di FRANCESCO FERRI.
Puglia, estate 2015. La stagione scorre, come da copione, in maniera fluidità e intensa. Piedi nudi che freneticamente si muovono fino all’alba sulle spiagge del litorale adriatico e ionico; industrie culturali ed enogastronomiche in piena attività: un immaginario da California del sud, aperta e progressista, capace di innovare i tradizionali settori di produzione, in direzione dell’immateriale e dell’hi-tech.
A pochi chilometri di distanze dalle spiagge ioniche, Mohamed, lavoratore stagionale nelle campagna tra Nardò ed Avetrana, si accascia al suolo per non rialzarsi più. 47 enne di origine sudanese, con regolare permesso di soggiorno – ma impiegato senza contratto nella raccolta di pomodori – muore di fatica, marginalizzazione e sfruttamento nella campagna salentina.
Siamo di fronte ad una terribile eccezione? Una triste parentesi nella folgorante estate pugliese, capace di sospendere, per brevissimi istanti, il ritmo incalzante della musica in spiaggia, restituendo per pochi attimi un’immagine fosca del tetro passato dello sfruttamento nei campi, relegato sullo sfondo di un nuovo mondo che avanza, nel segno (e nel sogno) dei nuovi dispositivi culturali e informatizzati di inclusione economica, a suon di start up e imprese sociali?
Regimi di invisibilità
Più che al riemergere dell’eccezione, siamo di fronte ad un processo di rimozione strategica della condizione materiale – di lavoro e di vita – nelle campagne di tutta la Puglia. Non il fastidioso retaggio dell’arcaico passato, che riapre una piccola finestra sulla contemporaneità, avanzata e solidale. L’esistenza nella quale è stato ingabbiato, fino alla morte, Mohamed – lavoro a cottimo, irrisorio compenso di 3,50 euro ogni 3 quintali di pomodori raccolti – e le condizioni di vita alle quali era incatenato – costanti pressioni psicologiche, pervasivo controllo di caporali e imprenditori – rappresentano il regime abituale di produzione nei campi pugliesi.
C’è, dunque, un (rimosso) filo rosso che collega le campagne del Salento con quelle del sud della Spagna, che passa per le ampie distese del foggiano, abbracciando tutto il meridione d’Italia, arrivando fino in Grecia. Un filo rosso della violenza più sfrenata, resa invisibile in quanto inconfessabile e incompatibile con l’autorappresentazione della regione Puglia come patria di affermati startupper e sede di avanzate importanti progetti di innovazione sociale e tecnologica. L’invisibilità del fenomeno garantisce, per altro, un tendenziale anonimato alla miriade di aziende, locali e multinazionali, che usufruiscono incessantemente dei regimi giuridici e culturali di produzione della forza lavoro migrante nel segno della marginalità, della disciplina e dell’ assoluta economicità delle prestazioni lavorative.
Come avviene la produzione di questa forza lavoro? In cosa consiste l’altro filo rosso, che dall’arrivo in Italia, via nave, di Mohamed l’ha irrimediabilmente legato alla drammatica fine nei campi di pomodori? C’è un tipo di responsabilità dall’immediata evidenza: Mohamed era impiegato in un’azienda già sotto processo, con le accuse, tra le altre, – per imprenditori e caporali insieme – di riduzione in schiavitù, intermediazione illecita di forza lavoro, tratta di persone. Azienda che, nonostante l’inchiesta, continuava ad operare, impiegando manodopera in nero ed estraendo incessantemente profitto dalla vita e dalla morte della forza lavoro migrante.
Un richiedente asilo incatenato a condizioni di lavoro e di vita al limite della servitù nella regione più dinamica del mezzogiorno, impiegato in un’azienda sotto processo per circostanze analoghe a quelle che hanno causato la sua morte: cosa ha reso possibile l’esposizione di Mohamed alla totale dissoluzione del suo corpo, fino ad incrociare la morte per fatica a metà della sua prima giornata lavorativa in quel campo?
La vita e la morte di Mohamed sono il prodotto di raffinato regime di inclusione attraverso la differenza, che accomuna per tutti i Mohamed nei sud europei. La plastica immagine del suo corpo irrimediabilmente disteso tra i pomodori ci ricorda come la battaglia contro i vecchi e nuovi razzismi, per l’estensione dei diritti di cittadinanza nel segno dell’uguaglianza e della libertà non risieda nell’astratto mondo delle idee e dell’ideologia, ma la rimette urgentemente in connessione con la terribile materialità dell’attuale condizione migrante.
Retorica dell’innovazione sociale e schiavitù condividono il territorio e attraversano la società: lavoratori migranti e startupper si incrociano, per brevissimi attimi – cadenzati dalla gerarchizzazione giuridica e culturale di regimi di lavoro differenti – coesistendo nell’eterogeneo sistema produttivo pugliese. Temporalità differenti e regimi di lavoro differenziati che coabitano.
Chi e come rende possibile l’esistenza del lavoro migrante così marginalizzato? Più agenti, dispositivi e retoriche cooperano nella costruzione del retroterra culturale, giuridico e politico che rende possibile il configurarsi, nel 2015, della violenza e dell’alienazione più sfrenate. Il razzismo istituzionale e politico, formale o latente, viene alimentato (ed alimenta) la produzione di discorsi pubblici, saperi diffusi, stigmatizzazioni, etichettature, vecchi e nuovi orientalismi che rendono possibile il configurarsi di condizioni di esistenza così aberranti.
Una storia di confine
Quella di Mohamed è una storia di confine: di quello che ha attraversato nell’arrivo, nove anni fa, in Europa, delle speranze e dei sogni che l’hanno accompagnato appena il viaggio in barca si è concluso positivamente, dei confini giuridici che hanno scandito la sua vita, e dei confini culturali, discorsivi e informali che lo hanno separato – per sempre – dall’accesso agli standard minimi di esistenza, bianchi ed occidentali, fino ad incrociare la terribile morte nell’alto Salento.
Da questo punto di vista, le locuzioni Primavera pugliese, Puglia migliore, fino al Pugliamo l’Italia, cadute nel frattempo in disuso, assumono una fastidiosa sonorità se associate alle condizioni di vita e di morte, da nord a sud della regione, alle quali le migranti e i migranti sono esposti, senza soluzione di continuità, spaziale o temporale.
A questo punto della narrazione, in un contesto così tetro e agghiacciante, solo un poderoso discorso di verità e dignità potrebbe per lo meno favorire il sorgere di una memoria condivisa in relazione a quanto accaduto – e continua ad accadere – attorno a noi. Questa testimonianza di dignità, limpida e terribile, capace squarciare la spessa coltre dell’invisibilità che ha avvolto Mohamed e i suoi colleghi arriva da Marian, moglie del migrante sudanese scomparso, che ci aiuta a comprendere in cosa consista la specifica – e comune – soggettività migrante che ha indelebilmente segnato la vita di Mohamed.
“Non sapevo che stesse in quel posto, senza luce né acqua, anche se altre volte, quando è tornato dalla raccolta in Sicilia o in Calabria, mi ha raccontato di posti come questo, in cui dormivano a terra e facevano i bisogni sotto gli alberi. Io non ci sono mai andata, le donne non vanno in quei posti”; “Era contento, stava bene, faceva caldo ma non mi ha detto che stava male. Lui non aveva mai problemi, era forte, non era malato, io non so cosa sia successo”; e ancora “Lui era un ottimo padre, prima che un buon marito, affettuoso con i suoi figli e con me, mi difendeva in qualunque situazione e si prestava a fare qualunque lavoro per mantenerci. Viviamo con molte difficoltà, mio figlio maggiore ha dovuto lasciare la scuola perché non riuscivamo a mantenerlo, ma ancora è troppo piccolo per lavorare e mio marito pensava a tutto”, sono alcuni dei limpidi frammenti di dignità che ci ha consegnato Marian come racconto, presente e futuro, dell’invisibile e del rimosso nelle campagne pugliesi.
Anche il regime di governo della mobilità dei lavoratori, in una regione che si narra sempre più proiettata verso il turismo, nazionale e internazionale, al quale Mohamed e la sua comunità erano indissolubilmente legati, incessantemente scandito dalla stagionalità delle produzioni agricole e dalla richiesta di forza lavoro, in un continuo movimento di persone e cose per tutto il meridione, rende visibile come il diritto alla libera circolazione sia di esclusa pertinenza delle elite provviste di capitali. Per gli altri resta la possibilità – che, nei fatti, è una necessità economica e non una scelta – della circolazione indotta, nello spettrale pellegrinaggio da campo in campo.
Imprenditori sociali animati da bollenti spiriti da una parte; caporali, migranti e cassoni di pomodori dall’altra: concorrono, alla pari, alla produzione economica regionale. Regimi di produzioni differenti e compresenti: il primo gode di un ampio regime di visibilità, al limite della sovraesposizione, nella costruzione di un immaginario che induce all’omissione dell’oscura e inconfessabile violenza nelle campagne.
La morte di Mohamed ci ha insegnato – per l’ennesima volta – che la schiavitù non è un retaggio del passato ma una configurazione possibile di vita e di morte nel sud Europa, che i discorsi apertamente o celatamente razzisti producono conseguenze assolutamente tangibili sui corpi delle migranti e dei migranti, che il razzismo, vecchio e nuovo, è un terribile dispositivo di governo della forza lavoro migrante, e ha fatto luce sulla persistenza di condizioni coloniali nel mondo contemporaneo, fino al cuore delle regione d’Italia che si è autonarrata come innovatrice, in rapida trasformazione, accogliente e aperta.
Inutile negarlo: il confine è al centro dell’esperienza sociale ed economica pugliese. È un punto di vista essenziale per capire cosa attraversa la Puglia e, con essa, tutti i sud d’Europa. Gli effetti sul mercato lavoro del controllo dei confini sono più diretti, pervasivi, terribilmente efficaci di quanto si possa immaginare: Mohamed non può più raccontarlo. Che la dignità di Marian, invece, ci insegni a rendere visibili le condizioni di esistenza di tutti i Mohamed e le Marian del mondo, e a lottare con loro per la libertà e l’uguaglianza di tutte e tutti.