Di MICHAEL HARDT.
Pubblichiamo qui la traduzione italiana dell’intervento di Michael Hardt del 28 febbraio 2019 all’Université Paris Diderot.
Intervenire sull’organizzazione politica è molto difficile oggi (e soprattutto in Francia) senza fare riferimento ai Gilets jaunes. Dato che non faccio parte del movimento, e che ne sono senz’ombra di dubbio meno informato di alcuni di voi, non ne proporrò direttamente un’analisi. Tuttavia il movimento illustra sullo sfondo i miei pensieri e le riflessioni teoriche che seguono.
Il mio problema teorico principale è il seguente: come può una molteplicità decidere e agire politicamente? La storia del pensiero politico, o almeno la sua tradizione dominante, ci insegna che solo l’uno, il sovrano, può decidere e agire politicamente, sia questo il re, il concilio, il partito o il popolo. Tuttavia i movimenti politici più ispiranti e potenti degli ultimi decenni hanno insistito, al contrario, sulla loro molteplicità interna. Dal punto di vista di questa tradizione dominante è possibile condannare questi movimenti: se vogliono costituire una forza politica duratura ed efficace, allora dovrebbero abbandonare la loro molteplicità e adottare, al suo posto, un soggetto tradizionale e unificato attraverso, per esempio, dei meccanismi di rappresentanza e delle strutture centralizzate decisionali. Vorrei esaminare un’alternativa possibile, vale a dire la possibilità che una molteplicità politica possa essere organizzata in un modo per il quale sia efficace senza dover ridurre la propria pluralità interna. Si noti che non si tratta di dire che queste molteplicità in azione delle quali siamo stati i testimoni negli ultimi anni, compresi i Gilets jaunes, siano sufficienti allo stato attuale per produrre un cambiamento sociale conseguente, ma piuttosto che lo possono fare attraverso un progetto di organizzazione.
Per esplorare questa possibilità, vorrei tracciare due movimenti: un primo movimento che va dalla classe alla moltitudine e un secondo che va dalla moltitudine alla classe. Questa formulazione suggerisce a prima vista un muoversi pendolare, un semplice andata e ritorno, ma vorrei mostrare al contrario che si tratta di una progressione teorica e politica, in quanto il senso dato alla classe come punto di partenza non è lo stesso che acquista all’arrivo. Infatti, il passaggio della classe attraverso la categoria di moltitudine trasforma il suo senso. La formula generale dell’organizzazione che ho in mente è C-M-C’: classe-moltitudine-classe apice uno, e come per Marx, l’importanza di questa formula risiede nella trasformazione che si produce in senso a questo processo. La classe apice uno deve essere una “classe-moltitudine”, una classe intersezionale.
Il primo movimento: dalla classe alla moltitudine.
Prima di affrontare direttamente la questione della classe devo ammettere che, oggi, la molteplicità è già divenuta l’orizzonte del nostro immaginario politico. Gli attivisti e i movimenti sociali lo hanno reso un fatto assodato. L’assenza di leader è spesso presentata, soprattutto dai media, come la caratteristica distintiva di questa potente serie di movimenti che è iniziata nel 2011 e che va dalle insurrezioni contro i regimi autoritari in Tunisia e in Egitto al BlackLivesMatter negli Stati Uniti, passando attraverso i cosiddetti indignados in Spagna e in Grecia, Occupy Wall Street e le manifestazioni di Gezi Park in Turchia. Il movimento dei Gilets jaunes, da molti punti di vista, si inserisce pienamente all’interno di questa serie. Sì, è vero che tutti questi movimenti rifiutano le forme tradizionali di autorità centralizzata ma invece di affermare che si caratterizzano per l’assenza di leader è più utile concepirli come delle lotte di moltitudine – utile, in parte, per meglio distinguere le loro virtù come tutte le sfide con le quali si confrontano.
Per qualificarli come lotte di moltitudine, dobbiamo affrontare il concetto di moltitudine per via negativa rispetto a due rifiuti che gli sono intimamente connessi: il rifiuto di ridurre la moltitudine all’unità (da cui l’insistenza sulla molteplicità interna) e il rifiuto del principio di rappresentanza (da cui l’affermazione della partecipazione).
Innanzitutto rifiutare di ridurla all’unità distingue la moltitudine dalla folla, dalla massa, o dalla populace. Una lunga tradizione teorica, che include Gustave Le Bon e Gabriel Tarde, considera che le differenze apparenti che compongono la folla sono immediatamente riducibili a una forma di unità. O, più precisamente, che la folla non è una, ma che le sue differenze apparenti sono in realtà indifferenti – che la folla è una falsa molteplicità. Questo mi porta a una prima caratteristica distintiva della moltitudine, che devo ancora sviluppare ulteriormente – e cioè la persistenza delle differenze che la compongono.
Il caso teorico più significativo di questo rifiuto dell’unità concerne la separazione della moltitudine dal popolo. È, infatti, quello che rivendica Thomas Hobbes: il popolo può decidere, può agire politicamente, perché è uno, mentre la moltitudine non può farlo in quanto è plurale. Le teorie recenti sul populismo e il primato politico del popolo, come quelle di Ernesto Laclau, sono forse più pertinenti per la nostra discussione. È vero che dal punto di vista di Laclau il campo sociale è radicalmente eterogeneo, vale a dire che non vi è un soggetto sociale unico, come potrebbe esserlo il lavoratore industriale, che possa parlare a nome di o che possa sovra-codificare le altre soggettività sociale – in questo, e sotto altri aspetti, vi è un legame profondo tra la teoria di Laclau e il nostro concetto di moltitudine. Ma, nonostante questa eterogeneità, Laclau pensa che il politico non cominci veramente se non con la costruzione del popolo sotto l’egida di un’istanza egemonica. Il populismo, inteso qui come la costruzione del popolo, è così presentato da Laclau come il fondamento ineluttabile del politico in quanto tale. Le argomentazioni e gli orientamenti politici di Hobbes e di Laclau sono sicuramente molto differenti, ma entrambi lanciano una stessa sfida al concetto di moltitudine: è possibile per una molteplicità decidere e di conseguenza agire politicamente senza essere ridotta all’uno?
Queste due opposizioni concettuali – la moltitudine da una parte non si sovrappone con la folla né, dall’altra, con il popolo – possono essere all’origine di due pericoli cui vanno incontro sempre le lotte di moltitudine, e comprese quelle delle quali siamo testimoni oggi. Un primo pericolo è che la moltitudine divenga semplicemente una folla e sia incapace di organizzare dei processi decisionali e delle azioni politiche, cadendo o nell’inefficacia o nella manipolazione da parte di forze esterne. L’altro pericolo è che la moltitudine si trasformi in popolo, assorbita magari in un partito politico, e che smetta di essere così una molteplicità, ridotta a un progetto rappresentativo di natura populista.
Dovrebbe ormai essere chiaro che il movimento che va dalla classe alla moltitudine corrisponde alla presa di coscienza generale, nel corso degli ultimi decenni, che la classe operaia deve essere concepita in termini di molteplicità, allo stesso tempo all’interno e all’esterno delle sue frontiere. Infatti, questo cambiamento di prospettiva corrisponde all’esaurimento delle pretese dei partiti politici e delle istituzioni di rappresentare i lavoratori. La classe operaia in quanto formazione empirica non ha ovviamente mai smesso di esistere. Ma la sua composizione interna è cambiata sotto la pressione di nuove forme di lavoro, di nuove condizioni di lavoro, e di nuovi rapporti salariali – ed è per questo che è necessario condurre delle nuove inchieste sulla composizione di classe. Ma quello che mi sembra essere forse più importante è che le differenze in seno alle popolazioni lavoratrici, che sono sempre esistite, rifiutano ormai sempre più il principio di rappresentanza unica: le differenze tra i settori di lavoro, tra lavoro remunerato e non remunerato, tra lavori stabili e lavori precari, tra lavoratori regolari e lavoratori senza documenti – ma anche le differenze di genere, di razza, e di nazionalità che si aggiungono in un certo modo a queste differenze di statuto professionale. Qualsiasi inchiesta sulla composizione di classe e qualsiasi proposta di progetti politici fondati sulla classe devono essere assolutamente inseriti in un’analisi intersezionale. Si potrebbe dire che non si tratta qui di classe, se per classe si designa una soggettività unificata dall’interno o che può essere rappresentata come un tutto unificato, ma che si tratta piuttosto di una moltitudine, vale a dire di una di una molteplicità irriducibile.
Le lotte operaie, e le lotte anticapitaliste in generale, devono essere pensate in congiunzione e allo stesso livello delle lotte contro altre forme di dominazione, cioè le lotte femministe, le lotte antirazziste, e molte altre. In questo senso, il concetto di moltitudine è strettamente legato – e, in effetti, ne è profondamente debitore – all’analisi e alla pratica intersezionali, frutti delle pratiche teoriche del femminismo nero americano.
Fondamentalmente l’intersezionalità intende opporsi alle analisi politiche tradizionali che si concentrano su un asse unico di dominazione riconoscendo la natura intricata di razza, classe, sesso, genere e delle gerarchie nazionali. Questo significa, innanzitutto, che nessuna di queste strutture di dominazione è prima rispetto alle altre. Al contrario, sono relativamente autonome, possiedono la stessa importanza, e si costituiscono mutualmente: la dominazione di classe è allo stesso tempo dipendente, e costituita, da gerarchie di razza e di genere, esattamente come la dominazione razziale dipende da gerarchie di classe, e così via. In secondo luogo, nello stesso modo in cui le strutture di dominazione sono caratterizzate dalla molteplicità, anche le soggettività con le quali sono in rapporto lo sono. L’intersezionalità, di conseguenza, non implica un rifiuto dell’identità o una concezione cumulativa, di addizione, ma al contrario necessita di ripensare la soggettività alla luce della molteplicità.
Potrebbe forse essere utile adottare qui un altro approccio, e comprendere il passaggio della classe alla moltitudine attraverso il concetto di precarietà, inteso in due sensi distinti. Il primo senso, che è stato maggiormente sviluppato tra gli attivisti e pensatori europei, è concepito principalmente in termini di salario e di relazioni di lavoro. La precarietà in questo senso si oppone al contratto di lavoro stabile e garantito, che ha servito come ideale regolativo nell’economia fordista della seconda metà del ventesimo secolo – un ideale regolativo che, evidentemente, è esistito nella realtà ma per un numero limitato di lavoratori, generalmente i lavoratori industriali maschi nei paesi dominanti. Tuttavia, nel corso degli ultimi decenni, il contratto di lavoro stabile e garantito insieme alle leggi di protezione dei lavoratori si è progressivamente deteriorato fino a scomparire, ivi compreso per una popolazione limitata di lavoratori posta al vertice. I lavoratori hanno dovuto accettare sempre più delle situazioni di lavoro informali, temporarie, e senza garanzia. Ovviamente, queste condizioni di lavoro sono sempre state razzializzate e connotate dal punto di vista di genere. Le donne e i lavoratori di colore nei paesi dominanti sono hanno avuto in generale delle condizioni di lavoro molto più precarie che gli uomini bianchi che lavorano nell’industria. Ma tutti i settori professionali sono colpiti da questa tendenza, sebbene sotto diversi aspetti e in gradi differenti. Questa trasformazione del lavoro è divenuta un’arma micidiale del grande arsenale neoliberale.
Un altro senso di precarietà, molto più sviluppato negli Stati Uniti, offre un’integrazione utile a questa prospettiva. Anche questo senso serve come sfida al neoliberalismo, ma lo fa a partire da una prospettiva molto più inglobante. La precarietà, scrive Judith Butler, «designa quella condizione politicamente indotta per cui determinate persone soffrono più di altre per la perdita delle reti economiche e sociali di sostegno, diventando differenzialmente esposte all’offesa, alla violenza e alla morte»1. La precarietà nel lavoro è senza dubbio inclusa in questa definizione, ma la nozione di vita precaria va oltre nella sua comprensione dei cambiamenti legali, economici e governamentali che hanno aggravato le condizioni di esistenza di una grande parte della popolazione già subordinata – cioè le donne, gli omosessuali, le persone di colore, i migranti, le persone in situazione di handicap e molte altre.
Dunque, esiste una nozione di precarietà che si inscrive nel lessico della classe e un’altra che esige un approccio intersezionale. Messe insieme, offrono un fondamento solido per pensare la moltitudine.
Non presento questo movimento che va dalla classe alla moltitudine (o dal popolo alla moltitudine) come una parola d’ordine – inutile, in quanto si tratta di un fatto compiuto. Capisco perché molte persone considerano questo passaggio storico dalla classe alla moltitudine, al quale assistiamo da qualche anno, come un declino e una perdita, conducente alla diminuzione di potere e grandezza di sindacati e di partiti politici operai. Ma dobbiamo allo allo stesso modo riconoscere in questo processo un guadagno, una virtù. Innanzitutto un guadagno al livello dell’analisi: riconoscere la molteplicità delle strutture di dominazione come co-costitutive le une delle altre è un prisma migliore per comprendere la realtà sociale. Ma è anche un guadagno per la pratica. Oggi non vi può essere un progetto politico fondato sulla classe che sia efficace e durevole se non è allo stesso tempo un progetto femminista e un progetto antirazzista. È una difficoltà enorme, l’ammetto, ma che porta in sé un progetto potenzialmente molto più forte (e, ovviamente, molto più giusto).
Secondo movimento: dalla moltitudine alla classe apice uno (C’)
Teorizzare la molteplicità e riconoscere le sue diverse esistenze non è sufficiente – soprattutto se per molteplicità si intende semplicemente la frattura e la separazione. Per durare ed essere politicamente efficace l’organizzazione è necessaria, e quando si tratta di simili molteplicità, la necessità di organizzarsi è ancora più urgente. Si potrebbe rispondere alla mia domanda iniziale (come può una molteplicità decidere e agire politicamente?) affermando semplicemente che bisogna organizzarsi. Forse è vero, ma allo stesso tempo questa risposta non dice molto.
Un’obiezione evidente al movimento dalla moltitudine alla classe è che annulla tutti i vantaggi politici che ho messo in luce precedentemente, e cioè il passaggio da una concezione politica unificata (in particolare attorno a un asse di dominio unico: il capitale) a una molteplicità che include inoltre la lotta contro il patriarcato, contro la supremazia bianca, e molte altre. Tuttavia il mio obiettivo è di sviluppare una concezione della classe che non rinvii solamente alla classe operaia ma che sia in sé stessa una molteplicità, vale a dire una formazione politica che mantenga le promesse della moltitudine.
Innanzitutto è utile riferirsi agli autori che utilizzano il concetto di classe al di là del suo riferimento alla classe operaria al fine di prendere in considerazione le dominazioni di razza e genere come le lotte che sono loro associate. Per esempio Achille Mbembe, il filosofo camerunense, analizza i modi di controllo contemporanei utilizzati contro gli Africani che migrano verso l’Europa nei termini di “classe razziale”. «In realtà è il corpo dell’Africano, di ogni Africano preso individualmente, e di tutti gli Africani in quanto classe razziale che costituisce ormai la frontiera dell’Europa. Questo nuovo tipo di corpo umano non è solamente il corpo-pelle e il corpo esecrabile del razzismo epidermico, quello della segregazione. È anche il corpo-frontiera, quello che traccia il limite tra quelli che sono dei nostri e quelli che non lo sono, e che possiamo maltrattare impunemente»2. È evidente che qui, per Mbembe, il concetto di classe non è, o non solamente, una categoria socio-economica. Il concetto gli serve al contrario come mezzo per pensare la differenza razziale collettiva senza che quest’ultima non sia fondata semplicemente sul colore della pelle. La classe razziale nasce piuttosto dalle strutture e dalle istituzioni razziste dell’Europa.
Il riferimento a Mbembe fa qui eco all’uso, molto più sviluppato concettualmente, del termine di classe da Christine Delphy negli anni ’70. Quest’ultima utilizza il concetto di «classe di sesso» per comprendere la dominazione patriarcale e indicare un fondamento possibile della lotta femminista. Mentre altre femministe hanno contestato l’uso che fa del termine classe per indicare la dominazione di genere, il concetto di classe, risponde Delphy, permette, meglio che ogni altro concetto, di capire la maniera in cui i soggetti sociali subordinati sono prodotti da delle relazioni di dominazione. Dal punto di vista del concetto di classe, Delphy scrive: «non possiamo considerare ogni gruppo separatamente l’uno dall’altro, in quanto sono uniti da un rapporto di dominazione… I gruppo non sono… costituiti prima del loro essere in rapporto. È invece il loro rapporto che li costituisce in quanto tali. Si tratta quindi di scoprire le pratiche sociali, i rapporti sociali che, costituendo la divisione sessuale, creano i gruppi detti “di sesso”.»3.
Il mio interesse per le analisi di Mbembe e Delphy risiede, innanzitutto, come ho detto, nell’idea che il concetto di classe è utile per capire gli effetti di assoggettamento prodotti dalle relazioni di dominazione, che si tratti non solamente del capitale, ma anche del patriarcato e della supremazia bianca – non solamente della classe operaia. Ma anche della classe raziale, della classe di sesso, eccetera. Inoltre è importante che il concetto di classe sia utilizzato qui non solamente come un’affermazione analitica ma anche come una richiesta, una domanda politica di lottare insieme, in quanto classe, indirizzata a tutti coloro che sono assoggettati al patriarcato o alle gerarchie razziali. Infine, ed è l’elemento più difficile da affrontare, non è sufficiente, anche se è un passo avanti, riconoscere in questo senso la pluralità delle classi in lotta. Il concetto di «classe-moltitudine» o di classe intersezionale che provo a sviluppare necessita di un passaggio supplementare, cioè l’articolazione interna di queste differenti soggettività in lotta (la classe operaia, la classe razziale, la classe di sesso).
Spesso le analisi intersezionali rispondono a un bisogno di articolare le soggettività subordinate in lotta in termini di solidarietà e di coalizione (oppure di alleanza o di convergenza). A volte questo appare come una strategia addizionale: la lotta operaia più la lotta femminista, più la lotta antirazzista, più la lotta LGBTQI+, più… Una delle debolezze di questa concezione addizionale della coalizione è che i legami di solidarietà restano esterni. E la solidarietà esterna in questo senso non ha che una forza morale. Invece, quello che è necessario, secondo me, sono i legami interni di solidarietà, vale a dire un modo differente di articolazione che va al di là delle concezioni tradizionali della coalizione.
Vorrei illustrare questo punto fondamentale – le relazioni interne di solidarietà in seno a questa «classe-moltitudine» – aiutandomi con tre esempi teorici. Innanzitutto, Rosa Luxemburg: dopo la sconfitta dell’insurrezione russa nel 1905, Luxemburg critica il proletariato tedesco e il suo partito politico per la maniera in cui esprimono la loro «solidarietà internazionale con il proletariato russo». Disprezza le espressioni di simpatia e di sostegno dei Tedeschi per i loro cugini russi – siano queste di accondiscendenza o di ammirazione. Criticando queste manifestazioni di solidarietà, Luxemburg non difende ovviamente l’idea che i Tedeschi non debbano solidarizzare o prestare meno attenzione alle lotte russe. Al contrario! Secondo lei il problema è che simili espressioni di solidarietà costituiscono solo una relazione esterna. I rivoluzionari tedeschi devono riconoscere che gli eventi russi sono interni alla loro lotta o, come dice Luxemburg, che gli eventi russi sono «un capitolo della loro storia sociale e politica».
Il mio secondo esempio teorico fa eco alla critica delle relazioni esterne di solidarietà di Luxemburg, ma concerne le relazioni tra i movimenti di lavoratori e le lotte femministe. All’inizio degli anni ’80, Iris M. Young lancia una sfida agli uomini socialisti che proclamano la loro solidarietà al movimento femminista: «nell’insieme, scrive, i socialisti non considerano la lotta contro l’oppressione delle donne come un aspetto centrale della lotta contro il capitalismo stesso». Notate che Young non si rivolge agli uomini socialisti misogini e antifemministi, che dovevano sicuramente essere numerosi, ma piuttosto ai compagni di sesso maschile che sostengono e manifestano la loro solidarietà alle femministe, delle quali considerano le lotte come alleate, ma separate dalle loro. Proprio come Luxemburg, Young accusa queste forme di solidarietà di essere insufficienti, in questo caso non rispetto al livello delle frontiere nazionali ma per quanto riguarda la divisione di genere. Infatti Young esorta gli uomini socialisti a riconoscere le lotte femministe contro il patriarcato come un capitolo della loro storia sociale e politica. Non si può essere veramente anticapitalista senza essere femminista.
Un terzo esempio, questa volta più vicino a noi: Keenga Taylor propone lo stesso argomento rispetto agli attivisti BlackLivesMatter negli Stati Uniti i quali, troppo spesso, secondo lei, si concentrano unicamente sulla dominazione razziale. Esorta loro a riconoscere che la loro lotta contro la supremazia bianca deve lottare anche contro il capitale. Non si tratta solamente di accettare la partecipazione di alleati bianchi alla loro lotta, né di esprimere solidarietà nei confronti dei movimenti anticapitalisti. Gli attivisti antirazzisti devono loro stesse, e con altri, lottare contro il capitale – allo stesso modo, ovviamente, gli attivisti anticapitalisti devono riconoscere che la lotta contro la supremazia bianca è interna alla loro propria lotta.
Forse mi risponderete che sì, senza dubbio, tutti devono lottare insieme perché sono tutti precari nei due sensi di cui parlavo precedentemente. Ma proiettare una tale somiglianza non è di grande aiuto perché i loro modi rispettivi di precarietà differiscono. Dobbiamo mantenere l’idea di molteplicità: la dominazione capitalista non è la stessa cosa della dominazione di genere o della dominazione razziale, e non si può ridurre l’una all’altra. Invece che ridurle ad una cosa sola, la mia proposta richiede un’articolazione tra le soggettività in lotta.
È per questo motivo che la classe – la «classe-moltitudine» – piuttosto che la coalizione mi sembra un concetto più appropriato. È un concetto di classe che non è solamente composto di una molteplicità, ma che articola inoltre dei legami interni di solidarietà e un’intersezione tra le lotte, dove ciascuna di esse riconosce che l’altra è «un capitolo della propria storia politica e sociale» come dice Luxemburg. Ecco la sua modalità di articolazione, la sua modalità di assemblea. Chiamiamo questo concetto trasformato di classe “classe primo”: in questo modo, invece di classe-moltitudine-classe, il movimento che provo a descrivere qui è quello di classe-moltitudine-classe apice uno: C-M-C’, per indicare la trasformazione che avviene nel darsi stesso del processo.
Si tratta questa di una prima risposta teorica alla mia domanda di partenza: una molteplicità può agire politicamente? Si, lo può fare in quanto classe primo, in quanto molteplicità articolata dall’interno verso una lotta contro il capitale, il patriarcato, la supremazia bianca, e altre forme di dominazione. È vero, è una risposta puramente formale, concettuale, ma è forse uno schema possibile per pensare e portare avanti un simile progetto politico.
(traduzione di Clara Mogno)
J. Butler, L’alleanza dei corpi, Milano, Nottetempo, 2017, p.57 ↩
A. Mbembe, Vu d’Europe, l’Afrique n’est qu’un grand Bantoustan ↩
C. Delphy, L’ennemi principal, Paris, Syllepse, p.29 ↩