di FRANCESCO RAPARELLI.
Migliaia di persone, per cinque giorni di fila, hanno letteralmente invaso i dibattiti di C17 – La conferenza di Roma sul comunismo, tanto a Esc quanto alla Galleria Nazionale. In migliaia hanno attraversato la mostra Sensibile comune (presso La Galleria Nazionale), alla conferenza connessa. Un successo straordinario, destinato a lasciare il segno. Successo ancora più potente se si concentra l’attenzione sul tema: il comunismo. Una parola dimenticata, offesa, impronunciabile, maledetta, che ancora non smette di attirare l’odio delle penne forcaiole, d’improvviso riconquista la scena. E la scena esplode di corpi, di controversie e di passioni. Sarebbe accaduta la stessa cosa se si fosse deciso di parlare d’altro? Magari temi radicali, ci mancherebbe, omettendo però la parola comunismo? La risposta è netta: no.
Obiezioni facili, soprattutto per chi parla e scrive prima di vedere o preferisce parlare senza aver visto dal vivo, senza aver toccato l’evento: “una riunione di nostalgici, affollata sì, ma favorita dal centenario”; “la solita sinistra extraparlamentare italiana, tanti ma sconfitti”. Ma i fatti, si sa, producono attrito e le parole maligne girano a vuoto: tre quarti dei partecipanti erano giovani o giovanissimi (e almeno tre generazioni si sono incontrate); di questi tre quarti, almeno la metà era costituita da attivisti provenienti da tutto il mondo (Germania, Spagna, Grecia, Svezia, UK, Russia, Polonia, Argentina, Giappone, USA, ecc.). Partecipazione assai vivace, tra l’altro: non solo le conferenze, ma decine di interventi nei quattro workshop e nell’assemblea finale. Una presa di parola collettiva.
Torniamo al problema: perché una conferenza sul comunismo produce tutto questo? E perché lo fa proprio ora, mentre Trump si insedia alla Casa Bianca, la barbarie e la guerra dilagano, il neoliberalismo si nazionalizza e la catastrofe economica non fa che ripetersi? Provo con una risposta semplice, utilizzando la frase nota di un filosofo – Gilles Deleuze – che non ha mai smesso di pensare il desiderio come potenza creativa: «un po’ di possibile, altrimenti soffoco». Il presente si biforca, la violenza del capitale ha cancellato le mediazioni riformistiche, il New Labour e la socialdemocrazia. Una nuova accumulazione originaria, oramai cronica e che mette al centro processi estrattivi del valore sempre più duri, s’impone. Comunismo, allora, è il segno del possibile. Si insedia Trump, ma cinquecentomila donne assediano Washington, tre milioni sono in piazza in tutto il mondo: comunismo significa «scegliersi la parte», anche e soprattutto nella catastrofe. Comunismo significa ricordare che la «città è divisa», sempre, anche quando i rapporti di forza sono sfavorevoli e la resistenza dei poveri viene sconfitta. Comunismo è segno di alternativa, proprio quando il comando neoliberale ripete ossessivamente il mantra «there is no alternative».
Sorgono ancora domande: perché, se il capitale ha vinto ovunque e si presenta – secondo alcuni – come potere totalitario, che ci ha tolto anche l’anima, continua a menare senza sosta? Se la cooperazione sociale e l’innovazione tecnologica sono interamente di parte capitalistica, per quale motivo rilanciare in forza la violenza dell’accumulazione? Perché recinzioni, espulsioni, sfollamenti, guerra razziale e guerra in generale, se l’1% comanda senza ostacolo alcuno? Comunismo, e così è stato in queste straordinarie giornate appena trascorse, segnala che il capitale è sempre un rapporto, che l’innovazione tecnologica e le macchine linguistiche sono quanto meno un campo conteso, che la cooperazione sociale eccede il tempo di lavoro. Ottimismo? No, pacato realismo rivoluzionario.
C17 non è stato un concerto sinfonico. Le voci sono state tante, diverse, in molti casi contrastanti. C’è stato chi ha insistito sulle istituzione comuniste come alternativa radicale allo Stato e chi, dello Stato, vuole conservare alcune o molte funzioni; chi ha rivendicato la centralità del partito e chi quella dei movimenti; chi ha privilegiato la potenza del capitale (e il suo comando algoritmico sulla cooperazione) e chi quella del lavoro vivo e la sua relativa autonomia. Tutte e tutti hanno chiarito che non potrà esserci comunismo futuro senza primato della differenza e critica radicale dell’identità e dell’universale neutro. Comunque sia, C17 è stato un terreno eterogeneo, spesso dissonante, sicuramente polifonico. Eppure comune. Comune nella ricerca di un orizzonte capace di illuminare, oltre l’evento, lotte e insorgenze sociali. C’è desiderio di pensare in grande, senza arrendersi alle sirene del populismo. Lo ha mostrato la bella assemblea conclusiva, dove ancora centinaia di persone hanno discusso su quanto fatto e cosa fare in futuro.
C17 non scriverà un nuovo Manifesto, ma una serie di proposizioni per un Manifesto a venire. Le dissonanze rimarranno e la scrittura, dopo un primo canovaccio, sarà collettiva. Dopo C17, così deciso dall’assemblea, ci sarà C18 e poi ancora gli anni a venire. Altrove, non in Italia. Non sarà il festival del comunismo, ma un laboratorio transnazionale di produzione teorico-politica; in combinazione e risonanza con lotte e movimenti sociali. Dalle domande alle proposizioni, da queste ultime al Manifesto. Questo il modo di procedere. Non sarà facile, è chiaro, perché non è facile farla finita con il settarismo – così insopportabile in Italia – e mettersi in gioco, magari tradendo le tradizioni di riferimento. Ma non esistono soggetti e perimetri già dati, servono processi aperti, disponibilità a navigare, molto coraggio.
Questo intervento è stato publbicato su alfabeta2 il 24 gennaio 2017