseria» attribuita a Deng Xiaoping molti anni dopo la morte di Bertolt Brecht, con tutta la sua ambiguità, meriterebbe un posto d’onore nel brechtiano Me-ti. Libro delle svolte, riproposto a quarant’anni dall’ormai scomparsa edizione enaudiana curata da Cesare Cases (L’Orma editore, a cura di Marco Federici Solari, pp. 260, e 18,00).

Un richiamo al pensiero materialistico? L’ennesima versione del «fine che giustifica i mezzi»? Una parola d’ordine pragmatica calibrata sulla contingenza politica del dopo Mao? Un invito spregiudicato ad abbandonare i principi? E poi, se non conta il colore del gatto, meno irrilevante è quello del topo che si intende acchiappare.

Per esempio, van der Rohe

L’insieme disorganico di parabole, aforismi, turbamenti, riflessioni e illustrazioni didascaliche del marxismo e del leninismo, attraverso il quale un Brecht travestito da cinese nella doppia veste del saggio maestro di pensiero Me-ti e del poeta e scrittore Kin-jeh, tenta di arrampicarsi tra le contraddizioni e i dubbi del più feroce Novecento, condivide tutta l’ambiguità e la pragmatica astuzia della felina sentenza di Deng. Aggiungendovi però lo scarto della poesia e di una indole al fondo anarchica.

La gran parte dei testi confluiti nel Me-ti risalgono agli anni tra il 1934 e il ’37, il periodo dell’esilio danese. Sono gli anni dell’ascesa di Hitler e dell’affermarsi brutale dell’autocrazia staliniana, cui lo scrittore di Augusta riconosce comunque una sorta di necessità. In quel drammatico frangente Brecht non vede alternative. Tutto è immerso in una sconfinata violenza e il socialismo, sia pure in un paese solo tiranneggiato da Stalin, non gli sembra avere prezzo. Ma il dubbio che una tragica degenerazione stia per inghiottire senza rimedio la grande rivoluzione proletaria riaffiora a ogni passo. Il sapiente Me-ti cerca di ribattere in nome della disciplina leninista alle obiezioni di Karl Korsch o di Rosa Luxemburg, tutti rigorosamente in abiti cinesi, ma in realtà non intende metterli davvero a tacere. Ripetutamente si schiera con gli interessi materiali del proletariato contro gli intellettuali, difende l’utilità pratica, di cui però intimamente diffida, dalle acrobazie del pensiero critico che invece lo tentano. Lo mette bene in luce la storiella dell’architetto Len-ti (Mies van der Rohe) che, avendo proclamato bello l’utile, aveva costruito «case senza ornamento alcuno in cui era soddisfatto ogni bisogno degli inquilini». Ma gli operai che erano andati ad abitarvi, delusi e scontenti, così avevano replicato alla visione di Len-ti: «Nelle fabbriche in cui lavoriamo tutto è pratico, non vi è niente di inutile. Noi stessi serviamo solo in quanto siamo utili. Noi abbiamo orrore dell’utile. La macchina che consuma la nostra vita è costituita di metallo e vetro, ed ecco che tu costruisci perfino i nostri mobili di metallo e vetro». L’organizzazione socialista come rovesciamento speculare della fabbrica capitalista non poteva subire più beffarda contestazione.

La recita in pseudocinese, a volte una patina fin troppo trasparente, non è semplicemente un gioco e nemmeno una qualche variante della brechtiana «estraniazione«. È invece soprattutto un tentativo di parlare «chiaro» piuttosto che in «modo popolare». Poiché, spiega Me-ti, questo modo «viene dall’alto e ha qualcosa di condiscendente». È un artificio che poggia su presunte familiarità, sulla pigrizia e sulle formule più stantie. Insegnamento assai utile per il nostro presente, poiché ignorare la distanza tra ciò che è chiaro e ciò che si pretende popolare è la caratteristica dominante della politica contemporanea e del suo marketing linguistico.

Delitti spacciati per morale
Ma la teatrale «cineseria» del Libro delle svolte vuole in primo luogo rappresentare quei «tempi oscuri» che della irriverente poesia di Brecht, della sua disciplinata scelta politica e della perenne tensione irrisolta tra le due, costituiscono l’invalicabile orizzonte. Quel tempo nel quale ogni azione richiede il perdono dei posteri, come dichiara uno dei suoi più dolorosi versi. Così Kin-Jeh, se da un lato riconosce una ragione alla violenza staliniana per cui non simpatizza, dall’altra giustifica «i delinquenti di specie comune come i ladri, gli assassini per rapina, i falsari e i violenti» per i quali mostra invece un debole. Se «delinquono contro l’egoismo per egoismo, purtuttavia essi violano appunto le cattive leggi» e «molto più pericolosi sono coloro che essi perseguitano e da cui vengono perseguitati, poiché costoro agiscono come un insieme compatto quando compiono i loro delitti, e li chiamano azioni morali». Questi sono dunque i «tempi oscuri» nei quali anche la lotta contro l’ingiustizia può essere ingiusta e la furfanteria vantare qualche merito.

È questa forse la ragione per la quale l’opera di Brecht conserva solo pochi affezionati lettori dopo gli anni Settanta del Novecento. Perché da allora nessuno vuol più ammettere di vivere in tempi oscuri. Eppure la violenza più estrema dilaga nel mondo: affama, uccide, respinge. Ma l’ipocrisia e la falsa coscienza pretendono di tenersene fuori. Nessuno chiederà perdono ai posteri per gli affogati del Mediterraneo o i caduti del massacro inflitto ai greci. Nemmeno per la distruzione del pianeta.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 6 ottobre 2019. 

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