di SIMONE PIERANNI.

riprendiamo dal sito eastwest.eu questa analisi dell’involuzione autoritaria nella Cina di Xi Jinping; altri interventi di Simone Pieranni sulla politica di Xi Jinping qui e qui

Quella dell’Assemblea nazionale a marzo – le “due sessioni” nel gergo liturgico della politica cinese – sarà una ratifica scontata, così come era scontato il probabile superamento del doppio mandato per Xi Jinping. Nonostante questo, l’ufficialità dell’eliminazione del vincolo dei due mandati sbalordisce, perché arriva come ultimo tassello di un percorso che Xi pare aver chiaro da molto tempo.

Xi Jinping infatti, fin da subito, è parso muoversi al di fuori della logica della leadership collettiva che – soprattutto durante i dieci anni di Hu Jintao – era diventata il mantra del Partito comunista. Il concetto di leadership collettiva era una diretta emanazione proprio di Deng Xiaoping, padre reale di questa nuova Cina, molto più denghiana che maoista. Fu Deng a spingere perché nella Costituzione cinese venisse posto un limite alla durata della carica del presidente.
Carica che dopo il 1989 volle essere riassunta in un unica persona, ovvero il numero uno indiscusso, ma pur sempre “depositario” di un volere collettivo: il segretario del partito, nonché capo della Commissione centrale, da allora è anche il Presidente della repubblica. Tanto che, per Xi Jinping, si era immaginato un piccolo trucco illusorio: si pensava che Xi avrebbe abbandonato la carica di presidente, per tenersi oltre i dieci anni di mandato quella di segretario. Xi, però, ha deciso di prendersi tutto.
Nominato al vertice della politica cinese al termine di uno scontro interno ferocissimo, il numero uno all’inizio del suo mandato ha ottenuto mano libera tanto dai funzionari a lui alleati, quanto dai probabili nemici. Nel 2012, quando divenne segretario, la Cina usciva da uno scontro politico interno al Pcc durissimo, il partito era alla prese con una crisi di legittimità terribile e nel mezzo di uno tsunami economico del mondo occidentale che poneva a grande rischio anche lo sviluppo cinese. Serviva fermezza e determinazione.

In questa prima fase tra lotta alla corruzione, rinascita cinese – ovvero nazionalismo e nuova postura internazionale – e accaparramento di cariche e potere, Xi Jinping ha trovato un partito completamente ai suoi piedi: solo lui e la sua carica carismatica e popolare, il suo passato nobile e “comune” allo stesso tempo, devono essere apparsi un po’ a tutti come l’unica soluzione per lanciare la Cina e il sogno cinese. Poi Xi è divenuto il nucleo del Partito comunista, in seguito il suo pensiero “il socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” è diventato patrimonio ideologico tanto del partito quanto del Paese, infine questa nuova e storica possibilità: non annunciare la fine del proprio mandato.
A questo punto, perfino in Cina – e nonostante i mercati e dunque il capitale leggano positivamente questa svolta innegabilmente autoritaria – ci sarà pure qualcuno che non gradisce questa nuova evoluzione. Tanto più che Xi Jinping si pone completamente al di fuori proprio del denghismo, riconosciuto come stile, metodo e gestione del potere il padre di questa Cina che ha ereditato Xi.

Il tradimento di Deng, un appello ai legislatori

Anche perché c’è da credere che i timori riguardo possibili effetti nefasti in futuro non siano solo dei media occidentali. A questo proposito Evan Osnos sul New Yorker ha fornito un ottimo sunto sui potenziali pericoli di questa involuzione del sistema già autoritario cinese e delle sue possibili spiegazioni di comodo dei tanti amanti dei sistemi simil-dittatoriali: “Anche se la Cina si è allontanata dallo Stato di diritto, ha continuato a prendere decisioni concrete che sono servite al proprio futuro, investendo in infrastrutture, sostenendo la scienza e la ricerca e combattendo le misure di cambiamento climatico, mentre la paralisi politica ha caratterizzato gli Stati Uniti. Ma citare la disfunzione americana per giustificare la svolta della Cina dall’ordine politico è un errore. Entrambi sono davvero pericolosi, mi ha detto Minzner (sinologo della Fordham Law School ndr). E coloro che sono giustamente preoccupati che l’erosione istituzionale in Occidente stia portando alla riemergenza di tendenze a lungo soppresse – nazionalismo e nativismo – dal primo Novecento dovrebbero chiedersi: cosa potrebbe accadere se la Cina – un Paese in cui i controlli sul potere sono molto più deboli e le gravi instabilità politiche sono più vicine nella memoria – iniziasse a rivedere proposti e affermati alcuni processi storici?”.
Forse anche per questo motivo – e per quello che pare una sorta di eversione nei confronti del denghismo – una prima risposta è arrivata dalla società civile – sempre più schiacciata in termini di controllo sociale, dei media, delle informazioni, dal partito voluto da Xi – che ad ora non pare avere, non solo i mezzi, ma neanche gli ambiti dove poter mettere in discussione questa svolta autoritaria di Xi Jinping.
Qualcosa però si muove. Come riportato dal South China Morning Post, in una lettera aperta ai legislatori di Pechino in occasione del Congresso nazionale del popolo, Li Datong, ex redattore del China Youth Daily (un organo di stampa di stato associato alla Lega dei giovani comunisti, ndr), ha invitato i parlamentari a votare contro la proposta: “Il limite a due termini della presidenza introdotto nella costituzione del 1982 è un’enorme riforma politica da parte del Partito comunista cinese e di tutto il popolo cinese” si può leggere nella lettera. Senza questo limite, si legge nell’appello, “sarà il caos: per questo vi chiediamo di non votare questa riforma”.

Eredi a mani nude, esercito spuntato

E nel partito c’è qualche avversario di questa svolta? Come fa, infatti, un Partito comunista che ancora di recente, proprio per stroncare Bo Xilai e favorire Xi, ha bollato la Rivoluzione culturale come un momento di caos dovuto a certe gestioni personalistiche del potere e come qualcosa da non ripetere mai più, a tollerare questo “balzo all’indietro”?
Innanzitutto i primi a poter costituire un pungolo fastidioso per Xi potrebbero essere proprio quei dirigenti cinesi completamente asfaltati dalla modifica costituzionale. La sesta generazione di leader che avrebbe dovuto succedere a Xi dal 2023 è completamente bloccata. Non dipenderà solo da loro ma dai loro padrini: sarà dunque importante capire se l’ex presidente Hu Jintao o il grande vecchio Jiang Zemin vorranno muovere qualche minima o piccola sfida al potere di Xi. Perché altrimenti per i cosiddetti giovani del Pcc sarà notte fonda. E chi oserà sfidare il numero uno a mani nude sa bene quale sarà il suo destino: il carcere.
Un altro ambito che potrebbe costituire un limite a questo allargamento del potere da parte di Xi potrebbe essere quello dei militari. L’esercito è da tempo in una fase di totale rivoluzione e Xi spinge per la creazione di corpi speciali e per rafforzare la marina, due tipologie di eserciti che servono alla Via della Seta. Come reagiranno quei pochi papaveri – ovvero quei pochi non ancora purgati da Xi – a questa nuova stretta?

Come al solito niente arriverà in modo diretto o clamoroso: dovremo essere capaci di leggere nelle pieghe di articoli, foto, apparizioni, mezze frasi, se qualcuno, davvero, ha intenzione di limitare Xi.

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