di rag. ARTURO FANTI, bancario precario.

Domenica sera è stata una bella sera. Tutto il corpaccione opulento fremeva di fantasie frontiste. Attraversavo il Pireo a bordo di una vecchia UAZ mentre giovani ragazze mi donavano un “sospir” e gettavano in aria petali di rosa al passaggio della Brigata Garibaldi “Morrissey. Dai bancomat fuoriuscivano certificati di credito rossi come i nostri fazzoletti, mentre “c’erano pochi soldi ma a nessuno mancava niente” (e già la miseria della citazione, tradisce la tronfia pochezza del sogno).
La mattina, occhi cisposi, gengive sanguinanti, collo indolenzito, il pensiero si è fatto cupo. Credetemi, non certo per i dubbi del movimento sulla forza, la serietà, il tasso di compagneria di Tsipras, né per il “gran rifiuto” di Varoufakis; è che sono un bancario precario e allora, curvo sul fatturato, costipato da dati e “merdazza” ho fatto quattro conti e tirato giù precarissime e dolenti conclusioni che pur ferme nel plaudire i greci (il primo che mi parla di “popolo” lo omaggio con una foto di D’Alema), portano a concludere che… nell’anno della truffa/ sotto una stella grava/ veniva al mondo urlando/ come se fosse il primo/ e invece risultava /dai timbri e dalle carte/ l’ultimo della lista/ non l’uomo, l’apprendista.

Facciamo un passo indietro, ma di poco, all’ottobre (no, non quello, cosa avete pensato) 2014, epico sussulto di unitaria (ma neppure poi tanto, per quello che si dirà di seguito) strategia europea sulla valutazione degli istituti di credito (e quindi un po’ su tutto, se è vero che la moneta, in quanto bene fittizio, è creato dalle banche private attraverso l’indebitamento), onde prevenire future crisi.

economia-2014-06-grecia101-bigLe banche italiane, al pari delle europee sono uscite dagli stress test non peggio di quelle di altri paesi, anche se lo scorso anno, nel mese di Lenin, i giornali riferivano di banche italiane e greche sotto i riflettori dopo l’esito degli esami della Bce sui bilanci 2013. Gli istituti italiani hanno superato il cosiddetto “Asset quality review”, che fotografa la situazione reale della qualità degli attivi, ma un big come Mps e Carige si sono dimostrati deboli in caso di situazioni di stress. Montepaschi di Siena dovrà ricapitalizzare per 2,1 miliardi. Il board ha dato mandato agli advisor per valutare opzioni strategiche. “I risultati del Comprehensive assessment hanno confermato la solidità e la validità del settore bancario italiano – ha detto il direttore generale dell’Abi Giovanni Sabatini –. Se consideriamo lo scenario avverso degli stress test in aggiunta a quello che è già accaduto all’economia italiana, si ottengono cinque anni consecutivi di recessione. Nonostante questo scenario estremo, soltanto due banche non hanno superato il test”. Altro Paese sotto osservazione è la Grecia. Sulle quattro banche prese in esame, tre non hanno superato gli stress test, ma nessuna avrà bisogno di misure straordinarie. In Grecia, sia le banche sia il governo sono soddisfatti dell’esito del Comprehensive Assessment. I capitali aggiuntivi che gli istituti greci devono trovare sono minimi. Visto che le banche sono sufficientemente capitalizzate, ora ci si aspetta che comincino a finanziare l’economia reale. La Grecia lotta per lasciarsi alle spalle sei anni di recessione. “È un esito positivo, che permetterà alle banche di abbassare i tassi di interesse sui prestiti alle imprese, dal 5%, 6%, 7%, 8% attuale potrebbero scendere a 2%-3% e allinearsi con quelli degli altri Paesi europei – ha commentato Theodore Fessas, presidente della federazione ellenica delle imprese–. Ci aspettiamo anche che le banche mettano ordine nei crediti deteriorati, in modo da emergere dalla palude e permettere all’economia greca di intraprendere il cammino della crescita” [it.euronews.com 27.10.14].

E in Germania? Degli 11 gruppi bancari che nel 2009 erano al vertice del sistema bancario tedesco (tutti gruppi con attivi oltre i 175 mijiardi de euri) ben 7 hanno dovuto chiedere un intervento statale. E malgrado l’aiuto di stato, due di queste banche, (Kanye?) WestLB e Hypo Real Estate, sono state messe in liquidazione (e in Germania sono cazzi, non è ancora stata emanata la lex Verdina). Significativo [in quanto obliterante l’immagine sobria del paese del würstel e rafforzativo della cialtroneria del nostrano voler fare come in Germania (sempre, paradossale la sindrome della sinistra italica che vuol fare sempre come “altrove” dalla Russia all’America, come tuittava a ragione BoboCraxi)] è che le banche tedesche dall’inizio della crisi hanno ricevuto aiuti governativi per quasi 250 miliardi [lo stesso dicasi per Spagna, dove gli interventi pubblici sono ammontati a 60 miliardi, Irlanda e Paesi Bassi (50 miliardi a testa), Grecia (40 miliardi, che quindi non sono andati, come afferma la vulgata, a fannulloni avidi di Metaxa), ma anche a Belgio e Austria (19 miliardi) e Portogallo (18 miliardi)]. Al contrario, il sostegno pubblico in Italia è stato limitato ai circa 4 miliardi di euro andati a Mps sotto forma di Monti bond. Questo, ha sottolineato Panetta (indimenticato protagonista dei 3000 siepi a Roma ’87 ?), “è un motivo di vanto per il Paese. Se avessimo avuto un terzo degli aiuti della Germania, quindi per circa 77 miliardi di euro, avremmo avuto un surplus” (che poi sono palle, stante il buco da 195 mld, minimo, di cui sotto). Il sistema bancario italiano, invece, “è rimasto in piedi senza aver avuto bisogno di cospicui interventi pubblici” [www.ilfattoquotidiano.it, 26.10.14].

In particolare, il 23.10.14, nell’imminenza degli esiti dei test c’era chi leggeva correttamente i dati: non sono i grandi istituti (Deutsche Bank e Commerzbank) a preoccupare, ma le Landesbanken, le ex casse di risparmio legate al reticolo produttivo tedesco; la situazione appare particolarmente delicata per HSH Nordbank, che ha sede ad Amburgo (c’è chi ha pensato di dare la colpa ai Beatles) e Kiel, lo sbocco sul Mar Baltico, ed è una banca focalizzata sul segmento di imprenditori dei settori energetico e delle infrastrutture. L’analisi della Bce risulta insidiosa per due motivi: una definizione dei prestiti deteriorati in bilancio più stringente di quella utilizzata dalla Bundesbank (da noi Bankitalia ha parametrato le sofferenze con il machete, dimostrandosi più tedesca dei tedeschi), che farebbe risultare l’attuale cuscinetto di patrimonializzazione insufficiente a fronteggiare le crisi; scenari-test costruiti con condizioni molto difficili sul mercato immobiliare (visto in calo di oltre il 12% nei prossimi due anni) e su quello del debito pubblico (rendimenti al 2,9% nel 2015, versus lo 0,86% attuale del bund a 10 anni) e quindi oltremodo penalizzanti sui bilanci degli istituti di credito [Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2014].
Però gli “istituti minori tedeschi” sono stati esclusi dai test: oggi, gli analisti finanziari tedeschi sono invece preoccupati per le migliaia di istituti minori esclusi dagli stress test della Bce o dell’Eba e che vivono di tradizionale credito al Mittelstand, le medie imprese tedesche che in questo periodo sono preoccupate per la situazione economica. Secondo un sondaggio diffuso ieri dall’associazione imprenditoriale DIHT, un’impresa su due vede seri rischi per le proprie esportazioni. Calano di conseguenza le imprese tedesche che programmano nuovi investimenti e che chiedono credito alle banche. Sulle migliaia di banche locali di piccole dimensioni si fa sentire il recente peggioramento delle condizioni dell’economia che sta erodendo la modesta redditività  degli istituti. Sia la Bce, sia la Bundesbank, dietro le felicitazioni ufficiali, hanno infatti suggerito cautela [il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2014].

Allora, prendiamo in considerazione: (i) da un lato la modalità operativa dello stress test, alla luce dello spiegarsi della (non) regolamentazione bancaria/finanziaria dell’ultimo ventennio, dall’altro (ii) quanto in seguito accaduto e si avrà contezza delle ragioni che iscrivono la crisi Greca e le soluzioni contrapposte nella governance capitalistica.
Il primo elemento che risalta è che il test, per chi lo ha fatto (e patito) ha rivelato un rinnovato interesse per il “mondo produttivo”, a discapito dell’immagine tumultuosa ma lampeggiante della scelta finanziaria autonoma e svincolata da qualsiasi rapporto con il sudore del baldo imprenditore che come bandiera viene sventolato da ogni Ichino che (non) si rispetti.
In Italia, la disamina – dapprima di Bankit e poi della UE – ha colto nel segno (ma quale?) portando alla luce sofferenze, debiti inesigibili, fuffosità delle garanzie. In Germania, la verifica è stata più soft e parziale: come dire, ai pezzenti la verifica più stringente e soprattutto più pronta ad offrire carne alla INESISTENTE industria, ai ricchi ancora qualche mese di benessere prima dell’immancabile Hartz 72.

Ora, in Italia, la presenza di sofferenze nei bilanci delle banche italiane ammonta a € 191 mld. Il riferimento è a tutti i crediti la cui riscossione da parte delle banche è a forte rischio perché i debitori risultano in stato di insolvenza anche non accertato giudizialmente (che poi l’interpretazione dell’art. 5 L.F. è “strana”, esistendo tanti concetti di insolvenza quanti sono gli imprenditori e i loro garanti e i loro “santi”). Si badi che la “misura” ricomprende la categoria più grave dei crediti deteriorati che nelle forme meno allarmanti riguarda i prestiti scaduti (e non rimborsati, ovviamente, il che desta ancora maggiori timori, in quanto il mancato rimborso non consegue certo a forme di snobismo).
Nell’arco degli ultimi 12 mesi le sofferenze sono cresciute di 25.1 mld (e solo perché i controlli si sono fatti più severi, sarebbe sapere l’effettivo stato di salute dei debitori), con un’incidenza del 10%, che sale al 16,8% se si pone in considerazione il solo credito alla piccola impresa (che è il cuore del problema “precario”).

Si è, quindi, scatenata un vorticosa discussione sulla bad bank italiana dove “parcheggiare” i titoli tossici posseduti dalle banche: ancora una volta un salvataggio pubblico (attraverso l’espropriazione del “comune” negletto da liberali e statalisti ma avidamente ingollato). Non lo aveva ammesso nei mesi del vortice della crisi finanziaria globale, come era avvenuto invece negli Usa, in Inghilterra, in Germania e in altri Paesi. I bailout delle banche da parte dei governi di Londra e di Berlino furono rispettivamente di 167 e 144 miliardi di euro. L’Italia allora intervenne soltanto per 7,9 miliardi, tanto che appariva la più virtuosa. Oggi l’Unione europea considera il bailout italiano un «aiuto di Stato» in contrasto con la normativa vigente. Adesso sappiamo che le sofferenze bancarie italiane, i crediti inesigibili, sono circa 190 miliardi lordi. Probabilmente se ne possono recuperare circa 80 miliardi (che andrei a Lourdes se ne recuperassimo 40). Si rammenti che nel 2008 essi erano 42,8 miliardi. Oggi, purtroppo, tutti i titoli deteriorati (le sofferenze più i crediti di imprese in oggettiva difficoltà), ammontano a oltre 350 miliardi di euro (tanto che il credito verso la Grecia appare “mancia” elargita a socialisti e democratici ellenici in cerca di una ragione di sopravvivenza), pari al 17,7% di tutti i prestiti concessi dal sistema bancario italiano. Il Fmi ritiene che tale tasso sia peggiorato velocemente, tanto che peggio del bel Paese vi sono soltanto l’Irlanda (ma allora perché menarlo come fanno molti sul fatto che gli aiuti post referendum alla Grecia sarebbe un oltraggio all’Irlanda che invece “ha fatto bene i compiti”?), Cipro e la Grecia.
Le sofferenze sono maggiormente concentrate al Sud. Da giugno 2010 sono triplicate quelle delle imprese societarie, cresciute fino a 122 miliardi, pari al 72% del totale. In particolare sono sofferenze per prestiti superiori a 5 miliardi, che dal 2009 sono cresciute del 450%. Ben due terzi sono concentrati nei primi 5 gruppi bancari. La Banca d’Italia è chiamata in causa per cercare delle soluzioni. Riteniamo che, prima di qualsiasi proposta, essa dovrebbe spiegare perché in questi anni non abbia esercitato puntuali controlli nè adottato i necessari interventi correttivi
Per addolcire la pillola si sostiene, da più parti, che la bad bank potrebbe essere un toccasana per l’economia: le banche, liberate dal fardello, tornerebbero a far rifluire il credito verso le imprese [notiziegeopolitiche.net, 17 giugno 2015].

A questo punto, per un bancario-precario le cose si fanno più chiare e parafrasando un incedere bolscevico si potrebbe dire sovvenzioni alle imprese + salvataggio della fuffa = estrazione di vita.
stormy_six_apprendistaE corri, corri, corri,
è subito arrivato,
lavora il ferro al tornio
in un seminterrato,
così si chiude il cerchio
ti mettono il coperchio,
la vita l’ha già vista,
non l’uomo, l’apprendista.

Al di là dei molti giochi di parole e delle tante discussioni «tecniche», la questione della bad bank e delle sofferenze riguarda soprattutto due punti fondamentali. Chi, come e quanto si valutano i crediti in sofferenza e chi pagherà la differenza: le banche o lo Stato? Per costruire la bad bank la Banca d’Italia ha già investito l’americana Boston Consulting Group, una ditta privata di consulenza che vanta alleanze e cooperazioni anche con la Goldman Sachs (di cui il Drake fu vicepresidente). Ma perché non se ne è presa carico lei, come è avvenuto in Spagna? Vi sono varie possibilità. La prima è che le banche o altri istituti finanziari privati versino il capitale necessario per comprare i titoli tossici e costruire la bad bank, acquistando con uno sconto tali titoli per garantirsi di fronte a eventuali perdite nelle future operazioni di recupero. Il rischio e il costo sarebbero a carico delle banche. È la soluzione osteggiata dalle banche. A tale scopo le lobby ventilano la possibilità di dover arrivare al bail in, che implica il coinvolgimento degli azionisti e anche dei correntisti-risparmiatori nel caso si concretizzasse lo stato di insolvenza. (Attenti alla sola:) L’altra possibilità è che lo Stato si faccia garante delle eventuali perdite derivanti da un recupero inferiore del valore già scontato dei titoli acquistati. Questa sarebbe la soluzione più sostenuta dal nostro sistema bancario. Nel 2008, per la stabilizzazione dei mercati finanziari, la Germania costituì l’agenzia Soffin-Fmsa. Il governo tedesco stanziò 480 miliardi di euro con bond pubblici per l’acquisto «scontato» dei titoli deteriorati in pancia alle banche. Queste successivamente hanno cambiato i bond in denaro fresco presso la Bce. La durata della suddetta agenzia non potrà superare i 20 anni. Se non riuscirà a recuperare tutta la somma pagata, allora la differenza dovrà essere coperta dalla banca detentrice delle sofferenze, ma non dallo Stato. Nell’operazione con la Kommerzbank, salvata con 90 miliardi di euro, lo Stato, per garantirsi, si prese anche il controllo azionario del 25% (e prendiamoci anche 4 etti di MPS, vai!) [notiziegeopolitiche.net, 17 giugno 2015].
Il senso dell’operazione è (i) alleggerire le banche dal peso delle sofferenze; (ii) trasferire fuori bilancio i crediti (inesigibili, come si è visto) prima della (s)valutazione [(altrimenti i bilanci ne soffrirebbero), il commentatore, che sul punto s’impenna (e fa bene) precisa i crediti in sofferenza devono essere spostati fuori bilancio al valore netto odierno]; (iii) garantire il “nulla” con una garanzia pubblica (e quindi come la nostra esistenza, esatta giornalmente dall’Equitalia della tortura). La bad bank pubblica nascerebbe quindi già gravata di perdite, per il solo fatto di essere pubblica: un onere spettante allo stato in quanto tale, poiché entità inesistente asservita all’impresa inesistente.
A ben vedere l’unico soggetto concreto in tutta questa vicenda, tra denaro creato dal nulla, “salvati” che vivono solo nella mente di Squinzi, “salvatori” che appaiono estemporanei come miraggi solo per acquistare F35 o produrre il film che il capitale finanziario sta scrivendo con il nostro sangue (un po’ Dracone un po’ Franco e Ciccio), è il contribuente.
Ma chi è il contribuente? Verrebbe da pensare a chi paga le tasse: vero ma riduttivo, e poi magari avrebbe un senso. Occorre ampliare l’idea di “contribuente” nell’accezione effettiva, di colui che contribuisce, appunto, alla costruzione giornaliera del capitale, gocciolando istanti di sofferenza verso tombini infissi dal dominio nella nostra estate greca.
Affogarti era in fondo un gioco truccato,
lo sapevo che un giorno tornavi a galla,
ho sentito il tuo fiato sulla mia spalla
ogni volta che ho detto “proletariato”.

BENE: ora ci siamo.

Alla faccia che dice che la finanza da sola non basta ma non vuole reprimere la produzione di denaro a mezzo di debito (e quindi di nulla), anche perché è da tale esercizio che trae la provvista per finanziare l’economia produttivahahah, l’altra faccia del Giano capitalista risponde secco con la ricostruzione di un percorso virtuoso per le banche atto a riconsegnare alle stesse lo scettro del credito, inteso come ausiliario dell’impresa/industria.
A questo punto basta inventarsi delle imprese. Ma come si fa? Dove sono le industrie in Italia? E in Grecia? Viaggio per lo stivale in lungo e in largo ma di officine operose, di opifici ove la capacità imprenditoriale e l’utilizzo del capitale privato (privato?) si coaguli con la stakanovista purezza di muscoli ben oleati non ne vedo.
Oggi (e baffo vittorioso se la ride sotto i baffi) solo lo stato può fare/essere impresa, non lo stato keynesiano o fascista (o socialista), ma lo stato corrotto-mafioso-pidino, attraverso l’elargizione di appalti e l’ideazione di grandi opere (o piccole, ma pur sempre lucrose, lampioni, selciati, gasometri…).
Allora.
Si prende un amico di un assessore, lo si nomina a capo di una municipalizzata (con corredo di consiglieri di amministrazione), ovvero si bandisce il rifacimento di una serie di tucul a Velletri (dico a caso), o di centri di detenzione a Filicudi. Il solito amico (con impresa rigorosamente senza capitale sociale, dipendenti e significato, ulteriore a quello di creare il giro del cash, intendo) partecipa, vince (“gratta” e vince, quindi) e poi? subappalta a qualche cialtrone suo pari (in questo caso anche gli extra comunitari perdono i connotati spregevoli che li individuano di solito e si concede loro la patente di partita iva).
Però l’intrapresa (quando ti vogliono fottere, la chiamano così, vorrebbero dire enterprais, invero, ma ricorda troppo Star Trek) necessita di fondi (perché è ovvio, gli anticipi vanno “redistribuiti” e quindi non possono essere oggetto di concreto utilizzo). Allora sovviene la banca, magari locale [locals only come dicono i surfisti (e qui si comprende l’uso fantasmagorico e la potente difesa delle banche cooperative in ogni stato della UE)] che ti mutua un “x”, ti anticipa un “y” sui proventi dell’appalto (ma l’anticipo non te lo eri già preso? come puoi cedere un credito che non hai più?, mea, fatti i cazzi tuoi, mica lo sanno), di concedere un’apertura di credito per “Z”…
È per questo che ci vuole una banca sana, meglio una banca depurata attraverso la bad bank.
E qui c’è la meraviglia; la bad bank, come la coop, sei tu, quindi paghi il pregresso (che ti sei già pagato una prima volta, perché gli appalti precedenti, le grandi opere inevase, le hai sopportate con la demolizione del welfare), garantisci – con la tua vita – i titoli che il soggetto che cartolarizzerà metterà sul mercato; il mercato ti ricatterà facendoli sobbalzare e ti chiederà nuove riforme e tu dovrai tacere perché con quel po po di autostrade (integralmente pagate da te) di linee elettriche e ponti (che non godi perché non hai l’auto, te ne fotti, hai appena avuto una paralisi) e poi minchia, le pensioni baby, il fattore K…

Quando meno te lo aspetti
è scoppiata la realtà,
è l’orchestra dei fischietti
che dà la sveglia alla città,
dà la sveglia coi tamburi
e nessuno dormirà,
scrive in rosso sopra i muri
e spacca il mondo in due metà.
marxfoucaultIl rinnovato amore per la produzione (anche fittizia quantomeno ex latere creditoris, perché sull’altro versante c’è la concretezza del rapporto di capitale e della vita strappata) da parte del capitale è perché anche questa volte le squattrinate lotte, tanto sfilacciate, infiltrate da bleccheblocche e Isis hanno dimostrato che la vita, pur messa al lavoro, non riesce ad essere completamente assorbita e soprattutto che il comune che – comunque ed in ogni caso – (attraverso la necessaria cooperazione) si realizza (i) o si depriva e quindi non è utilizzabile neppure a fini di dominio oppure (ii) resta arma pericolosa in mano ai quei quattro della moltitudo funk band.
Quelle battaglie che si sono perse hanno vinto e impedito (o perlomeno rallentato) il processo di autonomizzazione del capitale finanziario che pur sofisticato e super partes non è stato portato a termine. Il capitale ha bisogno di vita per smembrarla, di comunione per stravolgerla secondo i sogni bizzarri di Adinolfi, di sudore non più per fucine stridenti ma per proseguire nella farsa.

Non è un coro di cherubini sul tapis roulant
salta e fischia con la forza del sogno
e con la semplicità del bisogno.
La Grecia, Syriza, il referendum sono parte integrante di questo progetto che il capitale (sconfitto nella determinazione di governare il comune attraverso la propria insensibilità alle vicende umane) afferma e tenta di imporre; occorreva spezzare le reni alla Grecia ancora una volta per dirigere la cooperazione (che tenta di elevarsi da commistione di vite) verso una normazione che richiede non più la subordinazione del lavoratore, né la gogna del debitore, ma l’assorbimento del respiro del precario che rantola nella (non) sua casetta in Grecia, ma anche in Germania (o negli USA, in vertiginosa – ecchiccicrede – crescita).
La Germania che nasconde il debito, la Grecia che lo esalta e spinge alla rottura, l’Italia che finge di essere governata, la Francia “repubblicana” (e repubblichina), sono espressioni dell’ansia capitalistica di aggirare le difese che il precariato si dà; difese permeabili come la carne ma incomprensibili alla finanza come la MIFID ad un pizzicagnolo, come i Grundrisse per Berlinguer e Giampiero Alloisio.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.
Niente resta uguale a se stesso,
la contraddizione muove tutto.

Ad uso di chi pensa che quanto sopra sia (solo) accozzaglia di minchiate, ecco quanto riporta la Repubblica – Genova del 7 luglio: un gruppo di lavoratori di Pavimental e Spea, in vertenza con la società Autostrade per la nuova legge sugli appalti, ha bloccato l’entrata al casello di Genova Ovest. Il corteo, tolto il blocco, si è poi spostato verso il centro – i lavoratori dovrebbero essere ricevuti in Prefettura – attraverso la Sopraelevata, che è stata chiusa a lungo. […] I lavoratori dicono no alla legge delega Appalti che “se approvata integralmente, comporterà l’obbligo per i concessionari di affidare in gara a terzi il 100% dei lavori e dei servizi, prevedendo un periodo transitorio di adeguamento di 12 mesi. Tutto questo comporterà inevitabilmente la perdita delle professionalità (sembra di sentire i minatori gallesi trent’anni fa, come se al capitale calasse qualcosa delle “professionalità”) nel comparto della manutenzione e progettazione delle autostrade e il peggioramento della qualità e dei tempi di realizzazione dei lavori autostradali” (“strada che pende, strada che rende”, parafrasando un dire avvocatesco). Tra Genova e La Spezia si stimano “circa 100 posti di lavoro” (che per chi li crea sono solo fuffa, ma per chi li perde…).

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