Di VERONICA GAGO.
Perché ci uccidono? Cosa ci consentirebbe di parlare di una guerra per definire l’ascesa di morte delle donne (in più dell’80% per mano di amanti, fidanzati, mariti o ex – amanti, ex-fidanzati, o ex mariti)?
Chiaramente, non è una guerra nel senso di uno scontro tra due gruppi simmetrici o con chiare regole della contesa. Ma risulta necessario qualificare il tipo di conflitto che oggi, almeno in Argentina, implica la morte di una donna al giorno. Un numero che è drammaticamente cresciuto quest’anno e che, nel mese di aprile in seguito allo Sciopero Internazionale delle Donne, ha raggiunto i suoi massimi. Pensare dal punto di vista della categoria di guerra come economia specifica fa parte della posta delle epistemologie incrociate della critica economica che oggi ci convoca.
La nozione di guerra, d’altro canto, ci permette di sottolineare una dinamica di forze in disputa e chiarire nozioni come quella di “epidemia” o altre varianti della cronicizzazione dei femminicidi, con la conseguente colpevolizzazione dell’emergenza collettiva e di strada delle donne.
Non possiamo tralasciare la critica di argomenti come la “razionalità giuridica” in cui si denuncia l’“inefficacia preventiva” delle imponenti marce al momento di analizzare l’aumento degli assassinii (v. Zaffaroni, 2017), mentre nei discorsi “psi[cologici; NdT]” si parla di una “illusione” mimetica di forza delle donne che consentirebbe loro di assumere atteggiamenti di “autodeterminazione” che le portano alla morte (v. “L’effetto contagio di Non Una di Meno”, rivista Noticias). Si tratta di linguaggi specializzati che, tuttavia, si propagano nei mezzi di comunicazione e che rafforzano, da una presunta conoscenza “esperta”, due punti chiave: l’idea di una casualità tra una maggiore mobilitazione delle donne e la maggiore risposta violenta sotto forma di punizione e, dunque, che le donne stesse siano incapaci di porre un freno ai femminicidi.
Pensiamo meglio alla guerra in sintonia con la denuncia che ne faceva Rosa Luxemburg, cioè al suo uso per disarmare le lotte operaie. Solo che, in questo caso, spogliata del contesto dello stato-nazione, la guerra si attualizza sotto la prospettiva delle “nuove forme della guerra”, così come le chiama Rita Segato. Nuove, perché hanno nella violenza contro il corpo delle donne il proprio testo privilegiato, connettendo una dimensione coloniale che è fondamentale sottolineare. Una dimensione che si esprime con i metodi propriamente coloniali dell’assassinio delle donne (come l’impalamento, ma anche l’uso della calce e lo squartamento), e anche nel modo in cui l’“incosciente coloniale” – come lo definisce Suely Rolnik – opera svilendo la conoscenza del corpo che le donne stanno valorizzando in nuove forme di socievolezza e politicizzazione. Solo così è possibile comprendere l’intensa e crescente “pedagogia della crudeltà” – come pure la concettualizza Segato – di questa violenza “espressiva” (non solo strumentale) che diffonde un’abilitazione dell’abuso e obbliga a replicare un mandato di mascolinità patriarcale.
Però, aggiungiamo pure che la novità (cioè, la sua condizione di attualità) proviene dal carattere reattivo, dalla risposta misogina, alle crescenti e diverse forme di autonomia delle donne. Si collega così con ciò su cui Silvia Federici continua a insistere e che è necessario portare a ricerche concrete: il denominatore comune della violenza contro le donne è la svalutazione della vita e del lavoro spinta dalla fase della globalizzazione contemporanea. Perciò lei parla dell’istituzione di “uno stato di guerra permanente”.
A partire da queste chiavi, è possibile costruire un altro criterio di spiegazione per tali crimini aberranti. L’ipotesi è che oggi la guerra contro le donne si esprime in quattro scene-madri che sono alla base dei femminicidi, e che sono il sostrato della loro produzione anteriore o, parafrasando Marx, della loro accumulazione originaria e che hanno, tra di loro, una logica di collegamento. Tale logica di collegamento è data dalla finanza, la cui specificità vorrei rimarcare in questo testo:
- l’implosione della violenza domestica come effetto della crisi della figura del maschio fornitore e della sua degerarchizzazione derivata, in relazione al suo ruolo nel mondo del lavoro.
- L’organizzazione di nuove violenze come principio di autorità nei quartieri popolari, a partire dalla proliferazione di economie illegali che ripongono, sotto altre logiche, forme di provvista di risorse.
- la privazione e il saccheggio di terre e risorse comuni avverso la vita comunitaria per mano di multinazionali, spogliando dell’autonomia materiale le altre economie.
- l’articolazione di forme di sfruttamento e di estrazione che hanno come codice comune la finanziarizzazione della vita sociale – in particolare con il dispositivo del debito.
E in questo testo vorrei specificare quanto segue: primo, poter impiantare la relazione organica tra queste quattro dimensioni (I); quindi, tornare sulla caratterizzazione della “guerra” (II); e, alla fine, il principio: a quale tipo di forza risponde questa offensiva? In quali economie si inscrive l’autonomia delle donne? Qui mi soffermerò in particolare sulle esperienze dello sciopero delle donne in Argentina (III). A questo punto la guerra subirà uno spostamento: perché avere una guerra “nel” corpo delle donne significa che esiste una guerra “contro” le donne.
I. La connessione delle violenze
La concentrazione degli approcci sulla “violenza di genere” ha un effetto vittimizzante: le donne vengono unidimensionalizzate a causa dell’attacco a esse diretto. La loro passivizzazione è completa proprio perché si “isola” questa violenza. In questo modo, la violenza di genere si è trasformata in un destino di corsetto e confine: noi donne non possiamo uscirne. Tranne che al di sotto di retoriche salvifiche che ci riscattino. La maggior parte del tema sulla tratta o sul traffico di donne ha questo approccio. Tema che, promosso dalle ONG e scelto dalle reti di finanziamento internazionale con il patrocinio spirituale della chiesa, il paternalismo con cui si affronta lo sfruttamento delle donne tralascia completamente:
1) una spiegazione nei termini dello sfruttamento che non sia moralizzatrice;
2) il complesso gioco del desiderio, i calcoli del progresso e del rischio che le donne mettono in campo con diverse modalità di migrazione;
3) con tale annullamento della propria razionalità strategica (con piani, frustrazioni, ri-calcoli, apprendistato, sacrifici), ogni informazione viene sottostimata in nome di un paternalismo che ripetutamente attualizza la logica coloniale.
In modo del tutto simile a quanto succede con i lavorator* migrant*, la nozione di tratta e di schiavitù prendono una parte per il tutto. A partire da alcuni casi che vengono postulati come emblematici, con immagini capaci di impattare la pubblica immaginazione (un lavoratore tessile sposato alla macchina per cucire o una giovane sposata al letto), si cerca di spiegare una sottomissione intrinseca – di naturalezza – e così annullare ogni volontà e razionalità autonoma. La figura della tratta sintomatizza proprio una figura che cerchiamo di combattere: l’identificazione senza crepe delle donne con la vittima. È questo “stereotipo” che produce un discorso che cade perfettamente nelle logiche tutelari che qui critichiamo e che vuole incontrare il suo punto massimo nel femminicidio. A ciò si deve la grande enfasi nei resoconti giornalistici dei femminicidi nel descrivere le donne come “vittime” perfette: qualunque elemento di decisione viene annullato, perché le renderebbe “sospette” di non rispecchiare questa figura. Lo stesso accade con le donne migranti: la retorica della tratta le spoglia della loro capacità di assumere qualsiasi rischio e calcolo, vale a dire, qualsiasi razionalità.
Ora, uscire da questa prospettiva della violenza come vittimizzazione non ci libera dal problema della violenza, né tantomeno ci esime dal comprenderne la specificità. Al contrario: lo ri-situa, producendo così uno spostamento strategico: è l’intersezione tra la violenza di genere, quella economica e quella sociale ciò che ci permette di uscire dalla “tematizzazione” della violenza come “ghetto” della prospettiva di genere. La sua specificità emerge da questa connessione e non da un procedimento di isolamento. La specificità viene data dalla prospettiva situata che permette una comprensione del processo come totalità in movimento o sintesi parziale.
È la connessione ciò che ci permette di costruire e muoverci su di un piano di comprensione, intellegibilità e metodo dando senso alla violenza come espressione di una trama che annoda il mondo del lavoro e lo sfruttamento delle nostre precarietà con le nuove forme di sfruttamento finanziario che si originano ben aldilà dei salari. È la connessione ciò che spiega l’impossibilità di autonomia economica come base dell’immobilità in ambienti domestici che si trasformano in un inferno; ed è anche ciò che permette vedere la migrazione come una linea di fuga che vale la pena affrontare, sebbene i rischi diventino sempre più alti.
I modi reazionari – cioè: punitivi, razzisti e sessisti – con cui il sistema politico ricodifica queste violenze, alleandosi con forme parastatali e paralegali di repressione, spingono a modalità rinnovate di insurrezione che qualificano le nuove forme di guerra.
Direi, quindi, che l’intersezionalità tra 1) la mappa del mondo del lavoro in chiave femminista che permette di dare un altro status alle economie non salariate; 2) l’emergenza di una ecologia politica dal basso che ponga in gioco una comprensione non liberale della terra e delle risorse in un senso ampio, poiché emerge dalle lotte a favore della vita comunitaria; e 3) le lotte per la giustizia – intese come un’estensione del lavoro di impegno collettivo, così come segnalato da Selma James –, danno forma al disegno materiale di una critica delle attuali violenze.
In Argentina, questa intersezionalità è stata prodotta nella pratica attraverso due esperienze imponenti di sciopero in meno di un anno: lo Sciopero nazionale delle Donne del 19 ottobre del 2016 e lo Sciopero Internazionale delle Donne dell’8 marzo del 2017. Nel nominare gli scioperi, intendo sottolineare l’elemento materialista dell’insurrezione delle donne che stiamo vivendo. È stato il lavoro pratico nel costruire “alleanze insolite” – termine che prendiamo dal collettivo femminista della Bolivia, Donne che Creano – ciò che ci ha permesso di giungere a convergenze insperate per ridisegnare la proiezione del femminismo ben aldilà della frontiera della violenza di genere come recinto concettuale. Evitando così il suo funzionamento come meccanismo di impadronimento: da un lato, come ho segnalato sopra, la tematizzazione come un “ghetto” di genere che determina, di conseguenza, “risposte” e “soluzioni” pure ghettizzanti: una nuova segreteria (statale) o una nuova sezione (sindacale) o un nuovo programma (sanitario, neutralizzando il suo potenziale di radicalizzazione trasversale. Dall’altro lato, un nuovo confino domestico di una violenza che, al contrario, si connetta in modo sempre meno mediato – per esempio, non più solo esclusivamente attraverso il menzionato “patriarcato del salario” – con gli spazi economici e sociali a evidenziare proprio l’esplosione dei muri dello spazio domestico.
II. Lavoro e finanza: la proliferazione delle economie illegali impadronendosi delle reti subalterne
Pensata in questo modo, l’intersezionalità emerge come metodo e prospettiva capace, almeno, di due movimenti simultanei. Da un lato, andare oltre la binarietà tra il tutto e la parte. L’intersezionalità tra la violenza di genere e le violenze economiche e sociali costruisce un femminismo che stimola una critica al capitalismo partendo dalle connessioni ed evidenziando la razionalità di assemblaggi che collegano lo sfruttamento in ambito lavorativo con l’implosione della violenza misogina dell’ambiente domestico dovuta al crollo della capacità maschile di monopolizzare la provvista di risorse gerarchicamente considerate. Inoltre, permette di rendere conto della moltiplicazione delle forme di sfruttamento delle economie (affettive, comunitarie, informali, etc.) che vanno oltre il mondo salariato. In questo senso, si tratta di inquadrare una lettura della violenza del neoliberismo come momento particolare dell’accumulazione del capitale, rendendo conto allo stesso tempo delle misure di adeguamento strutturale come pure del modo in cui lo sfruttamento si radichi nella produzione di soggettività costrette alla precarietà e, al contempo, battagliando per prosperare in condizioni strutturali di privazione.
Da essere un luogo apparentemente pacifico, oggi il focolare è diventato un campo di battaglia. La violenza domestica non fa altro che mostrare scene di una domesticità che esplode e di focolari come scenari truculenti. Rita Segato spiega come questa violenza è un effetto di altre: cioè quella che i maschi assumono come umiliazione nei loro spazi di lavoro, in una sorta di sequenze pedagogiche che vengono comunicate. Il focolare non è il risposo del guerriero, come si proponeva quando la divisione sessuale del lavoro riservava alle donne il compito di romanticizzare la casa. La casa è dove il “guerriero” (una delle figure classiche del mandato patriarcale) vuole fare la guerra come sintomo della sua impotenza.
Messa in discussione la distinzione tra pubblico e privato, la questione del lavoro da un punto di vista femminista permette anche di porre in discussione la nozione stessa del lavoro da una soggettività presuntamente “esteriore” o “trascorsa” del luogo centrale del lavoro salariato. In Argentina, tale spostamento ha una genealogia che si riferisce al movimento de* disoccupat* che, nel pieno della crisi agli inizi di questo secolo, è riuscita a mettere in discussione in modo radicale ciò che si definiva lavoro, occupazione, remunerazione e ridefinire il classico strumento del picchetto proprio fuori della fabbrica, utilizzandolo per il blocco della circolazione delle merci attraverso il taglio delle rotte e organizzandolo collettivamente.
Ora siamo di fronte alla capacità delle donne di mettere in gioco tutti i limiti sfocati – così definiti poiché in disputa politica, non per astratta fluidità-, che da anni si vanno elaborando tra il lavoro domestico, quello riproduttivo, il produttivo, l’affettivo e quello di assistenza nel contesto di una crisi che pone al centro il corpo delle donne come territorio di contesa. E per questo stesso rinnovamento della dinamica della crisi, oggi riemerge la visibilità su di un tipo di cooperazione sociale estesa nei territori dei quartieri dove proliferano in misura non temporanea le economie popolari, su cui l’offensiva violenta risulta particolarmente forte.
Ma, la stessa cosa accade con i territori in cui, la conflittualità contro gli imprenditori neo-estrattivisti che si appropriano di risorse in vece di imprese multinazionali, spinge ciò che le compagne del Guatemala e dell’Honduras hanno caratterizzato come “femminicidi territoriali”.
Inoltre, nasce una dimensione chiave che deve essere rilavorata dalla prospettiva femminista: la carta della finanziarizzazione dei dispositivi di inclusione sociale (per esempio, i sussidi alle diverse forme di imprenditorialità cooperativa) in relazione allo sfruttamento finanziario, come chiave del rilancio dell’accumulazione del capitale. Non si tratta solo delle ONG e delle banche (cfr. Graciela Toro), bensì in particolare del modo in cui lo Stato veicola questi debiti. La finanza oggi, attraverso l’indebitamento massiccio, s’impadronisce delle entrate salariali e non delle fasce popolari, normalmente escluse dall’immaginario finanziario. È così che funziona il debito, strutturando una coazione al lavoro di qualunque tipo per poter pagare le obbligazioni a termine. Questo impadronimento dell’obbligazione del lavoro pone in marcia lo sfruttamento della creatività a qualunque costo: non importa quale sia il lavoro, ciò che interessa è il pagamento del debito. Questo modus operandi del dispositivo del debito, in generale acquisisce una particolarità nel momento in cui prende come base i sussidi di Stato per le fasce di popolazione definite “vulnerabili”.
Ed è il momento in cui lo Stato funziona come garante per le persone presuntamente “escluse”, includendole attraverso il consumo, abilitandone pure il nesso veloce con le economie informali, illegali e popolari. Queste diventano centrali come fucine polimorfe di attività e fonti d’ingresso che superano il salario e da lì, dalla loro sovrapposizione con il debito, ne traggono il proprio dinamismo. Questa trama, quindi, non si inserisce nei cliché che di solito associano le economie informali con l’illegalità e l’assenza dello Stato o con la povertà e la disconnessione finanziaria. Piuttosto al contrario: situano lo sfruttamento finanziario delle fasce povere all’interno dell’inclusione per il consumo che legittima la finanziarizzazione stessa delle attività meno formali, strutturate e rutinarie. L’affinità di questa dinamica con la questione di genere risulta centrale da diversi punti di vista.
Primo, per il modo in cui il lavoro di assistenza, di riproduzione e di produzione di ciò che è comune fa parte e si intreccia direttamente con le mansioni lavorative nelle economie popolari; e ciò diventa un punto nodale che non deve essere letto solo nei termini di femminizzazione della povertà (sebbene spieghi anche questo), bensì di una capacità di ridefinire la produzione del valore. Dobbiamo notare che, nell’ambito della bancarizzazione compulsiva dei sussidi sociali – che ha incorporato al sistema finanziario migliaia di nuove utenti sotto lo slogan della “democratizzazione” bancaria-, negli ultimi anni le donne hanno un ruolo fondamentale come capefamiglia e fornitrici di risorse nel tessuto della cooperazione sociale. Anche per questo, la dimensione di genere legata alla finanza rivela usi specifici del denaro, vincoli anche singolari con le diverse modalità di indebitamento e, infine, una relazione di elasticità con la finanza legata al modo in cui la riproduzione della vita dipende, nella maggior parte dei focolari, dalle donne e dalle loro strategie di gestione del quotidiano.
Diversi studi dedicati all’indebitamento denotano la preponderanza delle donne come creditrici – generalmente tipicizzate come “pagatrici esemplari”. Il modo in cui mettono in gioco le loro relazioni di fiducia risulta un valore che il sistema finanziario non smette di trattare come capitale da sfruttare (esiste tutta una raccolta di studi sul microcredito che lo declina come “vantaggio comparativo”, come pure una serie di prospettive critiche che enfatizzano la modalità di sfruttamento delle reti affettive e solidali tra le donne). Sappiamo anche della costruzione “morale” della responsabilità della figura della creditrice: a lei viene vincolata anche la valutazione del rischio. Risulta fondamentale analizzare queste caratterizzazioni in relazione agli attributi assegnati alle mansioni femminili di flessibilità, versatilità nella discontinuità e generazione di fiducia, nella misura in cui si legano a un certo allenamento finanziario capace di gestire distinti flussi di denaro e di forme d’indebitamento. Mansioni che, nel contesto di adeguamento e restrizione del consumo, si fanno ancora più evidenti.
La prospettiva dello sfruttamento finanziario (Gago e Mezzadra, 2015 ; Gago e Roig 2016) permette di tracciare un collegamento tra l’aumento delle violenze maschiliste e la finanziarizzazione delle economie popolari, poiché rivela la relazione intima tra debito e soggezione, tra debito e impossibilità di autonomia economica; e perché, letteralmente, converte il debito in un modo di fissazione e subordinazione agli ambiti della violenza. In molti casi, il debito ostacola la fuga. In altri, la raddoppia per contribuirvi.
III. La privazione e il saccheggio delle terre e delle risorse contro la vita comunitaria
L’offensiva dell’agrobusiness e delle industrie estrattive nel continente ripropone un’analisi fondamentale dell’inserimento di nostri paesi nel mercato mondiale. Anche qui la pista della Luxemburg brilla per la sua attualità, ovvero ciò che teorizzò come espansione coloniale contro ciò che nel linguaggio dell’epoca venivano chiamate le “formazioni dell’economia naturale”. In particolare, contro la privazione delle terre al fine di esaurire l’autosufficienza delle economie contadine. Non dimentichiamo che la Luxemburg aveva sottolineato i debiti ipotecari sui coltivatori statunitensi e le politiche imperialiste olandese e inglese in Sudafrica contro le person* ner* e indigen* come forme concrete di violenza politica, pressione fiscale e introduzione di beni a basso costo.
In diversi momenti di lotta, si è iniziato a usare il concetto di corpo-terra, al fine di definire le comunità che resistono agli assalti neo-estrattivsti, contro cui le donne rappresentano il maggior fattore di resistenza. È il caso di Berta Cáceres, il cui assassinio è stato definito dal movimento come “femminicidio territoriale”. Questo punto unisce una nozione di corpo che, non solo non è umano, bensì si riferisce alla questione della natura da un punto di vista non liberale: vale a dire, non si tratta di una difesa in astratto, ma di affrontare le modalità di privazione delle possibilità materiali di vita che oggi strutturano un antagonismo diretto tra le imprese multinazionali e gli stati contro le popolazioni che vengono saccheggiate e costrette a spostarsi. Questo paradigma estrattivo, tuttavia, deve estendersi anche agli spazi urbani e suburbani dove torniamo a incontrare la finanza sotto molti aspetti, persino in operazioni “estrattive”: dalla speculazione immobiliare (formale e informale) fino all’indebitamento massiccio. In questa chiave, si rende necessario concettualizzare l’estrattivismo in maniera più ampia, come forma in cui oggi si opera l’impadronimento del valore da parte del capitale (per questo, si veda: Gago e Mezzadra, 2017).
IV. La guerra come chiave
Foucault ha proposto la guerra come principio di analisi delle relazioni di potere e, più precisamente, il modello della guerra e delle lotte come principio di intelligibilità e analisi del potere politico (cfr. Genealogia del razzismo). Ha anche argomentato una sorta di guerra permanente come suono e filigrana dietro ogni tipo di ordine, in maniera tale che la guerra costituirebbe il “punto di massima tensione delle relazioni di forza” (44), ma essendo in sé un intreccio “di corpi, di casi e di passioni”: un vero groviglio su cui si installa una “razionalità” che desidera pacificare la guerra (51).
Silvia Federici procede sul passaggio della prospettiva foucaultiana con il femminismo e con il marxismo. Il capitalismo, fin dalle sue origini, persegue e combatte le donne con terrore e accanimento. Perciò lei annoda tre concetti: donne, corpo e accumulazione originaria, ponendosi domande basilari su questa figura del femminino: perché il capitalismo, sin dalla sua fondazione, ha bisogno di fare la guerra alle donne? Perché la caccia alle streghe è uno dei massacri più brutali e meno ricordati della storia? Cosa si voleva eliminare, quando le si condannava al rogo? Perché è possibile tracciare un parallelo tra le donne e le schiave nere delle piantagioni americane?
La reazione contro le donne rispondeva al crescere del loro potere e della loro autorità nei movimenti sociali, specialmente quelli eretici. Federici identifica una “reazione misogina” a tale fattore massivo, al controllo riproduttivo che le donne praticavano tra di loro. “Sesso pulito tra lenzuola pulite”: questo era l’obiettivo della razionalizzazione capitalista della sessualità che aspirava a convertire l’attività sessuale femminile in un lavoro al servizio degli uomini e della procreazione. Inoltre, era una forma per renderle sedentarie. Per loro era molto più difficile convertirsi in vagabonde o lavoratrici migranti, poiché la vita nomade – come argomenta la Federici – le esponeva alla violenza maschile e, in quel momento – durante l’organizzazione capitalista del mondo – la misoginia era in aumento. Tuttavia, così come lei prosegue, questa violenza non è terminata come un racconto recondito degli inizi. Anche per questo suona tanto vicina l’immagine per cui tutto il nomadismo femminile (dal prendere un taxi di notte ad abbandonare un partner) è, una volta di più, occasione di violenza sessista.
Il corpo femminile, continua la Federici, ha rimpiazzato gli spazi comuni (in special modo le terre) a seguito della loro privatizzazione. In uno stesso movimento, le donne si trovarono sottomesse a uno sfruttamento che avrebbe dato inizio a un crescente assoggettamento del loro lavoro e del loro corpo come servizi personali e risorse naturali. E donne privatizzate furono quelle che si rifugiarono in matrimoni borghesi, mentre quelle che si trovavano all’aperto si convertirono in classe servile (da padrone di casa a impiegate domestiche o prostitute).
L’immagine delle donne come “ribelli” non era riferita ad alcuna attività “sovversiva specifica”, come chiarisce la scrittrice italiana: “Al contrario, descrive la personalità femminile che si era sviluppata, in particolare tra i contadini, durante la lotta contro il potere feudale, quando le donne agirono al comando dei movimenti eretici, spesso organizzate in associazioni femminili, piantando una sfida crescente all’autorità maschile e alla Chiesa”. Le immagini che le ritraevano – nelle storie e nelle caricature – descrivevano donne poste sulle spalle dei loro mariti, frusta in mano e tante altre vestite da maschio, pronte all’azione. Su questa scia, anche le amicizie femminili divennero oggetto di sospetto, viste come controproducenti per i matrimoni e come ostacolo alla denuncia tra donne che si andava promuovendo, di nuovo, da parte dell’autorità maschile e della Chiesa.
V. Il ruolo della chiesa oggi: l’avanzata spirituale
Negli ultimi anni, la Chiesa cattolica ha formulato il concetto di “ideologia di genere” per porre fine alla battaglia, o alla crociata, in cui si è imbarcata. Concetto coniato da un teologo argentino, serve per identificare il femminismo come nuovo nemico. La dottrina ecclesiastica è divenuta un hashtag multiuso: #NoALaIdeologíaDeGenero (#NoAllaIdeologiaDiGenere). In primo luogo, concentra i suoi colpi contro le lotte a favore dell’aborto. Sebbene in ciò si inscrivano anche le dispute educative. ‘Lascia stare i miei figli’: così si sviluppa la marcia contro l’“ideologia di genere” [1], come il quotidiano peruviano La República ha intitolato la manifestazione del 4 marzo.
L’“ideologia di genere” sarebbe, in questo caso, il contenuto di un nuovo curriculum scolastico che, nell’assegnare nozioni come “uguaglianza di genere” e “identità di genere”, promuoverebbe, secondo i manifestanti, “l’omosessualità e il libertinaggio sessuale tra gli scolari”. In Brasile, un progetto di legge federale battezzato «Ley de la Escuela Sin Partido» («Legge della Scuola Senza Partito») nel paragrafo unico del primo articolo recita la proibizione nell’educazione de «l’applicazione dei postulati della teoria o dell’identità di genere» e di «qualsiasi pratica che possa compromettere, precipitare od orientare la maturazione e lo sviluppo in armonia con la rispettiva identità biologica di sesso».
In Argentina, l’offensiva con la Ley Nacional 26.150 che crea il diritto a ricevere una Educazione Sessuale Integrale (ESI) sin dall’inizio dell’età scolare ha incontrato resistenze da un fronte di organizzazioni che divulgano l’ordine “L’educazione è una causa femminista”. “L’aumento dei femminicidi ha a che vedere con la scomparsa del matrimonio” (La Nación, 3.1.2017) ha dichiarato Monsignor Aguer, mentre un conflitto con lavorator* del settore educativo stava mobilitando le strade durante lo scorso gennaio. Già nel 2009, a proposito dell’ESI, lo stesso Aguer aveva dichiarato: “Esiste un pensiero egemonico femminista”. In Colombia, intanto, esiste un intenso dibattito sul ruolo giocato dalla campagna che ha agitato la “minaccia di genere” a favore del trionfo del “no” agli accordi di pace de L’Avana. L’offensiva ecclesiastica rappresenta un modo di condannare l’autonomia del corpo delle donne e di fare la guerra alle loro disobbedienze.
VI. A cosa risponde l’offensiva? Sullo sciopero come forma di sottrazione e disobbedienza
Come ha dimostrato Rosa Luxemburg, storicamente la guerra è un momento chiave dell’accumulazione del capitale. Quindi, abbiamo proposto di pensare quale tipo di guerra è quella che si sviluppa contro le donne al fine di comprendere il tipo di offensiva del capitale affinché rilanci il proprio comando. Ma ancora prima, nei termini del metodo e della prospettiva politica, c’è bisogno di rendere conto del tipo di autonomia che le donne mettono in gioco al fine di comprendere la grandezza della reazione contro di loro.
Lo strumento dello sciopero che tratta delle molteplici forme di sfruttamento della vita, del tempo e dei territori, supera e integra la questione lavorativa, poiché implica mansioni e lavori generalmente non riconosciuti: dall’assistenza all’autogestione di quartiere, dalle economie popolari al riconoscimento del lavoro sociale non remunerato, dalla disoccupazione all’intermittenza delle entrate economiche. Lo sciopero, così come lo abbiamo proposto, non tralascia la disputa per il salario, ma allo stesso tempo la ridefinisce e la obbliga a confrontarsi con realtà lavorative non salariate. Moltiplicando così le accezioni della nozione di sciopero, senza diluire la propria densità storica. E la rilancia come chiave per comprendere il modo in cui, nell’intreccio dello sfruttamento e delle violenze maschili che abbiamo segnalato, si gioca la trasversalità della conflittualità sociale.
Includendo, visibilizzando e valorizzando i diversi terreni di sfruttamento e di estrazione del valore da parte del capitale nella sua attuale fase di accumulazione, lo sciopero come blocco, sfida e disobbedienza ci permette di dare conto delle condizioni in cui oggi le lotte e le resistenze stiano reinventando una politica ribelle. Perciò, tale uso proposto dal movimento delle donne sintomatizza, esprime e diffonde un cambiamento nella composizione delle classi lavoratrici, superando le loro classificazioni e le loro gerarchie. Cioè, quelle che tanto bene sintetizzava il patriarcato del salario. E lo fa usando una chiave di un femminismo pratico, radicato in lotte concrete.
Lo sciopero ha così cercato di sintetizzare una capacità di trasversalità nella composizione politica (sindacati, organizzazioni territoriali di base, collettivi per la dissidenza sessuale, gruppi studenteschi, centri per la salute, collettivi di migranti, autoconvocate, etc.) e di intersezionalità delle problematiche che si sono incontrate sull’asse del lavoro: dalla capacità di concretizzare la critica alle rinnovate modalità di sfruttamento capitalista.
Questa dinamica suggerisce una sfida per un femminismo inclusivo: inclusivo non rappresenta il senso di moderazione o di inclusione subordinata a una norma che si amplia per contenerci, bensì è il senso della capacità di composizione di una differenza contenziosa e di radicalizzazione dal basso. Tale questione è inseparabile dall’altra: la capacità di un nuovo appello massiccio che faccia del femminismo – inteso in tutti i linguaggi e tutte le pratiche in cui oggi si coniuga e non in modo strettamente identitario: femminismo popolare, comunitario, indigeno, villero [dei quartieri più poveri; NdT], etc.– un dibattito che giustamente esca dai ghetti accademici, da quelli liberali, dai gerghi per specialisti e istituzioni.
La connessione internazionalista che ha stimolato il provvedimento rappresenta l’altro elemento chiave, e giustamente, poiché la scala di trasversalità e intersezionalità si è nutrita di un linguaggio e di un complesso di esperienze che hanno nuovamente superato e attualizzato lo strumento che porta una memoria operaia indissimulabile. Però, nel farlo partendo dalle situazioni concrete di lotta e di conflitto, l’effetto globale o internazionalista non ha significato, come altre volte nei casi di resistenza, un’astrazione omogeneizzante – cioè, la perdita della densità dei paesaggi e delle singolarità- in nome dell’unità consegnataria.
Crediamo che qui si giochi un rilancio dell’autonomia con un senso molto preciso: a partire dalle pratiche di autonomia delle donne, la destrutturazione dell’asimmetria che emerge dal mandato di genere scatena un nuovo tipo di guerra. L’intento della finanza di impadronirsi di queste autonomie, non costituisce una dimensione esterna alla guerra, bensì una delle sue dinamiche intrinseche nel momento di accumulazione attuale, quando le avanzate della ri-colonizzazione ci rendono, una volta di più, un territorio esemplare.
Talora, si può dire che il femminismo di strada, massiccio e radicale, attraversi nelle pratiche diverse epistemologie per la critica dell’economia politica, rendendo possibile pensare come i momenti di rivolta mettano in crisi le relazioni di obbedienza date da certe categorie. In America Latina ciò implica pensare con altre chiavi i cicli e le agende politiche delle crisi e delle sue recenti ri-stabilizzazioni. E tanto più ponendoci la sfida di pensare le nuove forme della guerra come maniere per disciplinare e controllare la rivolta, a partire dalle forme di violenza che oggi hanno nella finanza un perno che contende il modo stesso di operare (persino di traduzione e codifica) nella transversalità.
La guerra “nel” corpo delle donne, che qui ho voluto raccogliere attraverso alcuni punti, può essere pensata in relazione a queste forme eterogenee in cui l’autonomia e l’oltraggio si ribellino a favore dei saperi del corpo e, allo stesso tempo, lo rendano indeterminato. Perché noi sappiamo cosa può fare un corpo.
(traduzione di Francesco Giannatiempo).
La traduzione in italiano di questo articolo è stata pubblicata per Tlaxcala il 9 febbraio 2019. Qui la versione in castigliano