di BEPPE CACCIA.
«Per due volte nella sua storia più recente la Grecia si è trovata sull’orlo dell’abisso: durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato Dopoguerra, così come dopo la crisi economica mondiale del 2008/9 e fino a oggi, negli anni della depressione in corso.» Così apre Karl Heinz Roth il suo Griechenland am Abgrund. Die deutsche Reparationsschuld (per i tipi Vsa Verlag, Amburgo), agile opuscolo dato alle stampe nel marzo scorso, a due mesi dalla vittoria elettorale di Syriza.
Un testo da leggere proprio in queste ore, alla vigilia del decisivo referendum sulle proposte presentate dalle cosiddette «Istituzioni europee» ovvero la Troika, insieme al precedente volumetto, redatto nel maggio 2013 dallo storico tedesco insieme a Zissis Papadimitriou, sociologo e politologo all’Università Aristotele di Salonicco, e tradotto lo scorso anno in Italia da DeriveApprodi col titolo Manifesto per un’Europa egualitaria. Come evitare la catastrofe.
Allora si trattava di analizzare i tratti omogenei delle politiche dominanti la scena continentale, individuando i costanti effetti sociali dell’austerity implementata nei precedenti quattro anni: ritorno della disoccupazione di massa, generalizzazione del lavoro precario, smantellamento delle residue garanzie sociali e collasso dei diritti democratici segnalavano per Roth e Papadimitriou «la cupa tendenza» dell’Europa contemporanea.
Oggi l’attenzione torna sulla Grecia, assunta come caso paradigmatico delle conseguenze di quelle politiche e, al tempo stesso, specifica variante di cui vanno comprese fino in fondo le genealogie, fino al punto di individuare precise ricorrenze storiche. In questo senso, quello che può essere considerato uno dei più significativi esponenti dell’ «operaismo» di lingua tedesca articola in due momenti la sua lettura dell’attuale passaggio.
Innanzitutto delineando, a partire dalla puntuale descrizione del contesto socio-economico ellenico, una proposta finalizzata a sostenere su scala europea quella che definisce, in riferimento alla nuova stagione inaugurata dall’insediamento del governo guidato da Alexis Tsipras, «una ripartenza della Grecia».
I diktat della Troika e i tagli sociali che sono stati imposti – argomenta Roth – hanno portato il paese alla «rovina»: è stato bruciato circa il quindici per cento del «capitale-sostanza» e il rendimento economico complessivo drasticamente ridotto per oltre il trenta per cento. I dati sono catastrofici sia che si guardi agli investimenti produttivi, sia ai livelli della domanda interna. Lo storico ricorda come sia stato proprio The Economist ad affermare che «l’economia greca corre sul vuoto.» Con quali ricadute sociali è noto: gli indici di disoccupazione superano ormai il 26 per cento, 340.000 persone hanno alimentato una nuova ondata di emigrazione, il reddito reale è crollato di un altro 26 per cento, mentre il 40 per cento della popolazione sopravvive al di sotto della soglia ufficiale di povertà.
L’espansionismo tedesco
Nella caparbia, e insensata anche dal punto di vista macro-economico, insistenza del perseguire politiche di austerity Roth chiama da subito in causa il ruolo giocato dalla Germania a partire dagli anni Cinquanta. «Un’opzione strategica fondamentale» fin da quando gli Stati Uniti decisero di fare prima della Repubblica Federale, poi della nazione riunificata, la potenza egemone in Europa: quella del «neo-mercantilismo» ovvero del sistematico contenimento dei salari (e del reddito sociale indiretto) combinato con una strategia di dumping per l’export della produzione manifatturiera. In altre parole «per permettere un processo economico espansivo, è stata costruita un politica interna estremamente restrittiva».
Tale opzione viene rafforzata, dalla fine degli anni Settanta in poi, dalla creazione del sistema monetario europeo, fino alla nascita della valuta unica. Per questo le élite tedesche non possono permettersi di accettare la «virata verso moderati modelli di politica economica neo-keynesiani», che è certo al cuore delle proposte programmatiche di Syriza, ma costituisce anche il tratto caratterizzante alcune scelte negli Stati Uniti: «le combattono con feroce accanimento per salvare il modello tedesco.»
La proposta di Roth per salvare non solo la Grecia, ma per sottrarre l’intera Europa a una situazione molto pericolosa, guarda però ancora più indietro. «Vi è una sorta di complesso d’inferiorità da parte delle élite germaniche nei confronti dei greci», sia per l’esito dell’invasione nazista del 1941, sia per i negoziati sui risarcimenti di guerra conclusi nel 1953.
Nel primo caso pensavano di annettersi facilmente la Jugoslavia e la Grecia stessa, e invece incontrarono un forte e radicato movimento di resistenza. Nel secondo il governo ellenico fu allora tra i pochi a pretendere che fossero riconosciute consistenti riparazioni per le tragiche ingiustizie subite. E – sottolinea Roth – non si trattò «soltanto di un paio di villaggi dati alle fiamme» quanto di una pesantissima «ipoteca posta dall’occupazione» sull’economia, sulla società e sulla vita stessa dei greci. Ad Atene e dintorni furono testate quelle pratiche di devastazione e saccheggio, destinate poi ad essere scientificamente applicate nell’attacco all’Unione Sovietica: la Grecia fu costretta a farsi carico dei costi dell’occupazione, ma anche a finanziare con un prestito forzoso i costi complessivi delle infrastrutture per la prosecuzione della guerra in Nord Africa e in tutto il Mediterraneo orientale. «Il risultato fu che, nell’inverno 1941/42, oltre centomila persone morirono di fame nelle grandi città dell’Ellade». Questo portò, si noti il parallelismo storico, alla combinazione di «un’economia alternativa di sussistenza, esodo urbano verso le campagne e diffusione della resistenza armata nelle aree rurali». I nazisti furono sorpresi dalla reazione popolare e reagirono con una «politica del massacro accecata dall’ira». Solide stime parlano di 100mila case distrutte e 56mila tra bambini, donne, uomini bestialmente assassinati.
Ma non c’è stata alcuna proporzione tra la «dimensione mostruosa dell’occupazione e del saccheggio nazista» – segnala qui lo storico – e l’entità dei risarcimenti di guerra poi riconosciuti. Diversi giuristi, di ogni provenienza, si sono già espressi ricordando come la partita delle riparazioni non possa essere considerata affatto conclusa, nonostante le ipocrisie di tutti i Governi Federali fin qui succedutisi. Karl Heinz Roth ha il merito di affrontare il tema fuori da ogni logica nazionalista e cancellando ogni facile retorica revanchista: come in tutto il suo percorso di studioso e militante, è il nesso stringente e inaggirabile tra memoria e schieramento di classe a balzare in primo piano.
La Bundesbank ha riserve auree sufficienti, per non parlare di altre risorse che potrebbero essere messe in campo, per finanziare con un «atto generale di risarcimento» un piano straordinario in cui, come punto di partenza decisivo, dovrebbe collocarsi la decisione del Governo tedesco di approvare una immediata «moratoria e taglio del debito» greco.
Il tracollo europeo
È questo l’ossigeno per la crisi economica e sociale della Grecia, necessario anche a consentire una «nuova fondazione europea.»
Perché – come già sostenuto da Papadimitriou e Roth in Die Katastrophe verhindern, e reso a tutti evidente dalla miope e criminale gestione, da parte delle oligarchie europee, dell’ultima fase dei negoziati e dell’indizione del referendum – di fronte a questo «l’Eurozona e l’intera Unione Europea rischiano il tracollo, sul fronte economico con l’esplosione di povertà su vasta scala e sul fronte politico con l’emergere di destre estreme e nuove spinte nazionalistiche.» Se figura centrale dell’odierno assetto europeo è proprio la Germania, che contrasta apertamente ogni iniziativa volta a riequilibrare i rapporti sociali, nessun ritorno alle sovranità nazionali, politiche o economiche, è ormai praticabile. La risposta sta in altri presupposti: nello sviluppo di un nuovo e più vasto movimento sociale, che «non solo sostenga e protegga l’esperimento di governo greco, ma impari anche ad affrontare la questione etico-politica di una radicale ridistribuzione». Che sappia – aggiungiamo – contrapporre alla dominante produzione politica della paura, la capacità di «portare la paura nel campo nemico» (come si poteva leggere su uno degli striscioni di Blockupy a Francoforte lo scorso 18 marzo), quello delle oligarchie e del capitalismo finanziario. Solo così sarà forse possibile promuovere processi di cambiamento in tutti gli ambiti della vita, dentro un nuovo progetto di Europa democratica e federale. Solo così sarà forse possibile «evitare la catastrofe».
questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 4 luglio 2015