di DANIELE PIZIO.

Le app che fanno movimento quando il virtuale incontra la strada sono software che possono essere usati per sfuggire alle forme di controllo della Rete e per coordinare le mobilitazioni di piazza.

1999. Esplode il movimento di Seattle. Migliaia di attivisti si muovono veloci tra le barricate in fiamme nelle strade di Praga, Nizza e Genova, e maturano presto una consapevolezza: perché un altro mondo sia davvero possibile è indispensabile per i movimenti sociali farsi media. Dal basso prende il via una straordinaria stagione di sperimentazione tecnologica: nasce Indymedia, prototipo ante litteram del web 2.0; si diffondono servizi e-mail orientati alla tutela della privacy – Riseup negli Stati Uniti, Autistici/Inventati in Italia – frutto dell’intuizione di chi già intravede nelle maglie della rete una soffocante stretta securitaria; e, molto prima che YouTube sia anche solo un’idea, vede la luce New Global Vision, una piattaforma di video sharing concepita per attivisti.

Lo spirito del «fai da te»
2010. L’immolazione di Mohamed Bouazizi in Tunisia è la scintilla che incendia una prateria resa arida da anni di umiliazioni e vessazioni. Dalle coste del Mediterraneo a quelle del Nord America, il fuoco si propaga rapido in un nuovo ecosistema tecnico fatto di connessioni mobili e comunicazioni istantanee. Il 99% si muove tra strada e rete – compenetratesi ormai in un rapporto simbiotico – mentre gli smartphone diventano strumenti di lotta fondamentali, tanto da costituire un nuovo terreno di sperimentazione collettiva. Ma i movimenti contro l’austerity non si accontentano di utilizzare in modo tattico le app delle grandi internet companies californiane: al contrario ne producono di proprie. Lo spirito Do It Yourself continua.

Nella Spagna devastata dalla crisi, i servizi di trasporto figurano tra le prime voci nei tagli alla spesa pubblica. Ça va sans dire, a pagare sono i cittadini: rincari dei biglietti insostenibili – a Madrid l’aumento è stato del 50% – e intensificazione dei controlli su metro e autobus, anche grazie ad un’estesa rete di videosorveglianza (3300 gli occhi elettronici che scrutano il subterràneo nella sola Barcellona).

«Ma la mobilità è un bene comune», afferma David Proto, animatore dell’associazione culturale Memetro.net. «Con la collaborazione in rete in tempo reale abbiamo deciso di riprendercela. E di controllare i controllori». Come? Con Memetro, una app per smartphone che permette di viaggiare gratuitamente e sfuggire alle multe. Funziona così: quando si incappa in un controllo è possibile inviare una segnalazione dal pannello dell’applicazione, indicando la fermata o la stazione in cui si aggirano gli ispettori. L’allarme si propaga e viene visualizzato sugli schermi di coloro che hanno scaricato l’app: evitare «incontri spiacevoli», sopratutto per le proprie tasche, diventa facile come saltare il tornello della metro.

Nato inizialmente su Twitter nel 2011, il sistema ha avuto enorme successo, tanto da spingere David e i suoi compagni a creare un apposito software per cellulari «indipendente dalla piattaforma in 140 caratteri e che si adattasse alle nostre necessità». Otto mesi di lavoro per un team di cinque persone formato da hacker, creativi e grafici. Il tutto finanziato attraverso goteo.org, un sito di crowdfunding con cui sono stati raccolti quasi 6000 euro. I risultati sono notevoli: considerato dai suoi creatori «un utensile di disobbedienza civile collaborativa», Memetro viene utilizzato ogni giorno da 15000 persone.

A colpi di cellulari
Nella penisola iberica l’agenda dei movimenti ha tra i primi punti all’ordine del giorno anche la lotta alle istituzioni finanziarie. Sopratutto dopo che l’anno scorso Bankia è stata riconosciuta colpevole di truffa per aver mandato sul lastrico più di 15000 correntisti. Tante infatti le persone rimaste al verde dopo aver investito i risparmi di una vita in pacchetti azionari ad alto rischio, spacciati come un affare sicuro dal principale istituto di credito spagnolo. «Anche i miei genitori erano stati raggirati – racconta Fanta, membro del collettivo hacktivistas.net – e quindi ho deciso di utilizzare tutti i mezzi a mia disposizione per vendicarmi del raggiro».

E la vendetta è arrivata nel maggio dell’anno scorso, quando il #15M ha lanciato un’ondata di flashmob – pacifici, creativi ma determinatissimi – che in una sola giornata ha portato al blocco di 21 filiali di Bankia a Madrid. Gli hacktivistas hanno dato il loro supporto pubblicando una piccola applicazione per Android e Facebook che permettesse, anche a chi quel giorno non poteva scendere in strada, di partecipare alla protesta. Come? Semplice. Bankiamap, oggi ribattezzata CuelgaMe, è in sostanza un elenco telefonico con tutti i numeri delle succursali di Bankia. Mentre i flashmob ingolfavano gli sportelli – per esempio effettuando una miriade di transazioni per pochi centesimi di euro o mettendo in scena recite teatrali davanti ai dipendenti allibiti – i centralini delle filiali venivano bombardati da migliaia di chiamate. «Molti si attaccavano alla cornetta e passavano ore a fare domande assurde su come aprire un conto corrente, pur non avendone alcuna intenzione – racconta Fanta con il sorriso sulle labbra -. Il nostro obbiettivo era far chiudere i loro uffici per un giorno, utilizzando la tattica del “cansinismo”: far perdere tempo al personale delle banche fino a portarlo allo sfinimento». Obbiettivo pienamente raggiunto. O, come direbbe Anonymous, «Bankia tango down».

Sottrarsi al terrorismo mediatico
E in Italia? Da noi la controcultura hacker non ha certo la medesima influenza che esercita sul movimento spagnolo. Eppure non mancano esperimenti interessanti. Un esempio è Cyber Resistance, crew di hacktivisti del centro sociale Cantiere di Milano. Il loro motto «Streets and net, united we stand» è cifra di una consapevolezza: quella per cui oggi i conflitti vanno combattuti sia sul piano materiale che sul terreno digitale comunicativo. «È per questo motivo – afferma Agnese – che in vista della manifestazione di Roma del 19 ottobre avevamo implementato RiseApp». Allora il coro mainstream dell’informazione nostrana, per alzare la tensione intorno al corteo, aveva strumentalmente profetizzato la calata dei barbari sulla capitale. L’applicazione prodotta dai ragazzi del centro sociale milanese Cantiere nasceva proprio per contrastare quest’operazione di terrorismo mediatico e allo stesso tempo garantire una copertura non distorta degli avvenimenti in strada.

RiseApp si ispira al megafono umano inventato da Occupy Wall Street e ne replica il meccanismo su Twitter. In che modo? L’utente scarica l’applicazione, si iscrive al servizio e mette in condivisione i suoi follower con i mediattivisti appartenenti al network di RiseApp. Quando uno di questi pubblica un tweet con un determinato hashtag – nel caso della dimostrazione capitolina era #19O – riportando quanto accade in piazza, gli iscritti al servizio lo retwittano automaticamente dai loro account, conferendogli maggiore visibilità. «È un modo per aumentare in tempo reale la portata e la diffusione dell’informazione di movimento», prosegue Agnese. Che chiosa: «il codice software è ancora in beta ma entro breve lo pubblicheremo: speriamo sia pronto per l’11 luglio», data in cui a Torino andrà in onda la contestazione del vertice europeo sulla disoccupazione giovanile.

La via del bluetooh e del wi-fi
Proprio in occasione del 19 ottobre, sugli organi di stampa filtrò l’indiscrezione secondo cui il Viminale sarebbe stato pronto a tagliare le connessioni mobili nelle zone della capitale attraversate dalla manifestazione. Sebbene alla minaccia non venne dato seguito, «sono sempre più frequenti i casi di manifestazioni in cui la connettività è limitata: o perché viene filtrata volontariamente dalle autorità o perché le celle telefoniche collassano sotto il peso di migliaia di smartphone», spiega Leonardo Maccari, ricercatore presso l’università di Trento. E in contesti simili un blackout informativo può avere ripercussioni gravissime: prima tra tutte l’impossibilità di documentare abusi e violenze perpetrati dalla polizia su attivisti e dimostranti.

Per ovviare al problema Maccari ha in cantiere un’applicazione per smartphone, anche questa chiamata RiseApp ma pensata con finalità diverse rispetto a quella di «Cyber Resistance». Il meccanismo immaginato dall’hacker fiorentino è il seguente: durante una manifestazione il programma viene lanciato in background sul telefono e scambia fotografie (attraverso bluetooth o wifi) con altri dispositivi su cui è stato installato. «L’informazione si diffonderebbe come un virus», sostiene Maccari. In questo modo, se anche la rete dovesse essere censurata, fosse sovraccarica o il proprio cellulare venisse sequestrato in caso di arresto, i fotogrammi che testimoniano gli avvenimenti verificatisi in strada verrebbero comunque replicati su una molteplicità di terminali e potrebbero essere pubblicati in rete in un secondo momento. Per effettuare uno studio di fattibilità del progetto, Maccari ha presentato una richiesta di finanziamento al Chest: le proposte più votate on-line entro il 30 giugno riceveranno una sovvenzione di 6000 euro. Meglio mettere mano al mouse, cliccare su www.riseapp.org e aiutare RiseApp a crescere. In un futuro non troppo distante potremmo averne tremendamente bisogno.

da IL MANIFESTO del 30 Maggio 2014

 

Download this article as an e-book