di MICHELE SPANÒ.*

 

Non capita spesso di leggere un libro – Sindacalismo sociale. Lotte e invenzioni istituzionali nella crisi europea, DeriveApprodi, pp. 152, euro 16 – così politicamente spregiudicato, sociologicamente avvertito e perciò genuinamente «utile» come questa collezione di saggi orchestrata, riunendo materiali eterocliti prodotti nel laboratorio di Euronomade, da Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi.
Il problema politico della crisi, vale a dire quale tipo di soggettivazioni (che sono le «lotte» del sottotitolo) in essa (cioè insieme a causa e a dispetto di essa) possano prodursi e si stiano producendo attende ancora di essere affrontata con una qualche serietà. Serietà non equivale a prosopopea, ma, eventualmente, a lucidità: senza essere tentati da miraggi volontaristici e neppure rimanendo intrappolati nel pessimismo.
Tuttavia per vedere quello che accade, bisogna organizzare gli strumenti daccapo con cura, fino a stravolgere i quadri di comprensione e gli schemi di azione.

In questo volume – e specialmente nel saggio introduttivo firmato dai due curatori e in quello «programmatico» di Giso Amendola – si gettano le premesse per condurre un’analisi della composizione sociale della crisi. Che è già un modo per dire composizione del lavoro all’altezza della ristrutturazione profondissima che la congiuntura ha impresso allo stesso significato e uso di concetti come «lavoro», «classe» e «politica» tout court. Sicché la domanda implicita che segretamente alimenta l’intero volume non è più – vivaddio – se le lotte ci siano ma, finalmente, che cosa una «lotta» sia. Il che vuol dire che c’è più politica tra cielo e terra (nel sociale?) di quanta ce ne sogniamo (e ci obblighiamo a sognare coltivando una certa idea, una certa immagine e una certa pratica della politica).

È questa una linea che attraversa tutti i contributi al libro. Dall’ipotesi dei curatori secondo cui è niente meno che l’aurea proposizione trontiana – «prima le lotte, poi lo sviluppo» – a subire la sua anamorfosi storica, alla torsione sociale e astratta che Toni Negri e Marco Assennato suggeriscono di imprimere a una pratica venerabile del movimento operaio quale è stato lo sciopero, fino alle pagine sulla «conversione» dei centri sociali in camere del lavoro autonomo e precario auspicata da Francesco Raparelli e Cristian Sica. L’enunciazione di due ipotesi secondo cui, da un lato, la crisi, questa crisi, avrebbe compiutamente assunto i caratteri di una forma di governo (in cui il ruolo della finanza – e un occhio all’ultimo libro di Arjun Appadurai potrebbe confortare – ha carattere eminente e decisivo) e, dall’altro, quella per cui la povertà non ne costituirebbe un residuo bensì uno specifico prodotto capace di indurre un effetto severo e ri-ordinante sulla cooperazione sociale, consegna, a chi abbia gli occhi per vedere, un panorama di inaudita complessità teorica e politica.

La sfida, per dirla con una formula, è riconoscere la speciale qualità istituzionale della cooperazione sociale. Disorganizzata, se si usa come modello di organizzazione quello sindacale o partitico classico; dispersa, se si applicano distinzioni politico-sociologiche adamantine; impolitica, quando si mobilitino immaginari di ieri. Tacendo ovviamente tutte le nequizie psico-politiche.
Tutt’altro quadro – non necessariamente più confortante, ma forse più aderente ai processi – è quella restituito da una lettura non consolatoria di questo dato soggettivo: forme di auto-organizzazione mutualistica già esistono, l’autonomia privata si orienta già orizzontalmente strappando ricchezza al capitale, la solidarietà ha già i suoi modi di istituirsi. Esiste anche una povertà che è impoverimento tendenziale e progressivo che spiega il residuo impolitico di una generazione. Esiste una generazione che non si riduce a una classe. Esiste una rottura epocale del nesso tra reddito e stili di consumo che manda in soffitta la distinzione.

Non resta perciò che far saltare l’ancora diffusissimo pregiudizio che immagina il sociale e il politico come due regioni saldamente definite e rigorosamente separate e, soprattutto, rendere conto della conclamata assenza di uno speciale procedimento alchemico per trasmutare l’uno nell’altro. È già politica, verrebbe fatto di dire. Il problema è però quello se non di dare, almeno di riconoscere forma e sostanza a questo «politico» del sociale.
Cosa vuol dire? E in che modo crisi, reddito, anagrafe, nuove forme della cooperazione contribuiscono alla ristrutturazione delle coordinate e delle logiche che governano la distribuzione sociale della politicità? In questo senso è cruciale l’immagine dell’economia barocca (e delle pragmatiche popolari) avanzata (qui in modo succinto altrove più distesamente) da Veronica Gago e Sandro Mezzadra. Nello scenario latino-americano l’ambivalenza strutturale dei posizionamenti soggettivi nella crisi (ma si sarebbe tentati di dire più semplicemente e più rigorosamente: nel rapporto sociale di capitale) ha occasione di venire a giorno in tutta evidenza.

Il problema da porsi non è tanto se questi soggetti siano cinici profittatori oppure innocenti vittime di dominazione e ideologia, ma se la qualità del loro organizzarsi è all’altezza della macchina che devono ogni volta, necessariamente, alimentare e sabotare.
«Dentro e contro», sembrano sostenere i saggi raccolti nel volume, non è uno slogan e neppure una scusa per «giustificare» (ma chi sarebbe poi che «si» giustifica e presso chi?) arretramenti, concessioni, collusioni, accomodamenti, compromessi. «Dentro e contro» è la divisa di almeno una generazione che vive nelle rovine del capitalismo e che organizza la vita – cioè la produzione di ricchezza – all’altezza dei discorsi che la alimentano, che la fanno gioire e che la fanno soffrire, che la inchiodano alle condizioni e che le permettono di immaginare l’incondizionato.

*articolo uscito su il manifesto del 9 agosto 2016.

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